3 dicembre 2020

«“The Bourne Legacy”, il futuro in atto» di Luciano Albanese

 


Schiacciato dagli altri episodi della serie Jason Bourne, privo di Matt Damon, evocato, ma non presente, come l’Achille omerico sotto la tenda; infestato da alcuni spezzoni dei film precedenti della stessa serie, The Bourne Legacy (2012) poteva avere l’apparenza di un centone poco digeribile e inutile. Io stesso mi ero sempre rifiutato di vederlo. Poi mi è capitato di trovarlo su Netflix e ho capito che avevo fatto male. Il film offre in apertura alcune scene bellissime ad alta quota, che impegnano colui che si era già rivelato un grande attore in The Hurt Locker (2008), Jeremy Renner, in una difficile gara di sopravvivenza fisica, a tu per tu con la natura selvaggia delle montagne dell’Alaska e circondato dai lupi. Ma sopravvive alla grande, e da questo si capisce che deve avere un fisico fuori del comune. Attraversate le montagne, si dirige verso una baita in mezzo alla neve e alla foresta, dove l’aspetta un uomo, altrettanto in buona salute. Aaron Cross, questo il nome del protagonista, dice all’abitatore della baita che ha perso la sua dotazione di medicine, e ne chiede di nuove.

 

Nel frattempo abbiamo capito, dalle scene precedenti e dagli spezzoni degli altri film, che i due sono agenti, e che siamo nel corso di un’altra delle operazioni coperte che già hanno reso la vita difficile a Jason Bourne. Ma qualcuno ha deciso di terminare questa operazione che rischia di essere scoperta e, come nei Tre giorni del Condor (1975), di chiudere la bocca a tutti gli agenti coinvolti. Quindi lo stesso drone che il giorno prima aveva rifornito la baita di materiali, torna improvvisamente e la distrugge in modo spettacolare insieme al compagno di Aaron che stava al suo interno.


Aaron si salva, e al secondo giro del drone, col suo potente fucile di precisione lo distrugge, gettando nello scompiglio i tecnici che lo guidano da una località remota e inaccessibile. Ma non è finita qui. Aaron ha un microchip sottopelle che segnala ancora la sua posizione, e deve liberarsene. Caccia e cattura un lupo, e dopo una lotta alla pari lo infila nel corpo dell’animale, e poi lo lascia libero di farsi ammazzare dal drone, che nel frattempo è tornato ed attua con precisione la sua missione. In questo modo gli inseguitori di Aaron si mettono il cuore in pace, convinti che egli sia morto. Cosa che nel frattempo sta accadendo a tutti gli agenti impegnati nella missione. E non solo a questi. Nel centro medico-scientifico che si occupava di monitorare periodicamente la salute degli agenti accade un episodio drammatico. Un altro scienziato, apparentemente impazzito, uccide tutti i membri dell’équipe medica impegnata, più o meno consapevolmente, nell’operazione che si sta chiudendo. L’unica sopravvissuta miracolosamente è Marta Shearing, la dottoressa interpretata da Rachel Weisz. Essa dovrebbe fare la stessa fine degli altri e una squadra di quattro agenti la raggiunge a casa cercando di forzarla con la violenza a inscenare un suicidio. Aaron, che nel frattempo era tornato e la cercava per procurarsi le medicine, arriva giusto in tempo a salvarla, e in un’altra scena altamente drammatica riesce ad uccidere, uno dopo l’altro, i quattro agenti. Poi i due incendiano la casa per rendere irriconoscibili i cadaveri e fuggono insieme. Durante il tragitto Marta spiega ad Aaron che le vecchie medicine in pillole non servono più, e che la nuova fase prevedeva l’uso di virus per trasformare gli agenti in macchine da guerra imbattibili. Ad Aaron è già stato installato un virus, ma gliene serve un altro per sopravvivere, e a tale scopo bisogna raggiungere il loro centro di produzione a Manila, nelle Filippine. Lì l’operazione riesce in modo avventuroso, ma i servizi segreti hanno ormai scoperto che Aaron è vivo e sono sulle loro tracce. Prima allertano la polizia locale, poi un super-agente nuovo di zecca prodotto da un’altra operazione analoga ma ancora segretissima. Dopo una serie di inseguimenti alla Jason Bourne, peraltro godibilissimi, i due si rifugiano in una barca di pescatori. L’ultima scena li vede in mare aperto, diretti verso l’ignoto.

 

Mentre il cinema italiano sembra tornato all’epoca dei telefoni bianchi, il cinema americano è alle prese da tempo con un tema di grande attualità: la crescente minaccia rappresentata da un potere pubblico che usa tutti i mezzi della scienza e della tecnologia, e tutte le nuove armi, per controllare i cittadini e trasformarli in sudditi ubbidienti. La scusa, sempre a portare di mano, è il perenne stato di emergenza provocato da terrorismo, pandemie e qualsiasi altra cosa lo possa giustificare. In loro assenza, è facile inventarlo o provocarlo ad arte. Dalle scene migliori del film emergono vari temi. Intanto, il confronto fra la nuova lotta, diventata ormai impari, fra un potere che può aggredirti restando invisibile e ben protetto a chilometri di distanza, e la vecchia lotta, a viso scoperto e ad armi pari, con un avversario che usa solo la propria forza, qui simboleggiato dal lupo.

 

Poi, il ruolo problematico della scienza. Marta Shearing protesta la sua innocenza e la sua estraneità a tutta la vicenda, di cui effettivamente sapeva poco, ma abbastanza per avere sospetti. La sua affermazione «io ero lì solo per la scienza, non mi interessava il resto», non convince Aaron, che conclude: «Tu non sparavi, però caricavi la pistola». Il personaggio di Marta Shearing, splendidamente interpretato da Rachel Weisz, è sicuramente drammatico. Esso incarna il dubbio secolare della scienza e degli scienziati, che nasce da quando lo scimmione di Odissea nello spazio lancia in alto il bastone con cui aveva fracassato la testa del nemico, bastone che attraversando i millenni si trasforma in astronave. Il problema della scienza sta nella sua stessa natura. La scienza funziona, quindi tutti possono servirsene. A maggior ragione chi ha potere, denaro e il monopolio della forza, primo fra tutti lo Stato. La nuova frontiera della scienza sono i virus e i microchip. I virus si costruiscono o si modificano in laboratorio, e sono un vettore che entra nel corpo umano e lo trasforma secondo gli ordini che trasporta. Ma nello stesso tempo, attraverso i microchip installati, ti mette ogni momento alla mercé del potere. Si tratta di un tema presente da lunga data nel cinema americano, dalla Conversazione (1974) di Coppola a Nemico pubblico (1998) di Tony Scott, ai film di Jason Bourne fino a questo di cui stiamo parlando. Dal primo film a quelli più recenti il sistema di controllo del singolo individuo è andato sempre più perfezionandosi, e ormai il triste destino della vita privata, con buona pace dei “garanti della privacy”, sembra irreversibile.

 

Luciano Albanese

 

(Novembre 2020)

 

 

 

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