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12 ottobre 2023

«"Prefazione" (da ‘Alla curva della vita’ di Doriano Fasoli)» di Luciano Albanese



Risulta dalle testimonianze che gli Stoici antichi, soprattutto Crisippo, avevano analizzato a fondo alcuni classici paradossi, in particolare quello del sorite (il mucchio)Quando uno diventa calvo? Quando cade il primo capello o quando cadono tutti? Analogamente potremmo chiederci – e molti in effetti se lo sono già chiesto – quando si comincia a morire, appena nasci o quando finisci di vivere? Montaigne, ricorda Fasoli, diceva che la morte è solo il momento in cui il morire ha termine. Ma, già, agli albori del pensiero occidentale, Aristotele, nel Protrettico, fr. 10 b Ross, diceva che, come i pirati tirreni (gli Etruschi) legavano i vivi ai morti (la tortura inflitta da Mezenzio ai prigionieri nell’Eneide virgiliana), così la nostra anima è legata a un corpo in perpetuo disfacimento fin dall’inizio (un tema, questo, ripreso in lungo e in largo dalla letteratura manichea).

 

Ognuno di noi avverte la costanza del disfacimento del nostro corpo, ma l’istinto di sopravvivenza è forte, e siamo riluttanti ad ammetterlo. Perduti nel gorgo delle incombenze quotidiane, abbiamo inventato, come scrive Heidegger, un «essere per la morte medio e quotidiano» all’interno del mondo del «si dice». In questo mondo «si muore» allo stesso modo in cui si commentano gli ultimi, lontani avvenimenti seduti al caffè. «Si muore» significa che un si anonimo muore. Muore sempre qualcun altro, quindi è come se non morisse nessuno, perché il Si è nessuno.

 

Non è questa la strada imboccata da Fasoli nel suo ultimo, breve, ma densissimo lavoro. Fasoli sembra voler passare attraverso la morte, quella vera, per poi venircela a raccontare. La curva della vita di cui si parla qui non è quella dell’epistrophè plotiniana, in cui l’anima, staccata dal corpo, ritorna alla sua vera patria, quella celeste. No, qui parliamo di una curva senza ritorno, in cui il singolo, nato dalla polvere, polvere ridiventa. E gli ultimi tratti di questa curva sono i più dolorosi, perché mentre percepiamo malinconicamente di essere diventati un corpo che non risponde più ai nostri comandi, assistiamo impotenti alla morte di amici e parenti meno fortunati – ma è poi una fortuna continuare a vivere così? – che hanno lasciato questo mondo. Percorrendo questa curva, scrive Fasoli, ci ritroviamo a sfogliare i morti, ad uno ad uno. Ma non ci arrendiamo alla loro scomparsa, preludio alla nostra, e continuiamo ansiosamente a pianificare il futuro, illudendoci ancora, forse, che l’avvenire teorizzato dalla Sinistra hegeliana – la Filosofia dell’avvenire di Feuerbach, ecc. – sia qualcosa in grado di sconfiggere il vero avvenire a cui siamo destinati fin dalla nascita, quello della morte.

13 maggio 2023

«Luciano Albanese legge di Doriano Fasoli» di Luciano Albanese

 

Doriano Fasoli. Foto di Roberto Canò. Roma 2019.


Il nuovo libro di Doriano FasoliFinestre sulla memoria (Alpes, Roma 2022, pp. XII-157), è in parte, come il precedente Derive, costellato dal ricordo di molte esperienze personali, in cui l’ispirazione poetica – poesie in prosa anche queste – avvolge il lettore, specie quello coetaneo dell’autore – in una nube di malinconica nostalgia per un tempo irrimediabilmente perduto. A questo ordine tematico appartengono, ad esempio, i ritratti di Giovanni Macchia ed Enrico Guaraldo, l’addio a Gianni Celati, i «Frammenti di un dialogo amoroso», i ricordi del Filmstudio a Via degli Orti d’Alibert, dove andavamo tutti alla fine degli anni ’60 (nessuno dimenticherà mai il grido «americani a casa!» – uno degli slogan del Movimento studentesco – lanciato dal fondo della sala da Massimiliano Fuksas, durante la proiezione di Lonesome Cowboys di Andy Warhol, alla vista dell’ennesima fellatio), Jeanne, o la contadina del Caso fortuito. E ancora, il lirismo di Sempre più solo e vintoGiornata di soleBreve nota sull’imbecillitàDue donne, e di quasi tutta l’intera sezione «Impressioni di orizzonti», di cui segnalo, in particolare, Parigio cara (pochi soldi, i libri trafugati e nascosti nel giubbotto, e la lunga sfilata di mostri sacri, Henry Miller e Céline in testa, che aveva vissuto nella mitica Parigi dell’immaginario europeo) e Al mattino, in cui sembra riecheggiare il finale del monologo di Molly nell’Ulisse di Joyce.

 

Ma, oltre a questo, dal libro emerge un tema cruciale per tutta la modernità: che cosa succede quando il sapere fallisce completamente i suoi scopi, e diventa solo erudizione? «Ho studiato filosofia, – diceva il Faust di Goethe in apertura della sua tragedia – medicina, teologia, da cima a fondo, e con tenace ardore, e mi ritrovo a saperne quanto sapevo prima. Anzi, ho finito per accorgermi che non ci è dato di sapere nulla di nulla». Lo scetticismo di Fasoli sul valore conoscitivo della cultura filosofica e scientifica prese nel loro insieme è abbastanza simile a quello di Faust, e questo si avverte già dalle prime pagine del libro, «La valle dell’ombra» e «Essere o non essere» (il famoso dilemma di Amleto), in cui svaniscono tre pietre angolari della nostra esistenza, Io, Dio e l’Essere. Doriano è un uomo di ampie letture, perché è un individuo curioso, nel senso più nobile del termine, e la sua conoscenza della cultura sia antica che moderna è molto vasta. Cominciando dal cogito ergo sum di Cartesio, le pagine di Finestre sulla memoria offrono al lettore una galleria di temi e di personaggi che non ha nulla da invidiare a quanto possiamo apprendere da una enciclopedia del sapere. Bertrand Russell, Heidegger guardiano dell’Essere, il topo di Schrödinger, la lettura manichea della vagina, il suicidio di van Gogh, Carmelo Bene e Artaud, Foucault in California nella Valle della Morte, col Marchese de Sade ideale compagno, le Baccanti di Euripide, il Concilio di Nicea, Gadda e Roscellino – sintomatico questo accoppiamento –, la difficoltà di scrivere usando parole che non ci appartengono, perché hanno già una loro storia (ancora Foucault), le oscure radici del sacrificio – tema comune, per motivi diversi, al Burkert di Homo necans e a Bataille –, Libertà e Necessità, Alice attraverso lo specchio letta da Lacan,  il mistero del corpo, della sua nascita e della sua morte, e quindi la sua costante esposizione al pericolo, la Rivoluzione scientifica che ci ha tragicamente “spiazzati” (il tema centrale di John Donne e del Controrinascimento), le tragedie di Euripide, etica e scienza, Aristotele e la babele delle lingue, sull’anima, le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, le mosche, esseri tutt’altro che irrazionali (grazie ad esse è stato scoperto il principio di reafferenza), il Libro e la tela di Penelope, post coitum tristitiam, lo Stige e Caronte, l’ottuso moralismo del “politicamente corretto”, Deleuze, Spinoza e la tirannia, il daimon, fisici e filosofi, elogio dei sensi, la vecchiaia e il suo mistero, ultimo capitolo del più grande mistero di vivere. 

31 dicembre 2021

«"Il Canto di Ulisse" di Dante» di Nicola d'Ugo

 


  

La conoscenza: la sua importanza e i suoi limiti

 

Dopo l'invettiva contro Firenze, inizia il vero e proprio tema del Canto XXVI dell’Inferno dantesco: la conoscenza, i suoi pericoli e i suoi limiti. Conoscere va bene, ma fino a un certo punto. Dio ha posto dei limiti all'uomo e tali limiti, per quanto estesi, non devono essere superati. Dante, lo sappiamo, è un poeta che ricerca il nuovo, ciò che non conosce. Ciò che è estraneo, la novità, porta al miglioramento dell'uomo. La sua prima opera si chiamava Vita nova, la vita che cambia, si rinnova, attraverso l'amore per Beatrice: di fronte alla novità non si guarda più con gli stessi occhi, ma con un sentimento e una «coscïenza» diversi. Anche la Commedia parla di cose nove, del tutto inaudite: il viaggio di Dante nel regno dei morti.


La conoscenza del nuovo («esperïenza» dirà Ulisse) è quindi fondamentale per il miglioramento della propria anima, per la sua nobilitazione. Nello Stilnovo, la nobilitazione dell'uomo avveniva attraverso l'esperienza, attraverso la donna gentile o angelicata, immagine in terra dello splendore divino. Dante riassume questo concetto nella formula «novo miracolo e gentile», in cui all’eccezionalità esteriore debba corrispondere un contenuto intimo virtuoso, nobile, «gentile» appunto (Vita nova, XXI, « Ne li occhi porta la mia donna Amore», v. 14). Come sappiamo dalla storia della Commedia, per raggiungere il bene bisogna passare attraverso il male e non solo rimanere in quello che consideriamo, a priori, il bene. Solo guardando il male in faccia, da vicino, possiamo riconoscere in noi i tratti del male, le implicazioni dei nostri pensieri, dei nostri gesti, delle nostre omissioni. Il male non è qualcosa che riguardi gli altri, ma se stessi: posso scorgere il male nell'altro, ma questo è molto meno importante dello scoprire il male in me stesso, poiché ciò che è fondamentale è sempre, per Dante, il bene e il male all'interno di sé.


La conoscenza svolge quindi un ruolo fondamentale nei riguardi della propria salvezza. In questo, il Canto di Ulisse trova la sua centralità, in quanto è emblematico di un modo sbagliato di concepire la conoscenza. Infatti, la conoscenza per Dante non si limita a una serie di nozioni: la conoscenza non è informazione, qualcosa di astratto, un insieme di dati relativi alla vita. La conoscenza è, innanzitutto, passione, è emozione, è desiderio. L'uomo raggiunge la conoscenza attraverso una forza emotiva che lo spinga verso ciò che è inusitato, che lo trascini verso la novità. L’uomo deve essere sensibile, quindi, a ciò che lo circonda, riconoscere in ciò che incontra l’eccezionalità della specie di sapere e perseguire il proprio percorso conoscitivo attraverso la selezione di ciò che entra in quel genere di conoscenza.

4 dicembre 2021

«Doriano Fasoli. “Derive. Schegge di vita in versi e in prosa”» di Luciano Albanese

 


Doriano Fasoli

Derive. Schegge di vita in versi e in prosa

Prefazione di Stefano Santuari

Alpes, Roma 2021

X-139 pp.

€ 15,00

ISBN: 8865317345



Scrittore, critico, giornalista e sceneggiatore, studioso e docente di psicoanalisi e letteratura, Doriano Fasoli si ripresenta ora al pubblico in veste di poeta. Lo stile di Fasoli, sul quale tornerò, ricorda quello delle ‘poesie in prosa’ di Rimbaud, ed è particolarmente in linea col contenuto dell’opera, bene compendiato dal titolo. Come una barca che ha perso gli ormeggi e fluttua alla mercé della corrente – spiega Fasoli – così è la vita. Non si sa da dove si parte, non si sa da dove si viene e non si sa dove si arriva. È un moto che i greci definivano ‘planetario’, ovvero ‘errante’, come quello dei ‘pianeti’, appunto, chiamati così perché nella prospettiva geocentrica apparivano retrogradi. Tuttavia, osserva Fasoli, verso la fine di questo viaggio ‘planetario’ ci si accorge che non è tanto importante la meta – peraltro ignota – ma certe stazioni incontrate lungo la via.

 

Derive è il ricordo, tradotto nella forma poetica, di un centinaio di queste soste, siano esse incontri, interviste, ricordi di viaggio o emozioni vissute interiormente. Si inizia con infanzia e adolescenza, dove emerge la figura della madre e soprattutto del padre, controfigura di Jean Gabin nel Porto delle nebbie. Poi il militare, e successivamente l’incontro decisivo con Stefano Santuari, autore della bella prefazione. Gustosissima la loro irruzione nell’eremo di Camaldoli: un tentativo di fuga mistica dal mondo risolto in tagliatelle ai funghi porcini e telefonate di nascosto alle ragazze, prima della inevitabile cacciata dal convento. Anche Michele Psello, mutatis mutandis, fece un’esperienza simile, prima che il gorgo della vita lo risucchiasse di nuovo. 

 

Esperienze di vita e di morte si intrecciano continuamente nel libro di Fasoli. Dal sofferto ricordo della lunga, eroica sofferenza di Martine alle interviste con Carmelo Bene e Fabrizio De André, entrambi destinati a una vita breve, ma quasi consapevoli di questo, e del fatto che dopo sarebbero vissuti perennemente nel ricordo. Altre figure note emergono dal ‘Vortice di incontri’ che vede sfilare personaggi come Barilli, Maria Luisa Spaziani, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Cesare Brandi, colto nella serenità della bella villa di Vignano di Siena, Emilio Garroni, Giovanni Macchia, Toti Scialoja, Sergio Endrigo, e altri ancora. In Appendice ritroviamo Carmelo Bene, intervistato nel corso del suo memorabile Riccardo III, Emilio Garroni, il cui ricordo mi riporta agli anni della Sapienza, ed Elémire Zolla, il nuovo, aristocratico vate della filosofia perenne di Agostino Steuco. E ancora, l’indimenticabile ritratto di Marguerite Duras, che aveva ribattezzato Fasoli ‘Terence Stamp’.

28 dicembre 2020

«Il covid ha preso Collagna nella sua generosa montagna» di Nicola d’Ugo



A Orly e alla mia gente

Come una valanga,

come una vanga,

il covid ha preso Collagna

nella sua generosa montagna,

seme della mia carne,

carne dei miei pensieri.

 

Confido nella forte fibra

dei miei compaesani,

nella pelle dura che non teme

i geloni invernali,

nel nugolo di calli nelle mani,

negli avvinazzati e briosi

canti montanari.

 

Confido nella loro tempra,

loro ce la faranno tutti

o quasi, anziani, adulti e bambini.

Tu Orlando, cuore nel mio cuore,

maestro di vita e fratello,

possa il cielo e la nostra carne

e i semi che fanno alberi e fiori e amori

tenerti in vita coma una goccia

sul viso, perché sei stato bello,

un dolcissimo fratello maggiore,

coi controcazzi, come si dice in gergo,

gesti tuoi nei miei gesti, carne tua

nella mia carne e in quella dei miei cuginetti.

 

Vanga, valanga e frutti che s'aprono

al sole e alla neve, che ci ubriacano d'amore.

No, Collagna, non sarà rasa al suolo,

non sarà decimata da questo morbo.

Conterà i suoi morti sapendo

che non sono numeri gli uomini.

Collagna resisterà a tutto questo

come sempre, nei secoli. 

 

Nicola d’Ugo

 

(Lerici, 3 dicembre 2020)

 

 

 

 

 

27 aprile 2019

«“Il secchio e lo specchio”, poesie di Francesco Lorusso», di Cinzia Baldazzi




Francesco Lorusso
Il secchio e lo specchio
Nota di Guido Oldani
Manni, San Cesario di Lecce 2018, pp. 96


In un’ironia tutta sua, Jean Cocteau era solito affermare:

Gli specchi dovrebbero pensare più a lungo prima di riflettere.

Ebbene, nella silloge Il secchio e lo specchiodi riflessioni ne vengono offerte numerose, da parte del nostro pensiero e di quello che potrebbe appartenere alle cose in sé: in particolare, a una complessa, arbitraria, ma in certa misura veritiera superficie riflettente di esse. Accade quasi che l’autore Francesco Lorusso, nelle articolate parabole discendenti causate dalla «perdita della memoria e del senso civico», in gran parte relativa all’«onnipotenza elettronica», si liberi dell’idea incombente della morte, illuminata però a tratti, come sostiene Guido Oldani nella nota al testo, in un’atmosfera di casa e di mare, per mezzo di una «scrittura incardinata in questa epoca». E prosegue:

Ma la parabola della traiettoria di queste sequenze dirada il tratteggio mentre si va verso l’apice della narrazione. Man mano la metrica s’impone, persino unitamente a delle tracce di espressionismo d’altre latitudini. Poi, quando la scansione sta andando a compimento, compare qualche concessione al respiro geografico.

Così in Lorusso percepiamo:

La folla già si fondeva al fumo
scuro della sera quando il sogno
si sedeva dietro l’ordine del giorno
accarezzando tutte le nostre cose
come un canto alto di vento
Perfino l’urlo sottile ghiaccia la superficie
e finge di fuggire la goccia di quella bocca
da un pensiero nella pancia che non ritorna
nel dissapore che con forza digerisco per te.

(p. 12)

I versi rievocano alla mente, chissà come, quelli di Nazim Hikmet quando nella poesia «Mosca, 1962» tentava di allontanarsi dal presagio di un’incombente fine:

Mi sono spogliato dell'idea della morte
ho infilato il fogliame di giugno dei viali
quello di maggio era un po’ giovanile per me
tutta un'estate mi attende tutta un'estate in città
con le sue pietre il suo asfalto fuso
le sue gazzose il suo ghiaccio
le sue sale di cinema sudate
gli attori di provincia dalla voce rotonda
[…]
con le poesie che leggerò al balcone
e con i tuoi capelli un po’ accorciati1

29 ottobre 2018

«Da Attilio Bertolucci a Pietro Citati, due libri. Conversazione con Paolo Lagazzi» di Doriano Fasoli



Entrare nel lavoro saggistico di Paolo Lagazzi è sempre un'esperienza particolare dati i non comuni interessi e le molteplici sfaccettature culturali, mentali e umane che stanno a monte di questo lavoro. Dopo aver prodotto sul poeta Attilio Bertolucci un'imponente quantità di studi e di scritti (monografie, saggi, antologie, l'edizione delle opere in un «Meridiano» Mondadori, perfino un’indimenticabile narrazione biografica, La casa del poeta, edita da Garzanti nel 2008, introdotta da Bernardo Bertolucci), Lagazzi è tornato da poco a pubblicare un volume che aggiunge una serie di tasselli importanti alle tante pagine da lui già dedicate al poeta. Lo incontro a Milano nel suo studio gremito non solo di migliaia di libri (moltissimi su argomenti magici, esoterici e orientali) ma anche ricco degli oggetti più disparati (statuette e maschere buddhiste, icone ortodosse, calligrafie giapponesi, attrezzi da prestigiatore, chitarre, flauti, spartiti di canti gregoriani…) per parlare anzitutto di questo libro che s'intitola Come ascoltassi il battito d'un cuore e che è pubblicato da Moretti & Vitali.

Doriano Fasoli: Da cosa viene questo titolo così musicale?

Paolo LagazziCome ascoltassi il battito d'un cuore è un endecasillabo appartenente a una poesia di Bertolucci molto intensa e commovente, «Ringraziamento per un quadro». È una poesia di Viaggio d’inverno dedicata a un pittore dilettante di Parma, Fiorello Poli, che un giorno d’estate del 1944 dipinse una veduta di quei campi di Baccanelli, a pochi chilometri dalla città, che appartenevano alla famiglia Bertolucci. Mentre lo guarda dipingere, il poeta sente la naturalezza, la verità del suo gesto artistico: per quanto umili, quei tratti di pennello sono come il battito d'un cuore che pulsa all'unisono con la vita, con la luce estiva che si sposta lentamente sulle cose… La Storia, appena evocata in quell’accenno al fatto che Poli era lì, in campagna, perché «sfollato», cioè fuggito dalla città (Parma ha subìto pesanti bombardamenti nella seconda guerra mondiale), sembra svaporare di fronte a quel piccolo quadro.

Il battito del cuore ha sempre avuto un'importanza primaria per Bertolucci e per la sua poesia…

Sì, tutti i suoi lettori sanno che soffriva di extrasistoli e che ha spesso affermato di comporre i propri versi seguendo il ritmo incerto del proprio cuore. Anche nella poesia dedicata a Fiorello Poli il ritmo dei versi appare dapprima sottilmente irregolare, ma, attraverso piccole crepe o sconnessioni, finiscono per prevalere gli endecasillabi, mentre il cuore del poeta, liberandosi via via della propria angoscia, si fonde col tranquillo battito cardiaco del piccolo pittore, un battito nutrito dalla bellezza semplice e immensa del mondo.

11 luglio 2018

«Lo sbarco salato del risveglio. Conversazione con Marco Pacioni», di Doriano Fasoli



Marco Pacioni insegna storia del Rinascimento nel programma USAC dell’Università della Tuscia (Viterbo) e per l’University of Alberta (Canada). È autore dei saggi «Modernismo e condizione postmoderna» (2005); «Terrore, territorio, mare. Note politiche a Machiavelli, Hobbes, Accetto, Agamben» (2015) e Neuroviventi. Politica del cervello e controllo dei corpi (2016), nonché co-autore (con Michele Carlo Marino e Marco Santoro) di Dante, Petrarca, Boccaccio e il paratesto. Le edizioni rinascimentali delle «tre corone» (2006). Ha contribuito al catalogo della mostra La forza delle rovine (2015) e curato i volumi Poesie edite e inedite (2008) di Michele Ranchetti e La condanna a morte di Pietro Paolo Boscoli (2012) di Luca Della Robbia. Collabora con il manifesto alfabeta2. Del 2014 è il suo primo libro di poesia, Il bollettino dei mari alla radio, edito da Aguaplano, mentre è in uscita questo mese il suo secondo, Lo sbarco salato del risveglio, per i tipi Interno Poesia.

Doriano Fasoli: Pacioni, quando hai scoperto la tua vocazione poetica?

Marco Pacioni: Facevo le elementari. Ricordo che avevamo un quaderno di bella grafia nel quale dovevamo ricopiare poesie e illustrarle. Ricordo che mi aveva attratto l'idea che per le poesie la lingua (grammatica) potesse avere licenze. Ho poi cominciato a scriverne, oltre che a leggerne, di getto in adolescenza. La scrittura poetica mi è sembrata come una sorta di «esercizio spirituale sonoro» attraverso il quale tracciare regole-detti che mi avrebbero guidato nella vita. Una sorta di regola (quella di San Benedetto è ancora una delle mie letture più assidue). Dopo la prima scoperta del piacere di scrivere poesie, sono anche iniziati i problemi con essa. Quello di evitare il più possibile che il narcisismo raggiungesse quote troppe estreme; lo studio critico della poesia degli altri; l'intonazione alla scrittura filosofica. Queste interferenze di pensiero e scrittura le ho vissute anche come impedimenti che per lungo tempo mi hanno portato a rinunciare a scrivere versi. È stato all'estero, in una lingua straniera, quasi per gioco e per impulso di due artisti americani, che ho ricominciato a scrivere. In inglese mi sentivo meno responsabile, meno «io». (Non uso e credo continuerò a non usare né la prima persona né il «come» in poesia). Dall'inglese, molto lentamente, sono poi tornato all'italiano. Non a caso il mio primo libro, Il bollettino dei mari alla radio, che ha avuto la fortuna di incontrare un amico lettore etico finissimo intelligente e colto qual è Raffaele Marciano, ha una sezione in italiano («in lingua») e una in inglese («in linguaggio»). Nel Bollettino ci sono anche fotografie (soprattutto dell'amico Alessandro Celani) che considero parti in ordine sparso della sezione «in linguaggio». Soprattutto, sono presenti gli altri, con i loro testi e immagini. Credo di essere mosso da un afflato lirico, sonoro, musicale, ma mi interessa il limite sublime nel quale quell'afflato diventa dramma e epica. Il mare, protagonista nelle mie poesie, è l'epica per antonomasia.

3 giugno 2018

«Sei poesie de 'Gli alberi, per esempio'» di Costantino Belmonte




La contr’ora

osservazione in agosto, il 16


Sembra faccia paura lo sfoltirsi
di persone,
dalla fine di luglio a degradare,
                               nel buio. Ma il diradarsi di vite
comporta l’infittirsi di vita – la fluente,
infiltrante, inaridente, dilagante gloria
negli spazi liberi.
                 Gli spruzzi di oro antico sulle siepi
basse sono già minaccia – e le gocce numerate
della pioggia nell’afa che non bagna
                                             neanche se stessa.
Le cicale
hanno sfregato a fondo, sminuzzando
gli angoli annerati di un minuto
solare. Lungo il ritorno a casa
se ne calpesta l’opera, la segatura
di miliardi di corolle
tenere, la scia di sangue verde ed ocra
ripulita dai plotoni di api.
                  E qualche desiderio, un brano
di conversazione, tre sospiri si levano
in volute di polveri, raspati dalle elitre violente
degli insetti; ricadendo quiete.

La piazza che si rende ora
desertica mi fa più compagnia. La popolo
con le presenze certe di chi
immagino siano.



* * * 

Gli alberi, per esempio

osservazione in Febbraio, il 22


Fronde di testimoni, ecco, per esempio
                                         gli alberi.
Su quali
              fondali
devastati stanno imperturbabili. Assediati
da quante vite
                brute si schiomano. E non
se ne vanno. In autunno,
per stanchezza, 
                         sfogliano.
                         Agli
alberi, seriamente, non importa.


1 maggio 2018

«Su “Ogni parola, un essere” di Márcia Theóphilo» di Doriano Fasoli



Presentare Ogni parola, un essere (Rubbettino, Soveria Mannelli 2018) è come presentare l’opera omnia di Márcia Theóphilo, perché ogni singolo lavoro entra a far parte degli scritti precedenti, li assorbe, ne viene assorbito, un filo sottile li lega l’uno all’altro. Sempre diversi, eppure sempre uguali.

Quante scritture sono così intensamente speculari ai paesaggi da cui sorgono come quelle latinoamericane del nostro seco­lo? Non è certo una pura metafora affermare che la ricchezza di queste scritture è la stessa della giungla tropicale: ricchezza paradossale e barocca, sontuosa e malata, fatta di tinte assurde e di un'immensa putrefazione, di insostenibili dolcezze e di agguati mortali. Piuttosto è l'insieme delle metafore, e di tutte le figure del linguaggio, a esser messa senza tregua in gioco dall'incandescenza, dalla voracità di una simile fornace creativa. 

Su questo sfondo la poetessa brasiliana Márcia Theóphilo sa ritagliarsi degli spazi fortemente personali, nutriti non solo da un'insaziabile passione per i miti delle etnie amazzoniche ma, insieme, da una nitidezza singolarissima di visione. 

In Tristi tropici, scrive Lévi-Strauss che la foresta brasiliana ha, rispetto alle nostre, un grado superiore di ‘presenza’: «come nei paesaggi esotici di Henri Rousseau, le sue creature raggiungono la dignità di oggetti». Anche i versi della Theóphilo sanno restituirci il sortilegio struggente e inquietante dell'Amazzonia con tocchi plastici e netti, non per un deside­rio di riportare la complessità infinita degli esseri, delle cose e dei gesti agli stilemi rassicuranti dell'esotico, ma per il bisogno di testimoniare tutto ciò che, nonostante questa complessità, sa sottrarsi al rischio dell'informe e del caos, sa disegnare, dall'interno stesso della grande Metamorfosi, figure arcane di bellezza e splendore. 

Tutto il mondo poetico della Theóphilo è fondato su un sentimento vivissimo, non simbolista ma primordiale, delle corrispondenze tra i fenomeni e il cuore pulsante dell'uomo: «quando si agita una canzone /si muovono le acque del fiume»; «Quando la mente si oscura /perde colore anche il suono». Come un secondo cuore più segreto, spesso tamburi battono tra le pieghe di questi versi increspandoli nelle cadenze di un messaggio dall'ignoto, dal fondo enorme, scivoloso del tempo. Oppure flauti tracciano nel vento fili sottili di colore, o è il vento stesso che raccoglie le tracce dei colori e le scioglie, le porta a farsi ritmi, o sospiri, o sensi. In questa tramatura di analogie e di riflessi nessun valore è riservato al sentimento dell'ego: nessuna presunzione di autonomia, di distanza della mente dalle cose ha più diritto di cittadinanza qui, dove «s'intrecciano serpenti e pensieri», dove la bellezza si schiude e si offre in «un riso di frutta», in «un corpo di brezza», in «capelli di fili di fumo». Grappoli iridescenti d'im­magini s'inseguono nello spazio della visione come onde elastiche, come cascate di doni magici o divini: «Cavalli, nidi, uccelli, farfalle, /legni, monti, rami, sfere, fiumi, ruscelli». Mai il dominio vaporoso del possibile aveva raggiunto tanta forza tattile: la densità dei frutti più succosi, la fragranza delle polpe più ricolme di luci. 

1 aprile 2018

«For Easter | Per Pasqua» di David Plante


Correggio, «Noli me tangere», 1524.



A small red votive lamp in a dim church
Lights up a thin man nailed to a cross,
Illumination enough to see what men do
To make other men suffer, and for this
There can only be helpless pity,
And if there can be in pity belief
To hold us back from what we do,
The belief must rise from how far we
Rise up from where the wounded
And the dead lie in our broken fields,
And where, in cold rain, an old woman
Searches for her son, if we can rise at all.


Una minuta rossa lampada votiva in una buia chiesa
rischiara un uomo smilzo inchiodato a una croce,
illuminazione bastevole per far vedere cosa facciano
gli uomini per far soffrire altri uomini, e per questo
non può esserci che fragile pietà,
e se nella pietà potrà esserci un credo
per trattenerci da quel che commettiamo,
tal credo deve adergersi come, a distanza, 
ci risolleviamo da dove feriti
e morti son distesi nei nostri campi di battaglia,
e da dove, nella pioggia fredda, una vecchia
cerchi il figlio, se solo potessimo rialzarci.


* * *

I know there is no resurrection
From the dead, but I let the bright idea
Revolve above my head and wonder
How such brightness occurred to anyone,
And think: a miraculous conception
Of what can’t be, and so, my love, you,
Smiling, with arms held out to me,
Conceived in me miraculously.


So che non esiste la resurrezione
dei morti, ma lascio che la splendida idea
mi volteggi sulla testa e mi domando
come un tale splendore sia capitato a chiunque,
e penso: un concepimento miracoloso
di ciò che essere non può, e così, amor mio, tu,
sorridendo, con braccia a me protese,
in me hai miracolosamente concepito.

* * *

The dead man did what the dead can’t do,
He pressed his bony back against the stone
And hefted it so it fell away, and he stood
And saw, far out, the stars, and he raised
His arms, and, knowing he couldn’t fly, he flew
Out to where he was constellated in the dark sky.


Il morto fece quello che i morti non possono fare,
puntò la schiena ossuta contro la pietra
e la spinse facendola cader via, e si levò
e vide, in lontananza, le stelle, e sollevò
le braccia, e, sapendo di non poter volare, scappò
verso dove nel cielo scuro fu ammantato di stelle. 


(March / Marzo 2018) 

(trad. di Nicola d’Ugo)




6 marzo 2018

«“Il divino egoista” di Attilio Bertolucci e Doriano Fasoli», di Cinzia Baldazzi














Il divino egoista
Attilio Bertolucci e Doriano Fasoli
Alpes Edizioni
Roma 2018
Prefazione di Franco Cordelli
Presentazione di Paolo Lagazzi
Scritti di Enzo Siciliano, Alfonso Berardinelli, Elio Fiore
Euro 10,00
70 pp.
ISBN: 88-65-31442-7










In tempi di sfacelo delle poetiche, la poesia resiste.
(Attilio Bertolucci, da «Un’ansia religiosa senza maledettismo», Il Giorno, 11 giugno 1975)

Divino egoista, lo so che non serve
chiedere aiuto a te
so che ti schermiresti.
Abbitela cara – dice – quest’ombra
verde e questo male. Evasivo
scostandosi lo copre con una
sua foglia di gaggìa –
                                         biglietto
d’invito a una festa che ci si prepara
vaga come una nuvola
in groppa all’Appennino.

(Vittorio Sereni, «A Parma con A. B.»,
agosto 1978, parte IV)


Ricordo di aver sfiorato l’esperienza di intravedere il futuro presente e prossimo del comunicare in generale, e nello specifico di matrice letteraria, quando nelle pagine d’esordio de L’ordine del discorso di Michel Foucault leggevo:

Nel discorso che devo oggi tenere, e in quelli che mi occorrerà tenere qui, forse per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente. Più che prendere la parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni inizio possibile.1

Poco dopo il filosofo francese, davanti al pubblico dei suoi nuovi studenti e al corpo accademico, sosteneva:

Mi sarebbe piaciuto che dietro a me ci fosse (avendo preso la parola da un pezzo, superando in anticipo tutto quello che sto per dire) una voce che parlasse così: «Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna dire parole finché ce ne sono […], è forse già cosa fatta, mi hanno forse già detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, dinnanzi alla porta che s’apre sulla mia storia, mi stupirei si aprisse, questa porta».2

È come se nel libro Il divino egoista, di Attilio Bertolucci e Doriano Fasoli, gli enunciati del testo citato, proiettati in un rigoroso ma elegante meccanismo utopico, prendessero parola (al di fuori, è ovvio, del mitico ed hegeliano Jean Hyppolite, ammirato maestro di Foucault) dapprima tramite il critico firmatario dell’articolata intervista, quindi con il poeta, «nella tranquillità del salotto in penombra» della casa romana di Monteverde, con un Bertolucci ironico e vivace, «pieno di grazia e leggerezza, e di un garbo antico» e con una «profondità di pensiero che è propria degli uomini più semplici».3

Nato a San Prospero, frazione di San Lazzaro, nella campagna vicino a Parma – città nella quale frequentò il Convitto Nazionale «Maria Luigia» – si laureò in Lettere all’università del capoluogo di regione, ateneo scelto non appena Roberto Longhi ottenne la cattedra di Storia dell’Arte. «Nel 1935 andò a insegnare a Bologna», spiega Bertolucci, «e mia moglie, che studiava lì, sentì la sua famosa prolusione sulla pittura bolognese da Vitale (riscoperto da Longhi) a Morandi».4