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4 dicembre 2021

«Doriano Fasoli. “Derive. Schegge di vita in versi e in prosa”» di Luciano Albanese

 


Doriano Fasoli

Derive. Schegge di vita in versi e in prosa

Prefazione di Stefano Santuari

Alpes, Roma 2021

X-139 pp.

€ 15,00

ISBN: 8865317345



Scrittore, critico, giornalista e sceneggiatore, studioso e docente di psicoanalisi e letteratura, Doriano Fasoli si ripresenta ora al pubblico in veste di poeta. Lo stile di Fasoli, sul quale tornerò, ricorda quello delle ‘poesie in prosa’ di Rimbaud, ed è particolarmente in linea col contenuto dell’opera, bene compendiato dal titolo. Come una barca che ha perso gli ormeggi e fluttua alla mercé della corrente – spiega Fasoli – così è la vita. Non si sa da dove si parte, non si sa da dove si viene e non si sa dove si arriva. È un moto che i greci definivano ‘planetario’, ovvero ‘errante’, come quello dei ‘pianeti’, appunto, chiamati così perché nella prospettiva geocentrica apparivano retrogradi. Tuttavia, osserva Fasoli, verso la fine di questo viaggio ‘planetario’ ci si accorge che non è tanto importante la meta – peraltro ignota – ma certe stazioni incontrate lungo la via.

 

Derive è il ricordo, tradotto nella forma poetica, di un centinaio di queste soste, siano esse incontri, interviste, ricordi di viaggio o emozioni vissute interiormente. Si inizia con infanzia e adolescenza, dove emerge la figura della madre e soprattutto del padre, controfigura di Jean Gabin nel Porto delle nebbie. Poi il militare, e successivamente l’incontro decisivo con Stefano Santuari, autore della bella prefazione. Gustosissima la loro irruzione nell’eremo di Camaldoli: un tentativo di fuga mistica dal mondo risolto in tagliatelle ai funghi porcini e telefonate di nascosto alle ragazze, prima della inevitabile cacciata dal convento. Anche Michele Psello, mutatis mutandis, fece un’esperienza simile, prima che il gorgo della vita lo risucchiasse di nuovo. 

 

Esperienze di vita e di morte si intrecciano continuamente nel libro di Fasoli. Dal sofferto ricordo della lunga, eroica sofferenza di Martine alle interviste con Carmelo Bene e Fabrizio De André, entrambi destinati a una vita breve, ma quasi consapevoli di questo, e del fatto che dopo sarebbero vissuti perennemente nel ricordo. Altre figure note emergono dal ‘Vortice di incontri’ che vede sfilare personaggi come Barilli, Maria Luisa Spaziani, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Cesare Brandi, colto nella serenità della bella villa di Vignano di Siena, Emilio Garroni, Giovanni Macchia, Toti Scialoja, Sergio Endrigo, e altri ancora. In Appendice ritroviamo Carmelo Bene, intervistato nel corso del suo memorabile Riccardo III, Emilio Garroni, il cui ricordo mi riporta agli anni della Sapienza, ed Elémire Zolla, il nuovo, aristocratico vate della filosofia perenne di Agostino Steuco. E ancora, l’indimenticabile ritratto di Marguerite Duras, che aveva ribattezzato Fasoli ‘Terence Stamp’.

3 dicembre 2020

«“The Bourne Legacy”, il futuro in atto» di Luciano Albanese

 


Schiacciato dagli altri episodi della serie Jason Bourne, privo di Matt Damon, evocato, ma non presente, come l’Achille omerico sotto la tenda; infestato da alcuni spezzoni dei film precedenti della stessa serie, The Bourne Legacy (2012) poteva avere l’apparenza di un centone poco digeribile e inutile. Io stesso mi ero sempre rifiutato di vederlo. Poi mi è capitato di trovarlo su Netflix e ho capito che avevo fatto male. Il film offre in apertura alcune scene bellissime ad alta quota, che impegnano colui che si era già rivelato un grande attore in The Hurt Locker (2008), Jeremy Renner, in una difficile gara di sopravvivenza fisica, a tu per tu con la natura selvaggia delle montagne dell’Alaska e circondato dai lupi. Ma sopravvive alla grande, e da questo si capisce che deve avere un fisico fuori del comune. Attraversate le montagne, si dirige verso una baita in mezzo alla neve e alla foresta, dove l’aspetta un uomo, altrettanto in buona salute. Aaron Cross, questo il nome del protagonista, dice all’abitatore della baita che ha perso la sua dotazione di medicine, e ne chiede di nuove.

 

Nel frattempo abbiamo capito, dalle scene precedenti e dagli spezzoni degli altri film, che i due sono agenti, e che siamo nel corso di un’altra delle operazioni coperte che già hanno reso la vita difficile a Jason Bourne. Ma qualcuno ha deciso di terminare questa operazione che rischia di essere scoperta e, come nei Tre giorni del Condor (1975), di chiudere la bocca a tutti gli agenti coinvolti. Quindi lo stesso drone che il giorno prima aveva rifornito la baita di materiali, torna improvvisamente e la distrugge in modo spettacolare insieme al compagno di Aaron che stava al suo interno.

2 ottobre 2019

«“Elogio delle merci”, tre racconti di Isacco Turina» di Cinzia Baldazzi





La ricchezza delle società nelle quali 
predomina il modo di produzione capitalistico 
si presenta come una “immane raccolta di merci” 
e la merce singola si presenta come sua forma elementare.
Karl Marx, 1867


Nelle tre storie allineate sotto il titolo Elogio delle merci (Coazinzola Press, Mompeo 2018, pp. 302), «il lettore incontrerà le storie minuscole di qualche esistenza umana che si dibatte senza riposo all’ombra maestosa delle merci», spiega l’autore Isacco Turina, «nel loro ciclo infinito di produzione, distribuzione e smaltimento». 

La solitudine e l’alienazione di un’impiegata quarantenne addetta al collaudo manuale di prodotti finalizzati alla vendita («Lo scherzo»); la catastrofica esperienza di decine di clienti costretti in un supermercato a causa dell’infuriare di un uragano («La ginestra»); la vicenda agro-dolce di un giovane disoccupato il quale in una discarica alle porte della città trova il lavoro e l’amore («Il custode»).

In una sapiente architettura semantica “a scala”, Turina introduce nel primo racconto gli oggetti commerciali, destinati nel secondo a essere collocati, distribuiti nel grande circuito, per poi preparare la discesa narrativa della cosalità con l’abbandono e il deperimento nell’ultimo brano. L’utilizzo del climax a lato dell’anticlimax si svolge anche all’interno del plot di ciascuno dei pezzi (mediante effetti di progressione e poi di ingerenza minoritaria dei segni-segnali prescelti).

Tuttavia il maggior interesse critico ha luogo, in base a quanto già accennato, quando il medesimo accorgimento si estende al livello superiore di struttura del libro, alla sua architettura, prendendo le mosse dalla silenziosa spietatezza de «Lo scherzo», innalzando il narrato all’apogeo della distruzione ne «La ginestra», infine sigillando una conclusione “discendente” con «Il custode». Infine, l’ambiente dove si conclude il primo brano introduce lo spazio d’azione del secondo, mentre quest’ultimo termina con una riflessione su quello che sarà l’oggetto centrale del terzo.

Insomma, sembra ancora valido l’avvertimento formulato da Umberto Eco all’alba degli anni ’70 ne Le forme del contenuto: «Una cultura, per organizzare le proprie esperienze, deve nominarle: deve cioè fare corrispondere a elementi di forma dell’espressione elementi di forma del contenuto» e, allo scopo di mantenerne intatta la reciproca efficacia, essi dovranno compiere iter di intensità parallela. 

27 aprile 2019

«“Il secchio e lo specchio”, poesie di Francesco Lorusso», di Cinzia Baldazzi




Francesco Lorusso
Il secchio e lo specchio
Nota di Guido Oldani
Manni, San Cesario di Lecce 2018, pp. 96


In un’ironia tutta sua, Jean Cocteau era solito affermare:

Gli specchi dovrebbero pensare più a lungo prima di riflettere.

Ebbene, nella silloge Il secchio e lo specchiodi riflessioni ne vengono offerte numerose, da parte del nostro pensiero e di quello che potrebbe appartenere alle cose in sé: in particolare, a una complessa, arbitraria, ma in certa misura veritiera superficie riflettente di esse. Accade quasi che l’autore Francesco Lorusso, nelle articolate parabole discendenti causate dalla «perdita della memoria e del senso civico», in gran parte relativa all’«onnipotenza elettronica», si liberi dell’idea incombente della morte, illuminata però a tratti, come sostiene Guido Oldani nella nota al testo, in un’atmosfera di casa e di mare, per mezzo di una «scrittura incardinata in questa epoca». E prosegue:

Ma la parabola della traiettoria di queste sequenze dirada il tratteggio mentre si va verso l’apice della narrazione. Man mano la metrica s’impone, persino unitamente a delle tracce di espressionismo d’altre latitudini. Poi, quando la scansione sta andando a compimento, compare qualche concessione al respiro geografico.

Così in Lorusso percepiamo:

La folla già si fondeva al fumo
scuro della sera quando il sogno
si sedeva dietro l’ordine del giorno
accarezzando tutte le nostre cose
come un canto alto di vento
Perfino l’urlo sottile ghiaccia la superficie
e finge di fuggire la goccia di quella bocca
da un pensiero nella pancia che non ritorna
nel dissapore che con forza digerisco per te.

(p. 12)

I versi rievocano alla mente, chissà come, quelli di Nazim Hikmet quando nella poesia «Mosca, 1962» tentava di allontanarsi dal presagio di un’incombente fine:

Mi sono spogliato dell'idea della morte
ho infilato il fogliame di giugno dei viali
quello di maggio era un po’ giovanile per me
tutta un'estate mi attende tutta un'estate in città
con le sue pietre il suo asfalto fuso
le sue gazzose il suo ghiaccio
le sue sale di cinema sudate
gli attori di provincia dalla voce rotonda
[…]
con le poesie che leggerò al balcone
e con i tuoi capelli un po’ accorciati1

9 febbraio 2019

«A proposito di “Kafka sulla spiaggia” di Haruki Murakami» di Nicola d’Ugo



Kafka sulla spiaggia è il decimo romanzo dello scrittore giapponese Haruki Murakami. È stato pubblicato la prima volta in Giappone nel 2002. Il romanzo ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il World Fantasy Award. La storia è ambientata in Giappone. Se si volesse attribuirle una datazione, essa coinciderebbe, rispetto agli eventi principali, al maggio-giugno 1999, non fosse che il confronto delle età dei personaggi e delle date degli eventi risulta, comunque le si prenda, inconsistente. Questo serve a conferire un carattere onirico e mitico alla vicenda quale proiezione immaginifica e involontaria del suo protagonista.

Protagonista della storia è un quindicenne che scappa di casa il giorno del suo compleanno per sfuggire ad una nefasta predizione/maledizione scagliatagli dal padre, secondo la quale il giovane lo avrebbe ucciso per congiungersi con la madre e la sorella. Durante la fuga il ragazzo dice di chiamarsi Kafka Tamura, sia perché gli piace lo scrittore Franz Kafka, sia perché Kafka in ceco (kavka) è un tipo di corvo.

Kafka Tamura è un solitario, che non ha superato il trauma d’essere stato abbandonato dalla madre (di cui non conosce il nome) quando aveva quattro anni, la quale si è invece portata con sé la figlia adottiva che ne aveva dieci, lasciandolo col padre, un famosissimo artista visivo col quale il ragazzo non ha praticamente più rapporti se non il fatto di vivere nelle stesse mura domestiche e d’esser da lui mantenuto economicamente. Kafka è senza amici e non ride mai, ma immagina di parlare col suo Super-Io, che viene indicato dall'espressione «il ragazzo chiamato Corvo».

Lasciato il suo quartiere di Tokyo, Kafka va a vivere nel sud del Giappone, a Takamatsu, dove conosce la parrucchiera Sakura, il bibliotecario Ōshima e la signora Saeki, direttrice di una piccola prestigiosa biblioteca privata. Tra fantasia, sogno e realtà, ha rapporti sessuali con Sakura e Saeki, che immagina essere rispettivamente la sorella e la madre. Quest’ultima ha una storia dolorosissima alle spalle, che viene alla luce poco a poco, nutrendo l’immaginario di Kafka.

Nonostante Saeki sia un personaggio di profonda personalità, di eccezionale bellezza e dalla vita tormentata, essa rimane purtroppo una figura votiva ed apollinea superficialmente abbozzata, come il ritratto d’una Madonna o d’una Venere raffigurata da un pittore di media grandezza, piena di movenze e tratteggi ripetitivi e stereotipati. Saeki è l’oggetto d’amore di Kafka ed accentra su di sé gran parte della storia. Non aver meglio sviluppato questo stupendo personaggio degno di ben altra raffigurazione credo costituisca la nota più dolente di Kafka sulla spiaggia.

14 ottobre 2018

«Le complesse oscurità dell’“Edipo Re”» di Valter Santilli



La rappresentazione dell'Edipo re vista l'8 luglio, in prima mondiale, nella suggestiva e straordinaria cornice del Teatro Grande di Pompei – pieno di un pubblico giovane – non è propriamente la rappresentazione testuale della tragedia scritta da Sofocle, essa è certamente la pregevole realizzazione teatrale di un grande regista, Robert Wilson, considerato tra i più importanti artisti visuali e teatrali al mondo. Wilson ha rivolto il suo sguardo e la sua creativa sensibilità all'antico mito/leggenda del re Edipo. Wilson con linguaggio artistico multisensoriale/sinestesico, poliglotta e multiculturale, particolarmente espressivo, propone al pubblico un originale 'evento teatrale', uno spettacolo di grande potenza evocativa, fatto di danza, musica e poesia. Lo spettacolo è ispirato alla tragedia Edipo re, l'esemplare opera di Sofocle rappresentata la prima volta ad Atene nel 429 a.C. nel teatro di Dioniso, il teatro che servì da modello per la costruzione dell'antico Teatro Romano di Pompei.

Il regista americano in una intervista tiene a marcare le coincidenze che si sono date in un arco temporale che va ben oltre i due millenni: per questo l'Oedipus di Wilson, dopo Pompei, verrà replicato nel mese di ottobre a Vicenza, nel Teatro Olimpico del Palladio e poi di seguito a Napoli presso il Teatro Mercadante, nel gennaio 2019, prima della tournée internazionale.

Pierre Vidal-Naquet ha scritto, nel testo Mito e tragedia due, che la storia moderna del teatro di Sofocle comincia il 3 marzo del 1585, data in cui venne rappresentato Edipo tiranno nel Teatro Olimpico del Palladio a Vicenza. L'illustre grecista ha modo di commentare che, purtroppo, il cielo dipinto che domina la scena del Teatro Olimpico non può essere paragonato all'aria aperta del teatro greco. Da allora, scrive, ogni generazione tenta di scoprire il vero Sofocle e il vero Edipo, di comprendere quanto più possibile il significato che avesse, per il suo autore e per il pubblico ateniese del V secolo, la rappresentazione di questa straordinaria tragedia.

Nell'era moderna, durante il secolo a noi più vicino, Sigmund Freud è stato colui che più di altri è riuscito a 'rivitalizzare' i contenuti di questa antica e 'oscura' tragedia di Sofocle, rendendo di nuovo il nome e le vicende di Edipo culturalmente vivi, 'palpitanti' e popolari. Freud trasse dalla polverosa trama della antica tragedia alcuni attuali e profondi significati psicologici che egli legò a «un evento [psichico] generale della prima infanzia [...]. Se è così, si comprende il potere avvincente dell'Edipo re». In campo letterario, in epoca moderna, diversi grandi autori hanno sentito il bisogno artistico di rivisitare la tragedia di Edipo – secondo Aristotele essa era la tragedia per eccellenza – tra questi Hölderlin, Hofmannsthal, Gide, Cocteau per finire con Pasolini e la sua opera filmica Edipo re.

2 luglio 2018

«Kenzaburō Ōe, “Un'esperienza personale”» di Nicola d'Ugo


Ōe con la moglie Yukari Ikeuchi e il figlio Hikari.

Un'esperienza personale è un romanzo dello scrittore giapponese Kenzaburō Ōe, Premio Nobel per la letteratura nel 1994. Breve e intensa, la narrazione, edita a Tōkyō nel 1964, prende spunto dalla congenita anomalia cerebrale del figlio di Ōe. Particolarmente interessante in questo romanzo è il complesso di Laio che muove l'azione del giovane padre protagonista della storia, in lotta per eliminare subdolamente il figlio lasciandolo scivolare nei meccanismi burocratici delle istituzioni ospedaliere nipponiche.

Il nocciolo fondamentale dell'«esperienza» (narrata in terza persona) è il tentativo del protagonista Tori-bird di rifiutare il proprio passaggio alla maturità, che gli farebbe venir meno certe comodità ovattate dell'eterna giovinezza di giapponese sposato con una donna di buona famiglia. Se non fosse che la vita è più complicata delle aspettative e la nascita di un figlio «bicefalo» e «mostruoso» gli fornisce l'alibi per metter da canto le proprie responsabilità e profittarne per far della sventura del figlio una tragedia in sordina che ricada sul neonato incosciente dell'universo sociale in cui ha visto la luce. E già solo per questo Ōe dimostra una presa demoniaca e geniale che egli saprà sciogliere, da suo pari, in un atto di umanità dell'espressione artistica e filosofica.

Ricordo qui, per inciso, oltre all'Edipo re di Sofocle, il mito della nascita di Mosè, abbandonato alle acque del Nilo, e quello dei fondatori di Roma, i quali costituiscono alcuni antecedenti classici di questo romanzo, seppure essi siano ribaltanti nella prospettiva, poiché lì ne sono protagonisti i figli. Meno discrepante è il fatto che nei testi classici i protagonisti siano dei nobili, a fronte del fatto che in Giappone, non meno che in Italia, il nocciolo duro dei poteri forti si stanzia in contesti locali, anche familiari, piuttosto che in una centralità soverchiante dello Stato.

Sempre per inciso, si noti che il nome del protagonista Tori-bird, anch'esso frutto di una dicotomia 'bicefala', costituisce la ripetizione della parola «uccello» in giapponese e in inglese, come se non fosse possibile denominare l'identità di Tori e Bird se non per due concetti accostabili, ma non coniugabili in un'unità ferma: Ōe scinde in due il carattere del giovane in una matrice nipponica autoctona e in un'aspirazione a prendere il volo per l'Occidente abbandonando le proprie radici e le proprie responsabilità. Al contempo, siccome la traduzione dal giapponese in inglese avrebbe potuto suonare anche Tori-bard, Ōe disgiunge la metafora dell'uccello migratore, che cerca di sfuggire al proprio destino, da quella del poeta cantore, del «bardo» del luogo, della società nipponica, insomma, in cui vive.

Con questo voglio sottolineare che l'ambientazione affatto realistica (e talvolta straordinariamente visionaria e carnale) in cui si dipana la vicenda è arricchita di riferimenti più o meno espliciti ai miti e alle cronache internazionali; al contempo, il linguaggio di Ōe dà luogo ad un sincretismo semantico di non immediata presa, su cui è più facile riflettere a lettura ultimata, in ragione di una poetica attenta al linguaggio e proclive alla messa in crisi delle convenzioni linguistiche, non in quanto puro gioco istrionico del romanziere, ma perché nel linguaggio sono riposti i concetti e il nostro modo di interpretare sensazioni e sentimenti che ad essi rimandano. Notevole è il ricorso, nei romanzi di Ōe, a stili sostanzialmente diversi a seconda della materia trattata.

9 maggio 2018

«Su “Romanzo per la mano sinistra” di Giancarlo Micheli» di Luciano Albanese



Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017), di Giancarlo Micheli, consta di 102 capitoli per complessive 635 pagine. Si tratta di un lavoro molto accurato e molto impegnativo, che emerge prepotentemente dal panorama letterario più recente. Racconta, attraverso le lettere di Stefan al figlio Bruno, le vicissitudini di una famiglia ebraica, Adele (chiamata alternativamente col diminutivo Ada) Stefan e Bruno, in un periodo che va dall’annessione dell’Austria alla Germania nazista alla fine del ‘secolo breve’. Lo sfondo delle vicende dei protagonisti è costituito da una folta galleria di personaggi storici, che acquistano una solida autonomia compositiva – a tratti persino preponderante – e costituiscono una sorta di romanzo parallelo rispetto al filo principale della narrazione. Sfilano così davanti a noi Hitler, Mussolini, Freud, Concetto Marchesi, Marie Bonaparte, Ciano, Luchino Visconti, Alicata, Valerio Borghese, Mario Capanna, Feltrinelli, Asor Rosa, Pasolini, insieme ad altri personaggi indirettamente collegati alle vicende principali, come ad es. Enrico Fermi e gli scienziati di Los Alamos. In effetti una buona metà del romanzo è occupata da questa galleria di personaggi, di cui Micheli, grazie ad un paziente lavoro storiografico, ricostruisce, in uno stile ‘tucidideo’, le conversazioni intercorse. Al punto che potrebbe sorgere il dubbio se il vero sfondo dell’opera siano piuttosto le storie di Stefan, Adele e Bruno, che da questa ottica funzionerebbero da elemento di raccordo.

In realtà i due piani del romanzo si intersecano continuamente, perché i personaggi storici in questione sono, più spesso direttamente che indirettamente, la causa prima dell’odissea dei protagonisti, e quindi della loro tragica fine. Anche una ricostruzione sommaria delle loro vicende – che non credo inutile – è in grado di mostrare quanto e fino a che punto essi abbiano dovuto subire l’iniziativa di chi aveva in mano le leve effettive del potere.

Adele, una storica dell’arte, e Stefan, uno psicanalista, vivono e lavorano felicemente a Vienna insieme al neonato Bruno, quando l’annessione dell’Austria alla Germania nazista li costringe a fuggire in Italia, la patria di Adele. Lì tuttavia nuove difficoltà sorgono in seguito alla promulgazione delle leggi razziali. Dopo una inutile supplica allo stesso Mussolini, i due chiedono consiglio sul da farsi sia a Freud, che, vicino alla morte, li indirizza a Parigi, presso la sua allieva Marie Bonaparte, che a Concetto Marchesi, che li indirizza verso l’Urss, apparente fucina di un futuro migliore. Decidono per la seconda soluzione, e giungono a Leopoli. Lì Stefan viene contattato dall’Nkvd, che lo arruola fra i suoi agenti. Dopo il patto Molotov-Ribbentrop e la spartizione della Polonia, i due ritengono più sicuro trasferirsi a Cracovia sotto la protezione della contessa Lanckorońska. Ma Stefan viene intercettato da ufficiali della Wehrmacht che stanno complottando contro Hitler e intendono servirsi di lui come diagnostico della psicopatologia hitleriana (oggetto della sua tesi dottorale). La congiura fallisce sul nascere, e Stefan viene costretto dai congiurati, per mantenere la sua copertura, ad arruolarsi nelle SS come medico psichiatra. Nel frattempo Ada, ritenendo che della scomparsa di Stefan sia responsabile la contessa Lanckorońska, fugge con Bruno e, mezza assiderata, trova rifugio e momentanea pace nel monastero di Bielany. Tuttavia una improvvisa retata delle SS condurrà Adele e Bruno di fronte al Gruppenführer Heydrich, che invaghito di Adele le prometterà salvezza in cambio di amore.

1 maggio 2018

«Su “Ogni parola, un essere” di Márcia Theóphilo» di Doriano Fasoli



Presentare Ogni parola, un essere (Rubbettino, Soveria Mannelli 2018) è come presentare l’opera omnia di Márcia Theóphilo, perché ogni singolo lavoro entra a far parte degli scritti precedenti, li assorbe, ne viene assorbito, un filo sottile li lega l’uno all’altro. Sempre diversi, eppure sempre uguali.

Quante scritture sono così intensamente speculari ai paesaggi da cui sorgono come quelle latinoamericane del nostro seco­lo? Non è certo una pura metafora affermare che la ricchezza di queste scritture è la stessa della giungla tropicale: ricchezza paradossale e barocca, sontuosa e malata, fatta di tinte assurde e di un'immensa putrefazione, di insostenibili dolcezze e di agguati mortali. Piuttosto è l'insieme delle metafore, e di tutte le figure del linguaggio, a esser messa senza tregua in gioco dall'incandescenza, dalla voracità di una simile fornace creativa. 

Su questo sfondo la poetessa brasiliana Márcia Theóphilo sa ritagliarsi degli spazi fortemente personali, nutriti non solo da un'insaziabile passione per i miti delle etnie amazzoniche ma, insieme, da una nitidezza singolarissima di visione. 

In Tristi tropici, scrive Lévi-Strauss che la foresta brasiliana ha, rispetto alle nostre, un grado superiore di ‘presenza’: «come nei paesaggi esotici di Henri Rousseau, le sue creature raggiungono la dignità di oggetti». Anche i versi della Theóphilo sanno restituirci il sortilegio struggente e inquietante dell'Amazzonia con tocchi plastici e netti, non per un deside­rio di riportare la complessità infinita degli esseri, delle cose e dei gesti agli stilemi rassicuranti dell'esotico, ma per il bisogno di testimoniare tutto ciò che, nonostante questa complessità, sa sottrarsi al rischio dell'informe e del caos, sa disegnare, dall'interno stesso della grande Metamorfosi, figure arcane di bellezza e splendore. 

Tutto il mondo poetico della Theóphilo è fondato su un sentimento vivissimo, non simbolista ma primordiale, delle corrispondenze tra i fenomeni e il cuore pulsante dell'uomo: «quando si agita una canzone /si muovono le acque del fiume»; «Quando la mente si oscura /perde colore anche il suono». Come un secondo cuore più segreto, spesso tamburi battono tra le pieghe di questi versi increspandoli nelle cadenze di un messaggio dall'ignoto, dal fondo enorme, scivoloso del tempo. Oppure flauti tracciano nel vento fili sottili di colore, o è il vento stesso che raccoglie le tracce dei colori e le scioglie, le porta a farsi ritmi, o sospiri, o sensi. In questa tramatura di analogie e di riflessi nessun valore è riservato al sentimento dell'ego: nessuna presunzione di autonomia, di distanza della mente dalle cose ha più diritto di cittadinanza qui, dove «s'intrecciano serpenti e pensieri», dove la bellezza si schiude e si offre in «un riso di frutta», in «un corpo di brezza», in «capelli di fili di fumo». Grappoli iridescenti d'im­magini s'inseguono nello spazio della visione come onde elastiche, come cascate di doni magici o divini: «Cavalli, nidi, uccelli, farfalle, /legni, monti, rami, sfere, fiumi, ruscelli». Mai il dominio vaporoso del possibile aveva raggiunto tanta forza tattile: la densità dei frutti più succosi, la fragranza delle polpe più ricolme di luci. 

6 marzo 2018

«“Il divino egoista” di Attilio Bertolucci e Doriano Fasoli», di Cinzia Baldazzi














Il divino egoista
Attilio Bertolucci e Doriano Fasoli
Alpes Edizioni
Roma 2018
Prefazione di Franco Cordelli
Presentazione di Paolo Lagazzi
Scritti di Enzo Siciliano, Alfonso Berardinelli, Elio Fiore
Euro 10,00
70 pp.
ISBN: 88-65-31442-7










In tempi di sfacelo delle poetiche, la poesia resiste.
(Attilio Bertolucci, da «Un’ansia religiosa senza maledettismo», Il Giorno, 11 giugno 1975)

Divino egoista, lo so che non serve
chiedere aiuto a te
so che ti schermiresti.
Abbitela cara – dice – quest’ombra
verde e questo male. Evasivo
scostandosi lo copre con una
sua foglia di gaggìa –
                                         biglietto
d’invito a una festa che ci si prepara
vaga come una nuvola
in groppa all’Appennino.

(Vittorio Sereni, «A Parma con A. B.»,
agosto 1978, parte IV)


Ricordo di aver sfiorato l’esperienza di intravedere il futuro presente e prossimo del comunicare in generale, e nello specifico di matrice letteraria, quando nelle pagine d’esordio de L’ordine del discorso di Michel Foucault leggevo:

Nel discorso che devo oggi tenere, e in quelli che mi occorrerà tenere qui, forse per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente. Più che prendere la parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni inizio possibile.1

Poco dopo il filosofo francese, davanti al pubblico dei suoi nuovi studenti e al corpo accademico, sosteneva:

Mi sarebbe piaciuto che dietro a me ci fosse (avendo preso la parola da un pezzo, superando in anticipo tutto quello che sto per dire) una voce che parlasse così: «Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna dire parole finché ce ne sono […], è forse già cosa fatta, mi hanno forse già detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, dinnanzi alla porta che s’apre sulla mia storia, mi stupirei si aprisse, questa porta».2

È come se nel libro Il divino egoista, di Attilio Bertolucci e Doriano Fasoli, gli enunciati del testo citato, proiettati in un rigoroso ma elegante meccanismo utopico, prendessero parola (al di fuori, è ovvio, del mitico ed hegeliano Jean Hyppolite, ammirato maestro di Foucault) dapprima tramite il critico firmatario dell’articolata intervista, quindi con il poeta, «nella tranquillità del salotto in penombra» della casa romana di Monteverde, con un Bertolucci ironico e vivace, «pieno di grazia e leggerezza, e di un garbo antico» e con una «profondità di pensiero che è propria degli uomini più semplici».3

Nato a San Prospero, frazione di San Lazzaro, nella campagna vicino a Parma – città nella quale frequentò il Convitto Nazionale «Maria Luigia» – si laureò in Lettere all’università del capoluogo di regione, ateneo scelto non appena Roberto Longhi ottenne la cattedra di Storia dell’Arte. «Nel 1935 andò a insegnare a Bologna», spiega Bertolucci, «e mia moglie, che studiava lì, sentì la sua famosa prolusione sulla pittura bolognese da Vitale (riscoperto da Longhi) a Morandi».4

21 gennaio 2018

«“La vita di Adele”. Adele e la sua ‘differenza’» di Silvia Maria Pettorossi



Noi stessi non abbiamo la vita sacra. Ne parliamo solo per aver preso coscienza che manca al mondo, che gli manca e che ci manca. Vorremmo legare un mondo che si disfa, ma non abbiamo la corda, e non siamo in grado di sapere perché questa corda non è nelle nostre mani; è perché la vita non serra più i suoi nodi in noi, è perché la vita stessa ci manca.

G. Bataille, Il limite dell’utile

Fuori è notte. Una torrida notte d’agosto in cui è difficile che Morfeo venga a farti visita. Trepidante per la snervante attesa, decido di condividere l’intimità della mia stanza con il pc, alla ricerca di qualcosa che possa dare senso ai minuti e, forse, alle ore. Mi imbatto casualmente – ma sono un po’ bugiarda – nella pellicola, pluripremiata a Cannes 20131, La Vie d’Adèle. Chapitres 1 & 2 (La vita di Adele. Capitoli 1 & 2 nella versione italiana) di Abdellatif Kechiche, tratta dal fumetto di Julie Maroh Le bleu est une couleur chaude2. L’attenzione s’era infatti – altrimenti destata – mediante un trailer intravisto in qualche inframezzo pubblicitario, nonché dal gran clamore che ne ha accompagnato l’esordio sugli schermi italiani e non solo. Consapevole che tali tempeste marcano in genere la massima lodevolezza o il suo opposto, decido di spendere almeno un po’ del mio tempo. Tanto per ora non ho visite.

Sullo sfondo della cittadina francese di Lille, si incontrano e si scontrano le esistenze, declinate nei corpi vivi e incandescenti, delle due giovani protagoniste: Adele (Adèle Exarchopoulos) ed Emma (Léa Seydoux). Corpi vibranti di passione che sembrano fondersi in un unico movimento armonico, non sfuggendo all’occhio ‘generoso’ della macchina da presa.

Lungi dall’essere un softcore, La vita di Adele è molto di più. Oserei dire quasi l’epitome di una certa filosofia francese contemporanea tradotta in immagini. Come all’interno di un toolbox, vi si trova di tutto – perfino Sartre con la sua lettera-manifesto L’esistenzialismo è un umanismo – spiegato dalle erudite parole di Emma a una giovane Adele, che poco si intende di filosofia, alla quale preferisce la musica di Bob Marley.

Nonostante la preponderanza dell’intreccio amoroso tra le due giovani, uno tra gli spunti più importanti che la pellicola offre, a mio avviso, è proprio la sollecitudine alla riflessione sul grande topos filosofico della libertà come chiave di lettura dell’opera.

Forse uno sguardo poco attento, o ‘poco esperto’, potrebbe dissentire, ma se si presta attenzione alla resa delle figure femminili, all’accento posto sull’elemento “oscuro”, passionale, e soprattutto a come questo venga declinato in due diverse, opposte modalità, le tessere del mosaico iniziano a prender forma rendendo il quadro più nitido.

Chi siamo noi in quanto soggetti, «identità»? Come si pone la relazione verso quest’ultima tra termini ad essa interdipendenti come «libertà» e «responsabilità»? Siamo progetto gettato nel mondo, abitati da una libertà sostanziale, ontologica, assoluta, che vede un io assertivo all’altezza della propria scelta, o siamo forse soggetti decentrati, segnati da una part maudite ineliminabile, che disfa i nostri progetti identitari obbligandoci, di volta in volta, ad una laboriosa ricostruzione di noi stessi?

16 dicembre 2017

«“La stagione dell’amore” di Claudia Monteiro de Castro», di Cinzia Baldazzi




A volte, leggendo opere di poesia, dinanzi all’invocare un «nulla che sia pieno del tutto», in particolar misura se l’invito è ramificato in un’intelaiatura di regole formali e logiche alternative, vengo tentata a scoprirne l’incentivo ideale, il motivo urgente. Sono spinta a indagare perché esso è capace – evitando di sostare nella fantasia all’ombra di un sogno, sia pure dilatato nello spazio e nel tempo – di piegare l’ars dell’autore a utilizzare un metalinguaggio poetico, operativo e tangibile, offrendo, sia pure nel breve intervallo di strofe, un nucleo intuitivo inerente alla vita in atto, e dunque a noi: insomma, una sorta di perché del versificare esistenziale ed energico, onnipresente.

In «Ti racconto un segreto», scrive Claudia Monteiro de Castro:

Di una cosa sono sicura
ci sono ancora i poeti
a vagabondare per il mondo.

Condivido, da tanta esperienza, tale certezza e, interpretando la silloge La stagione dell’amore (Palombi Editore, Modena 2017) di questa poetessa nata a Rio de Janeiro e residente a Roma da oltre un quindicennio, ho avvertito quanto la sua prospettiva nasconda, in realtà, nella trama semiologica intessuta, un profondo mosaico di pertinenze, niente affatto legato alla τύχη (týchē) greca, cioè al caso. Come presume la nostra autrice, magari, in giro vagano cantori «mascherati, / in borghese»: per comprenderli meglio, o decifrarne il cuore del messaggio, per riconoscerli tra molti, sarebbe opportuno camminare piano e, con uno sguardo scrupoloso, osservarli.

Ma a quale motivazione o incentivo alludo? Alla tensione diffusa di affrontare le parole – mentre «inseguono», «volano», «aleggiano» – per mezzo di significanti-significati immersi in un target artistico in modo responsabile e a termine: non complici dell’erroneo principio che l’individualità possieda una chiave esplicativa di ampiezza universale (suggerisce Claudia: «L’inchiostro sgorga / seducente: le pagine vuote / si arrendono / innocenti»), piuttosto inclini a rovesciare il simbolismo scontato e onnisciente in una lingua quotidiana, legittimata dall’uso. Una simile oggettività è stata edificata collettivamente da paradigmi di vocabolo e contenuto, ricchi di spiritualità e virtù coerenti, per un lato tipiche dell’umanità nella storia, nei millenni, per l’altro caratteristiche del concetto in sé dell’arte, dove il locus delle metafore è chiarito da solo, generando ed essendo generato.

In «Cammino a via Camozzi» si legge:

A tutto ci si abitua:
all’allegria, alla tristezza,
al vizio, all’astinenza,
alle parole fiacche,
ai giorni opachi,
[…]
Non trarre in inganno,
però,
l’immobilità delle cose.
Anche le rocce si muovono.

Per la Monteiro de Castro, ogni fenomeno o mera sembianza è da catturare nella perpetua differenza, scortati in una dinamica orientata a frantumarli, non annullandoli: l’autrice ne ricava una ratifica della loro saldezza proprio nell’essenza suscitata, antagonista di sicurezze categoriali limitative. In conclusione:

E basta poco:
sfiorarsi,
annusarsi.
Basta un passo
e di colpo
si capovolge
tutto.

Cogliendo un costrutto così plasmato, scaturisce immediato il quesito del perché l’ambito del conscio, non mirando a consacrare un criterio normativo di apprendimento e sintesi, pure sia ritenuto la fonte peculiare sulla quale gli scrittori possano persistere: con la reale conoscenza imperniata su intuizioni, nella poetica della Monteiro l’eventualità di continuare a nutrire opinioni non sviluppate su un simile percepire, si configura spontanea come un giudizio da scartare.

28 novembre 2017

«Recensione di "Envoi Gramsci. Cultura, filosofia, umanismo" (a cura di Neil Novello)» di Luciano Albanese



La recente pubblicazione della raccolta di saggi su Antonio Gramsci curata da Neil Novello, Envoi Gramsci. Cultura,filosofia, umanismo (Campanotto ed., Pasian di Prato 2017, pp. 174), cade in un momento particolarmente appropriato, il centenario della Rivoluzione d’ottobre. Infatti sarebbe difficile spiegare il pensiero di Gramsci e la sua evoluzione senza fare riferimento a questo evento. Come ricorda Michele Maggi nel suo contributo, la rivoluzione bolscevica venne definita da Gramsci, nel celebre articolo dell’Avanti! del 24 novembre del ’17, una «rivoluzione contro il Capitale». Gramsci aveva ragioni da vendere, perché la rivoluzione comunista era scoppiata dove meno il marxismo se lo sarebbe aspettato, vale a dire non in un paese di avanzato sviluppo capitalistico, come l’Inghilterra, la Francia, la Germania o anche gli Stati Uniti, ma in un paese costituito in maggioranza da contadini, e con poche sacche di capitalismo ancora agli albori dello sviluppo. Ciò rappresentò un forte argomento per tutti coloro, compreso il ‘rinnegato’ Kautsky (secondo la colorita espressione di Lenin), che pensavano che la rivoluzione si sarebbe dovuta arrestare alla fase democratico-borghese, cioè a Kerenskij, e (eventualmente) aspettare tempi più opportuni per decollare.

Ma Gramsci non era disposto a gettare la spugna. Da questa rivoluzione contro il Capitale egli trasse la dottrina e la forza che gli fecero pensare che la rivoluzione comunista non era una ‘missione impossibile’, né in paesi arretrati – come era ancora sotto molti aspetti l’Italia – né in paesi altamente sviluppati, come la Germania, dove era stata soffocata nel sangue. La prima e più importante ‘vittima’ della rivoluzione contro il marxismo ortodosso operata da Gramsci fu – come dimostrò Bobbio in un celebre intervento – il concetto di ‘società civile’. Si tratta di un nodo centrale del pensiero di Marx e Engels. Engels, nello scritto del 1885 «Per la storia della Lega dei Comunisti» è molto esplicito su questo punto: «Non lo Stato condiziona e regola la società civile, ma la società civile condiziona e regola lo Stato [e] dunque la politica e la sua storia devono essere spiegate sulla base dei loro rapporti economici e del loro sviluppo, e non viceversa».

Come si capisce, nella visione di Engels e Marx la società civile è il luogo della lotta fra capitale e lavoro salariato, e quindi – tradotta in un linguaggio approssimativo, che Marx ha usato di rado, e che richiederebbe molte precisazioni – appartiene all’ordine della ‘struttura’ (del modo di produzione capitalistico). Ma Gramsci capovolge questo caposaldo dottrinale, perché in lui la società civile appartiene all’ordine della ‘sovrastruttura’, e quindi all’ordine delle idee, della cultura, della filosofia, anziché a quello dell’economia politica. Emerge bene qui la distanza di Gramsci sia dai bolscevichi – ai quali pure deve lo stimolo a uscire dalla camicia di forza del marxismo ortodosso – che dalla corrente di sinistra della II Internazionale (divenuta poi III Internazionale).

10 giugno 2016

«Breve nota sull'universo gender di Giancarlo Ricci» di Giovanni Sias

 

 

 

Sessualità e politica. Viaggio nell'arcipelago gender
Giancarlo Ricci
SugarCo
Milano 2016
EUR 16,80
240 pp.
ISBN: 88-71-98701-2

 

 

 

 

 

La lettura dell’ultimo lavoro di Giancarlo Ricci, Sessualità e politica (2016, SugarCo ed.), impegna in alcune riflessioni che riguardano da vicino la nostra vita nella contingenza storica, ed è anche, e forse soprattutto, occasione per trovare una via non ideologica per tentare di cogliere che cosa passa oggi a livello mediatico e dei luoghi comuni che attraversano le società del nostro tempo. Forse è questa l’indicazione contenuta nel sottotitolo del libro «Viaggio nell’arcipelago gender». E che il «gender», espressione di una libertà falsa e distorta, sia di ordine squisitamente ideologico mi sembra fuori di dubbio. Che una persona ritenga di poter scegliere il «genere» a cui appartenere benché nasca maschio o femmina, e si ritenga in potere di sovvertire tale statuto biologico ancor prima che antropologico, non può che essere frutto di un’idea di onnipotenza sostenuta dalla potenza della tecnica.

Che si tratti di ideologia lo sottolinea anche il fatto non irrilevante che in questo dibattito sociale non sembra che ci sia spazio per discutere, sia sul piano etico sia su quello scientifico: il pensiero gender, sostenuto dai programmi accademici di psicologi e sociologi (e cioè di quelle teorie che il nostro Ugo Spirito chiamava «false scienze») che ne hanno costruito l’ideologia, si presenta come indiscutibile e corre per la sua strada egemonica senza trovare ostacoli, sostenuto dalla politica e dalla falsa-scienza dei nostri tempi.

Che Giancarlo Ricci abbia voluto, con questo libro, portare il confronto sul piano del linguaggio, evitando ogni trabocchetto ideologico, è il suo merito, ed è il suo tentativo di riportare un dibattito sul piano della scienza.

Infatti, se vogliamo leggerlo dobbiamo partire dalla frase tratta da Freud e messa in esergo: «La psicanalisi non ha il compito di rendere impossibili le relazioni problematiche, ma di creare per l’Io del paziente la libertà di optare per una soluzione». Qui si trova, o almeno così a me pare, l’indirizzo per leggere in modo corretto il libro di Ricci.

La struttura del libro poi rimanda a questioni e temi che si sviluppano eminentemente sul piano linguistico. Organizzato come un dizionario prende in considerazione tutti i termini (dalla A di abuso alla V di vittimismo) che caratterizzano il linguaggio intorno a tali questioni, e se seguiamo il percorso che analizza il senso che le parole acquisiscono nell’«arcipelago gender», e più in generale nel linguaggio corrente, ci accorgiamo come tutto questo discorso su una presunta facoltà umana, che non vuole tener presente la sessualità come elemento determinato dal caso (naturale, biologico, e anche antropologico per quanto riguarda una cultura dell’umano), ma lo considera solo un elemento sociale, in cui la sessualità è pensata come scelta «libera» di un ipostatizzato e illusorio soggetto a cui la filosofia da lunghi anni (quattro secoli!) ci ha assuefatti, ci troviamo a constatare come il trionfo del narcisismo scivoli sempre più nella perversione, e che le società attuali, sul piano finanziario, tecnologico, economico e politico, attuano la perversione come espressa possibilità di dominio, di controllo e di assuefazione delle coscienze.

Qui non si tratta più di porre la questione intorno alla libertà di essere o di riconoscersi omosessuale, per esempio, ma ben peggio, di confinare l’omosessualità in una specie di enclave antroposociogiuridica per specie protette, e di dare a essa uno statuto sociale che nulla ha a che fare con quanto viene sbandierato come libertà sessuale o umana. In realtà, se grattiamo anche solo un poco l’apparenza, ci accorgiamo che non di libertà si tratta, perché un tale meccanismo di controllo, attuato sul piano tecnico e politico, comporta esattamente il suo contrario dal momento che procede dalla negazione di uno statuto simbolico dell’umano e amputa per ciascuno la possibilità di riconoscersi per ciò che è sul piano della sua nascita: nato maschio, nata femmina, destinato dal caso a essere uomo o donna. Tolto il caso che mi ha generato che cosa mi resta di una mia autentica libertà? Tolto il caso che ci ha fatto maschi o femmine non ci resta forse solo la sottomissione alla tecnica, la cui realizzazione di potenza può prevedere solo che l’uomo diventi niente più altro che «un mezzo» per accrescerla?

Ricci se ne avvede, coglie i rischi insiti nell’ideologia, e lo scrive in conclusione della sua «Introduzione»: «L’ideologia gender risulta così la punta più avanzata, ipermoderna e neoliberale di gestione e controllo della soggettività. In nome di una tecno-biologizzazione essa propone una negazione dello psichico per celebrare il trionfo narcisistico dell’Io a discapito del bene comune». E qui, «bene comune», dovrebbe essere inteso come la sessualità che concerne ciascuno e non come una ipotetica «libera scelta»; come quel processo di individuazione che ci fa uomini e donne, indipendentemente dalla «scelta» sessuale (omosessuale o eterosessuale) in cui siamo implicati nostro malgrado.