Cosimo Schinaia è psichiatra, già Primario Direttore presso il Dipartimento di Salute Mentale di Genova, psicoanalista, membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e Full Member dell’International Psychoanalytical Association. Ha scritto numerosi articoli scientifici su riviste italiane ed estere e saggi in raccolte. Tra i suoi libri ricordiamo: Dal manicomio alla città. «L'altro presepe» di Cogoleto, Laterza, Roma-Bari, 1997; Il cantiere delle idee, La Clessidra, Genova, 1998; Pedofilia pedofilie. La psicoanalisi e il mondo del pedofilo, Bollati Boringhieri, Torino 2001 (tradotto in inglese, spagnolo, portoghese, francese, polacco e tedesco); Il dentro e il fuori. Psicoanalisi e architettura, Il Melangolo, Genova 2014 (tradotto in inglese). Il suo ultimo libro Interno Esterno. Sguardi psicoanalitici su architettura e urbanistica, edito da Alpes Italia nel 2016, è attualmente in traduzione in spagnolo.
Doriano Fasoli: Dove e quando è nato questo raffronto fra psicoanalisi, architettura e urbanistica?
Cosimo Schinaia: La necessità di un contatto e di una contaminazione feconda delle discipline psicologiche, e specificamente la psicoanalisi, con l’architettura e l’urbanistica ha radici profonde e rimanda agli sguardi di me bambino a Taranto, rivolti alle abitazioni che direttamente davano sui vicoli della città vecchia, il luogo dove sono nato. In via Cava, una delle vie più antiche, dove si trovava l’asilo infantile che frequentavo, si potevano scorgere le stanze in cui vivevano, promiscuamente ammassate, famiglie numerose, e fin d’allora avvertivo la sconnessione tra l’intenso e orgoglioso anelito alla pulizia e all’ordine e all’armonia domestica degli abitanti, bambini compresi, e l’impossibilità di una loro accettabile realizzazione, a causa della ristrettezza e dell’inadeguatezza anche igienica degli spazi abitativi.
Quelle immagini mi sono tornate in mente quando, durante la mia esperienza come direttore di un ospedale psichiatrico (quello di Cogoleto e poi delle strutture residenziali di Quarto a Genova), quelle primitive e ingenue intuizioni hanno trovato conferma nel prendere atto delle contraddizioni tra spazi che avrebbero dovuto essere di contenimento emotivo ed affettivo e che invece sono diventati spazi di imprigionamento, di esclusione, di azzeramento della libertà. Una porta chiusa a chiave resta sempre una barriera obiettiva e invalicabile. Se una porta equivale a un muro e non a un varco comunicativo, ciò introduce una grave alterazione dei significati degli spazi e degli usi, un’ambiguità semantica che può caricarsi di significati negativi e distruttivi insospettabili.
Sono stato l’ultimo direttore dell’ospedale psichiatrico di Cogoleto e in un libro (Dal manicomio alla città. L’altro presepe di Cogoleto, Laterza, 1997) ho evidenziato specificamente come gli aspetti strutturali rendessero vane le intenzioni terapeutiche, per cui, quei falansteri potevano soltanto essere chiusi, facendo nascere, al loro posto, comunità terapeutiche adeguate allo scopo primario, quello della cura. Il modello che propongo per queste comunità è quello del convento con il percorso che va dalla cella, luogo massimamente privato e consacrato allo studio, al raccoglimento e al riposo notturno, al chiostro che, mettendo in contatto il coperto con lo scoperto, funge da deambulatorio e da riparo ed è luogo di conversazione sommessa e intima, di meditazione silenziosa ma collettiva. Quindi si giunge alla chiesa, luogo di comunicazione ritualizzata, poi al refettorio, luogo dello scambio ancora ritualizzato ma meno formalizzato, infine alla sala capitolare, dove si svolgono le assemblee dei monaci, uno spazio più libero, in un certo senso preludio di una socialità che prefiguri l’esterno, l’uscita mondana dal monastero verso l’aperto della piazza. Si tratta di utilizzare elasticamente diverse partizioni spaziali, in modo da permettere ai diversi linguaggi un’espressione non irrigidita, non irreggimentata a priori da ricettacoli privi di duttilità, consentendo potenzialità espressive e comunicative multiple e liberamente interscambiabili.
Nel mio ultimo libro Interno Esterno, cerco di far vedere come anche gli attuali servizi sanitari, ospedali civili, ambulatori, non rispondano architettonicamente e simbolicamente alle esigenze del cittadino malato e anzi spesso non le riconoscano e non le rispettino. Il discorso ovviamente si apre alle case, alle città, alle modalità di esistenza via via diventate più complesse, ma non sufficientemente riconosciute, interpretate e rispettate da un’architettura e un’urbanistica che dovrebbero avere a cuore il benessere delle donne e degli uomini e che invece troppo spesso propongono progetti sensazionalistici che devastano il territorio, invece che trasformarlo creativamente in relazione alle modificazioni storiche dei bisogni materiali e psicologici dell’uomo.
In particolare, grazie alla mia lunga esperienza di psicoanalista, mi soffermo sulla stanza di analisi, sulla partizione degli spazi, sulla luminosità, sugli arredi, sulla distanza tra lettino e poltrona, tutti elementi che entrano significativamente nella costruzione del setting analitico e, quindi, nella relazione analitica, evidenziando come attualmente la presenza di un arredamento certamente sobrio, ma che testimoni anche gli interessi estetico-culturali dell’analista, non rappresenti più una situazione da evitare accuratamente come in passato. Le mie annotazioni, ovviamente, non intendono proporre un modello architettonico di stanza d’analisi, perché mi rendo conto che si possa correre il rischio che eccessive semplificazioni mettano in secondo piano l’originalità, l’unicità di ciascuna stanza di analisi, così come l’integrazione dei dati spaziali e percettivi con il mondo interno del paziente e la specificità di quella relazione analizzando-analista.
Itaca, la mitica Itaca… Lei inizia da là, dalla sua esperienza di emigrante, per quanto privilegiato, da Taranto a Genova. Chi è il migrante?
Emigrare vuol dire entrare in contatto con il nuovo, con l’ignoto, con l’altro da sé, farsene attraversare senza farsi assimilare, senza farsi annichilire; vuol dire conservare ben salde le proprie radici senza farsi però risucchiare dall’identità originaria, senza evitare la fatica del lavoro di trasformazione che porta a separarsi dall’ovvio, dallo scontato di troppo facili e fisse appartenenze. Si tratta di mettere in atto le necessarie acrobazie per tollerare e magari valorizzare un’ambivalenza tanto insuperabile, quanto feconda, restando, come un funambulo, in equilibrio instabile sul crinale che separa sicurezza da insicurezza, noto da ignoto, riconoscimento da spaesamento, identificazione con l’origine da identificazione con lo straniero.