11 luglio 2018

«Lo sbarco salato del risveglio. Conversazione con Marco Pacioni», di Doriano Fasoli



Marco Pacioni insegna storia del Rinascimento nel programma USAC dell’Università della Tuscia (Viterbo) e per l’University of Alberta (Canada). È autore dei saggi «Modernismo e condizione postmoderna» (2005); «Terrore, territorio, mare. Note politiche a Machiavelli, Hobbes, Accetto, Agamben» (2015) e Neuroviventi. Politica del cervello e controllo dei corpi (2016), nonché co-autore (con Michele Carlo Marino e Marco Santoro) di Dante, Petrarca, Boccaccio e il paratesto. Le edizioni rinascimentali delle «tre corone» (2006). Ha contribuito al catalogo della mostra La forza delle rovine (2015) e curato i volumi Poesie edite e inedite (2008) di Michele Ranchetti e La condanna a morte di Pietro Paolo Boscoli (2012) di Luca Della Robbia. Collabora con il manifesto alfabeta2. Del 2014 è il suo primo libro di poesia, Il bollettino dei mari alla radio, edito da Aguaplano, mentre è in uscita questo mese il suo secondo, Lo sbarco salato del risveglio, per i tipi Interno Poesia.

Doriano Fasoli: Pacioni, quando hai scoperto la tua vocazione poetica?

Marco Pacioni: Facevo le elementari. Ricordo che avevamo un quaderno di bella grafia nel quale dovevamo ricopiare poesie e illustrarle. Ricordo che mi aveva attratto l'idea che per le poesie la lingua (grammatica) potesse avere licenze. Ho poi cominciato a scriverne, oltre che a leggerne, di getto in adolescenza. La scrittura poetica mi è sembrata come una sorta di «esercizio spirituale sonoro» attraverso il quale tracciare regole-detti che mi avrebbero guidato nella vita. Una sorta di regola (quella di San Benedetto è ancora una delle mie letture più assidue). Dopo la prima scoperta del piacere di scrivere poesie, sono anche iniziati i problemi con essa. Quello di evitare il più possibile che il narcisismo raggiungesse quote troppe estreme; lo studio critico della poesia degli altri; l'intonazione alla scrittura filosofica. Queste interferenze di pensiero e scrittura le ho vissute anche come impedimenti che per lungo tempo mi hanno portato a rinunciare a scrivere versi. È stato all'estero, in una lingua straniera, quasi per gioco e per impulso di due artisti americani, che ho ricominciato a scrivere. In inglese mi sentivo meno responsabile, meno «io». (Non uso e credo continuerò a non usare né la prima persona né il «come» in poesia). Dall'inglese, molto lentamente, sono poi tornato all'italiano. Non a caso il mio primo libro, Il bollettino dei mari alla radio, che ha avuto la fortuna di incontrare un amico lettore etico finissimo intelligente e colto qual è Raffaele Marciano, ha una sezione in italiano («in lingua») e una in inglese («in linguaggio»). Nel Bollettino ci sono anche fotografie (soprattutto dell'amico Alessandro Celani) che considero parti in ordine sparso della sezione «in linguaggio». Soprattutto, sono presenti gli altri, con i loro testi e immagini. Credo di essere mosso da un afflato lirico, sonoro, musicale, ma mi interessa il limite sublime nel quale quell'afflato diventa dramma e epica. Il mare, protagonista nelle mie poesie, è l'epica per antonomasia.

In ambito poetico, quali sono le tue predilezioni?

Tra le letture poetiche che prediligo ce ne sono tante che non sono libri di poesie nel senso stretto del termine. Potrei comunque fare molti nomi tra i poeti. Vorrei però qui limitarmi a uno, Michele Ranchetti. In lui ho rivisto gli stessi problemi di etica della poesia insieme alle analoghe diverse intonazioni alla scrittura («diverse forme di intelligenza», le chiamava Ranchetti) che tuttavia in lui erano riuscite a conglomerarsi, anche se attraverso un percorso tortuosissimo e pieno di cesure umane, intellettuali, psicologico-musicali (anche nel senso del battere e levare musicale).

La tua insegnante di letteratura è stata Biancamaria Frabotta, poetessa… Ti piace la sua poesia?

Ho cominciato a leggere le sue poesie soltanto dopo aver finito gli studi a Roma. Prima ricordo di aver letto un suo romanzo di cui mi è rimasta impressa soprattutto la componente più poetica e musicale, cioè il titolo: Velocità di fuga. A parte l'affetto, l'amicizia, alcuni bellissimi pomeriggi estivi musicali in Maremma di cui era protagonista al piano suo marito, il fisico Brunello Tirozzi, devo a Biancamaria, fra le altre cose, l'avermi introdotto a Franco Fortini – simile, per molti aspetti a Ranchetti. Per questo nella poesia di cui un verso dà il titolo al Bollettino, dedicata a Biancamaria, menziono Fortini.

Il tuo interesse verso la figura del filosofo Giorgio Agamben come lo spieghi? 

Ricordo di aver letto la prima volta di Giorgio Agamben uno scritto su Walter Benjamin («Il messia e il sovrano») in un Festschrift per Ranchetti. Tra loro poi c'è stata una rottura, che però nessuno dei due mi ha fatto pesare, nel mio interessarmi a entrambi e, attraverso di loro, all'opera di Benjamin. Ho cominciato a leggere Agamben con impegno e coinvolgimento solo qualche tempo dopo, negli Stati Uniti, su suggerimento di un mio professore e amico, Massimo Scalabrini, allievo di grandi critici letterari, quali sono stati Guido Guglielmi e Ezio Raimondi.  Da quel momento, posso dire non ho più potuto fare a meno dei libri di Agamben, che in seguito, qualche volta, ho avuto anche il grande piacere di incontrare. Ci sono molte cose che mi interessano di Agamben. Ne menzionerò una che però ne mette insieme tante. La sua capacità di innestare una teoresi rigorosissima, dal sapore e sapere antichi, a questioni di urgente quotidianità politica e pratica, senza però inseguire mediaticamente la cronaca. L'astrazione del suo pensiero si misura nella concretezza, prima ancora che nei temi che tratta, già nella scrittura. In tal senso, in Agamben vedo uno dei rari casi in cui il filosofico e il poetico si rendono possibili vicendevolmente. Vorrei segnalare in tal senso, soprattutto il suo Idea della prosa– un unicum, nella scrittura filosofica e letteraria italiana contemporanea.

Svolgi attività di critico letterario?

Non più. Tra l'altro, nel senso stretto del termine, l'ho svolta soltanto per un breve periodo, prevalentemente su libri di letteratura americana. Per il manifesto, con il quale collaboro da 13 anni, scrivo quasi esclusivamente sulla saggistica filosofica.

Segui con attenzione la letteratura odierna?

Sono curioso, ma non attento come può essere un critico letterario contemporaneo. Seguo con una certa continuità quello che si scrive su alcuni autori del passato che mi interessa studiare e sui quali ho scritto. Presto più attenzione alla filosofia, alla letteratura sulla storia dell'umanesimo e rinascimento. In quest'ambito, ho in parte trasferito il legame affettivo (anche nel senso intellettuale del termine) che avevo con Ranchetti a Adriano Prosperi. Mi sento molto fortunato nel constatare, almeno così credo, che lui abbia accolto questo lascito. Come non mi sentivo all'altezza di quello che ciò intellettualmente comportava con Ranchetti, così è con Prosperi. Spero però che la gioia affettiva del leggere i suoi libri e soprattutto del parlare con lui compensino almeno un po'. Oltre a Prosperi e ai già menzionati, riesco a sentire questo tipo di amicizia (Agamben ha scritto pagine bellissime su questo) anche con chi per primo l'ho inconsapevolmente sperimentata anni fa, quand'eravamo adolescenti: l'artista, poeta e filosofo Stefano Mancini. Mi ritengo, sotto questo punto di vista, fortunato, perché potrei menzionare diversi altri rapporti analoghi a questo tipo così descritto. Pur se si esprime in maniera diversa, voglio sicuramente menzionare quello più recente e più importante, con la cantante Silvia Piras. Oltre alla sua voce, grazie a lei ho ascoltato cose che so rimarranno in me e, spero un giorno, risuoneranno per Logos o Poiesis.

Come è concepita l’attuale raccolta poetica, Lo sbarco salato del risveglio, e come si pone rispetto alla precedente che risale a tre anni fa, Il bollettino dei mari alla radio?

Lo sbarco è la seconda tappa della navigazione iniziata con Il bollettino. Credo e spero ce ne sarà una terza che si intitolerà Ammare. Come nel Bollettino, nello Sbarco è protagonista il Mar Mediterraneo. Soprattutto il rapporto culturalmente e politicamente irrisolto, e per questo ostile e difensivo, che i paesi rivieraschi da tanti secoli intrattengono con questo «spazio mediano tra terre»; oggi più che mai, dato che troppo spesso il Mediterraneo diventa una grande salata fossa comune. Ho capito (psicoanaliticamente) che la mia poesia ha a che fare con il Mediterraneo qualche anno fa, abbozzando insieme a Fabio Benincasa e Francesco Rosetti (co-dedicatari non a caso del Bollettino) un contro-studio sul ruolo del mare nella cultura italiana. Questo studio non ha ancora avuto la luce. In compenso, se è tale, è iniziata questa navigazione poetica.

A cosa stai lavorando attualmente? 

A diverse cose. Al terzo libro di poesie, come ho accennato. E, dopo aver scritto un libro sui nuovi rischi politici del biopotere delle neuroscience (Neuroviventi. Politica del cervello e controllo dei corpi), sto editando un libro sui non nuovi, forse sempiterni utilizzi della distruzione ai fini paradossali di costruire e manutenere la politica dello spettacolo, nel senso debordiano del termine. Anche se la maggior parte di quello che c'è è completamente nuova, è un libro al quale ho lavorato gradualmente mettendo insieme cose di estetica delle rovine, politica del turismo, archeologia della cura delle opere, ruolo delle immagini nel terrorismo e nelle reazioni a quest'ultimo, critica dell'ideologia dell'occidentalismo, logica mimetica del narcisismo, psicoanalisi della differenza ontologica e politica tra morte e distruzione nello spettacolo, possibile via d'uscita dal mimetismo distruttivo e spettacolare attraverso la profanazione, ruolo distruttivo e spettacolare del capitalismo religioso dello shock economico. Per questo libro mi sento di ringraziare in modo particolare due psicoanalisti e grandi conoscitori della psicoanalisi freudiana che dopo Ranchetti mi hanno reintrodotto a Freud e cioè Maurizio Balsamo e Nelly Cappelli. Spero questo libro veda presto la luce per l'editore Alpes.


(Luglio 2018)



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