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12 febbraio 2024

«In treatment: frammenti narrativi di alcuni scenari psicoterapeutici» di Valter Santilli

 

Johannes Vermeer. Ragazza con l'orecchino di perla (1665 ca.)


Anni fa ebbi l’occasione di guardare alcune scene degli episodi italiani del serial televisivo In Treatment, provai una sensazione di noia e di fastidio come quando vidi alcune scene de Il Grande Fratello. In entrambi i casi provai la sensazione di essere un passivo voyeur al quale si voleva far credere che quello a cui stava assistendo fosse, seppure virtualmente, la rappresentazione vera e intima di ciò che è la realtà umana. Mi sembrava eclatante l’imbroglio di far passare quella storia televisiva, affetta dall’ambizione di descrivere nei tempi dello ‘spettacolo’, per ciò che accade quando una persona decide di andare in treatment, come se fosse la rappresentazione documentaria della reale esperienza di questo tipo di cura. Confesso che la finzione teatrale, con tutte le grossolane inesattezze, mi aveva profondamente deluso: ho sentito il fastidio che si prova quando sperimentiamo che qualcuno o qualcosa invade il nostro mondo. In questo caso, essendo ‘del mestiere’, uno spazio professionale che ritengo anche uno spazio ‘privato’ che appartiene al paziente e al terapeuta. Mi sembrava un illecito azzardo voler svelare pubblicamente la qualità di quegli incontri, contenitori di realtà psicologiche ed esistenziali che scaturiscono direttamente dalla ‘relazione terapeutica’: una delle forme radicali ed essenziali di comunicazione interpersonale. La visione di questa pretesa filmica era simile alla visione di certe scene puramente carnali, o esplicitamente pornografiche, che vorrebbero convincere colui che guarda che quello che viene mostrato è la reale esperienza di due o più esseri umani che fanno l’amore. Quello che mi pare emerga, nonostante l’interesse e la curiosità che a suo tempo il serial era riuscito a suscitare nel pubblico televisivo, è la pretesa di rendere pubblico ciò che accade nella stanza dove due o più persone si impegnano, con ruoli e funzioni diversi, in una esperienza di relazione che socialmente e scientificamente viene riconosciuta come ‘trattamento psicoterapeutico’, in questa definizione includo anche la pratica della psicoanalisi, sebbene essa abbia le sue specificità. 

 

Passò del tempo prima che io riconsiderassi il serial In Treatment e avessi una specie di illuminazione cognitiva: riuscii a comprendere che quella vista in tv non avrebbe mai potuto essere quello che ‘veramente’ è la psicoterapia. Compresi finalmente che quegli episodi televisivi erano una rappresentazione teatrale tratta da un copione ispirato a reali esperienze cliniche ed esistenziali. Perché io avessi questo insight fu determinante la lettura di alcune pagine di un importante lavoro di André Green: La déliaison. In questo brillante saggio l’autore, in un capitolo che ha come titolo «Il teatro dell’illusione e la scena sociale», ricorda che a Freud si aprirono le porte di alcuni contenuti fondanti la psicoanalisi dopo aver casualmente assistito a Parigi alla rappresentazione della tragedia Edipo re di Sofocle. Nel 1885 Freud per un semestre frequenta come ‘borsista’ le lezioni di Charcot, presso l’ospedale La Salpêtrière. Green in un capitolo del suo saggio riporta i contenuti di una lettera di Freud datata 15.10.1897, indirizzata a Wilhelm Fliess, dove riferendosi alla tragedia di Sofocle parla del teatro e della tragedia come di uno spazio del mondo esterno in cui il ‘teatro privato’ del mondo interno si realizza. 

24 luglio 2022

«“Rivelazioni dell’incompiuto. Leonardo da Vinci” di André Green. Conversazione con Valter Santilli» di Doriano Fasoli



Medico e psicoterapeuta, Valter Santilli è docente presso la Scuola di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana (S.I.I.P.E./Roma). Ha curato con Camillo Loriedo la pubblicazione del volume La relazione terapeutica (Franco Angeli, 2000). Le sue più recenti pubblicazioni sono: Il terapeuta in gioco. Tra arte, letteratura e psicoterapia(Carabba, 2013); con Antonello Carusi, Laing R.D., L’ombra del maestro (Alpes, 2015). Ha curato l’edizione italiana del libro di Gabrielle Rubin Il romanzo familiare di Freud (Alpes, 2018). Scrive periodicamente su questo blog, sul quale ha pubblicato «Le complesse oscurità dell’Edipo Re», un commento alla rappresentazione teatrale di Robert Wilson, 2018, e due brevi saggi su Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci di Sigmund Freud (Parte 1, 2019; Parte 2, 2020). 

 

Doriano FasoliÈ stata pubblicata dall’editore Alpes, nel maggio 2022, la traduzione italiana del libro di André Green Rivelazioni dell’incompiuto. Leonardo da Vinci. Chiedo al curatore dell’edizione italiana, Valter Santilli, non solo di introdurci ai temi principali del libro, ma anche di parlarci della genesi di questo progetto editoriale.

 

Valter SantilliGrazie Doriano, rispondo volentieri alle tue sollecitazioni. Il libro di André Green Révélations de l’inachèvement. Léonard de Vinci era uno dei pochi libri del famoso psicoanalista francese non ancora pubblicati in italiano. La pubblicazione italiana arriva nel decennale della scomparsa di Green e vuole essere anche un omaggio a questo grande psicoanalista, autore prolifico di saggi che hanno esplorato non solo nuovi territori della ‘cura’ ma anche nuove aree del ‘sapere interdisciplinare’.

 

Il progetto di traduzione di questo libro, bello e misconosciuto, nasce grazie alla virtuosa sintonia che nel 2020 si è creata con Lorena Preta, che ha scritto una intensa e densa prefazione a questa edizione italiana del libro, e con Andrea Baldassarro, che stava progettando una nuova collana editoriale, chiamata «Sconfinamenti». Venni a saper di questo libro quando lessi il contributo di Lorena Preta nel libro curato da Baldassarro La passione del negativo,omaggio al pensiero di André Green, pubblicato da Franco Angeli nel 2018. Mi incuriosirono molto le citazioni di Lorena Preta da questo testo di Green. Con qualche difficoltà riuscii poi ad averne una copia e quando lo lessi mi catturò talmente che proposi sia a Baldassarro che a Preta la pubblicazione in italiano. 

19 maggio 2022

«Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio. Conversazione con Gabriele Pulli» di Doriano Fasoli



Gabriele Pulli insegna psicologia filosofica, psicologia generale e psicologia dell’arte e della letteratura all’Università di Salerno ed è autore di numerosi libri, tra i quali Freud e Severino (Moretti & Vitali, 2009)Severino e Matte Blanco (Moretti & Vitali, 2018; con la prefazione di Emanuele Severino) e L’inconscio e il tempo. Freud, Epicuro, Sartre, Leopardi (Liguori Editore, 2019; con la prefazione di Cesare Milanese). Da qualche giorno è uscito l’ultimo suo libro Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio, presso le edizioni Mimesis (pp. 147, euro 12). 

 

Doriano Fasoli: Le chiediamo innanzitutto quale sia il tema e quale la ragion d’essere di questo libro.

 

Gabriele Pulli: Il libro parte dalla distinzione fra un pensare relativamente originale, che pensa qualcosa di non ancora pensato, ma che sarebbe stato pensabile nelle forme del pensiero di cui già si disponeva, e un pensare assolutamente originale, che giunge a pensare qualcosa che sino ad allora sarebbe risultato impensabile; laddove pensare qualcosa che sino ad allora risultava impensabile significa acquisire qualcosa di quello che sino ad allora era stato l’inconscio del pensiero. Ora, l’àmbito di questo secondo genere del pensare, del pensiero che sposta in avanti i limiti del pensiero, rendendo pensabile ciò che prima risultava impensabile, è quello del pensiero filosofico, o almeno di un suo specifico modo di essere particolarmente ristretto ed elevato. Come si vede, in questa idea di filosofia, svolge un ruolo essenziale il concetto di inconscio. Si direbbe addirittura che un’opera filosofica sia tale un quanto faccia i conti con il concetto di inconscio; più precisamente: in quanto svelando qualcosa del modo di essere dell’inconscio sospinge più in avanti i limiti del pensiero. E dunque, rispondendo in sintesi alla sua domanda: il tema è soprattutto l’inconscio del pensiero, la sua ragion d’essere è spingere in avanti i limiti del pensiero, proporre qualcosa di non ancora pensato in quanto impensabile, cogliere qualcosa di non ancora colto dell’inconscio del pensiero.

 

Ma allora di cosa si tratta in particolare? 

 

Di qualcosa di compendiabile nella formula per la quale eternità e temporaneità si danno contemporaneamente e inscindibilmente e tale loro inscindibilità risulta al tempo stesso come un affermarsi con maggior forza dell’eternità. È una strana formula; d’altra parte se così non fosse, se non fosse strana, se non apparisse a prima vista assurda, non potrebbe corrispondere al tentativo di spingere in avanti i limiti del pensiero. Il libro racconta innanzitutto come si arrivi a tale formula e poi cosa possa significare, quale sia il suo senso, che appare poi corrispondere al senso del dolore del desiderio e infine, persino, come ciò che rende la vita vivibile. 

4 aprile 2022

«Soggetto e masse e il Teatro di Oklahoma. Conversazione con Sergio Benvenuto» di Doriano Fasoli



Sergio Benvenuto, ricercatore senior al CNR, psicoanalista e filosofo, è presidente dell’Istituto Elvio Fachinelli – Studi Avanzati in Psicoanalisi (ISAP). Ha fondato e diretto la prestigiosa rivista European Journal of Psychoanalysis, ed è co-redattore di altre importanti riviste in inglese, come American Imago e Philosophy World Democracy. Insegna psicoanalisi al Mižnarodnyj Instytut hlybynnoji psycholohiji (Istituto Internazionale di Psicologia del Profondodi Kiev. La conversazione si incentra sui due ultimi libri di Sergio Benvenuto, Soggetto e masse. La psicologia delle folle di Freud e Il teatro di Oklahoma. Miti e illusioni della filosofia politica di oggi, editi da Castelvecchi nel 2021.

 

Doriano Fasoli: Due tuoi libri escono a distanza di poco tempo con la stessa casa editrice, e affrontano temi del tutto simili: si ha l’impressione che tu abbia scritto un solo libro, ma pubblicato in due puntate.

 

Sergio Benvenuto: È proprio così. Il tema comune ai due libri è una teoria generale del politico, ovvero in che cosa consiste l’impegno politico. Non mi occupo quindi della società in generale, ma delle organizzazioni e concezioni politiche.

 

Il primo volume, Soggetto e masse, prende le mosse dal saggio di Freud Psicologia delle masse e analisi dell’io. Cerco di spiegarne il senso profondo, precisando che non si tratta – come credono molti – di una teoria della società in generale, ma di quelle che Freud chiama Massen, ovvero gruppi mossi da una passione in senso lato politica. Si va dalla folla improvvisata che si costituisce per un fine preciso – ad esempio, compiere un pogromcontro ebrei – fino a Massen molto strutturate come le chiese e gli eserciti. Che cosa c’è in comune tra tutti questi gruppi? Il fatto di organizzarsi attorno a una figura che Max Weber chiamò capo carismatico. Freud non si interessa a gruppi burocratici o funzionali, dove ci possono essere capi, ma non c’è la partecipazione calda, direi, dei partecipanti. Freud descrive insomma i gruppi politici in senso lato, che includono le militanze religiose e militari. E psicoanalitiche.

 

Ma già in questo primo volume allargo l’analisi del saggio di Freud affrontando temi molto vasti, per esempio il populismo, il fascismo, e altri tipi di configurazioni politiche. 

 

Nel secondo volume, Il teatro di Oklahoma, articolo una critica delle principali filosofie politiche oggi prevalenti, che corrispondono agli indirizzi politici che oggi dominano nel mondo industrializzato: il marxismo, il liberalismo, le politiche su base religiosa, il populismo, il nazionalismo o fascismo. 

28 febbraio 2022

«Cammina leggera. Conversazione con Maria Chiara Risoldi» di Doriano Fasoli




Maria Chiara Risoldi è nata a Bologna nel 1953. Ha fatto la giornalista dal 1977 al 1988, prima a La città futura, poi a Rinascita. Dal 1988 al 2020 ha svolto la libera professione come psicoterapeuta, facendo parte della Società Psicoanalitica Italiana, dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica Infantile, della Società Italiana di Psicoanalisi e Psicoterapia Sándor Ferenczi e dell’Associazione EMDR Italia. Docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia di Bologna dal 2000 al 2009. Ha collaborato, dalla sua fondazione, con la Casa delle donne per non subire violenza Onlus di Bologna e ne è presidente dal 2016. Ha pubblicato con Manni nel 2003 Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina e con Tombolini nel 2018 #MeToo. Il patriarcato dalle mimose all’hashtag.

 

Doriano Fasoli: Dottoressa Risoldi, quando è nata l’idea di questo romanzo Cammina leggera, pubblicato in questi giorni da Manni?

 

Maria Chiara Risoldi: L’ennesima volta che mi sono sentita rispondere: «No, non ne abbiamo mai parlato». Ho incontrato molte persone che durante il primo colloquio mi avevano raccontato di avere già fatto precedenti esperienze psicoanalitiche, concluse o interrotte per le più diverse ragioni. Sono sempre stata molto attiva, facevo domande, esprimevo le mie opinioni, spiegavo il mio punto di vista, non sono mai stata ligia alla regola del silenzio, se non, forse, un po’ durante il training. Stare in silenzio, parlare… Questioni complesse che sto semplificando molto. Se mi veniva un’idea, una curiosità non la tenevo per me. La proponevo al paziente. Questo modo di lavorare facilitava l’emergere di questioni importanti, di eventi cruciali dell’infanzia e accelerava il cammino. Anche questa è una questione complessa che sto semplificando.

 

Quello che mi ha fatto venire voglia di scrivere un libro è stato il dolore, la rabbia, la delusione delle persone che avevano fatto anni di analisi, anche dieci, perfino venti o più di una analisi e non avevano aperto quella porta, che loro non sapevano che ci fosse e che il loro psicoanalista si era astenuto, secondo la regola, di fargli vedere oppure che nemmeno lui aveva visto, accecato da una teoria che non contemplava l’esistenza di quella porta. Condividere con l’ennesima persona la sofferenza che comportava pensare di avere perso tempo è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Avevo bisogno di scrivere.

9 gennaio 2022

«"Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologia." Conversazione con Alberto Angelini» di Doriano Fasoli

 

 

Alberto Angelini è membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana. Ha insegnato psicofisiologia nella Facoltà di Psicologia dell’Università «La Sapienza» di Roma. Ha svolto ricerche nell’Istituto di psicologia del CNR e nel Centro sperimentale di cinematografia di Roma, dove, precedentemente, aveva conseguito il diploma in regia. È stato consulente dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, docente di psicologia clinica presso l’United Nation Interregional Crime and Research Institute (UNICRI), partecipando a campagne internazionali per la prevenzione sanitaria. Direttore di Eidos: Rivista di Cinema, Psyche e Arti visive. Autore di oltre sessanta articoli scientifici e di diversi volumi, tradotti in più lingue. Tra gli altri: La psicoanalisi in Russia. Dai precursori agli anni Trenta (Liguori, Napoli 1988); Psicologia del cinema (Liguori, Napoli 1992); Otto Fenichel: psicoanalisi, politica e società (Cosmopoli, Bologna 1996); Pionieri dell’inconscio in Russia(Liguori, Napoli 2002); Un enciclopedista romantico. Psicoanalisi e metodo sociale nell’opera di Otto Fenichel (Liguori, Napoli 2009), Psicoanalisi e Arte teatrale (Alpes, Roma 2014); Otto Fenichel: psicoanalisi, metodo e storia (Alpes, Roma 2019).

 

La conversazione si incentra sui temi del recente volume di Alberto Angelini Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologiaedito in questi giorni da Alpes Italia.

 

Doriano Fasoli: Dottor Angelini, chi era Sergej Èjzenštejn?

 

Alberto Angelini: Sergej M. Èjzenštejn è stato il più importante regista della prima metà del Novecento. Egli spicca, nella storia del cinema, per i suoi lavori rivoluzionari, per l'uso innovativo del montaggio e per la composizione formale dell'immagine. 

 

Inizialmente Èjzenštejn si accostò al teatro, come allievo di Mejerchol'd, che fu ideatore della biomeccanica dell’attore, ispirata agli studi del grande fisiologo e psicologo russo Ivan Pavlov. Il regista, già dal periodo teatrale, si interessò molto alla psicologia e alla psicoanalisi. Pavlov, Freud e Mejerchol’d sono i primi nomi che ricorda nella sua ampia autobiografia; attraverso loro «combatté la sua prima lotta contro i mulini a vento della mistica». Èjzenštejn lesse Freud, per la prima volta, nella primavera del 1918 mentre prestava servizio come volontario nell’Armata rossa. In seguito, dal 1920 al 1923, lavorò a Gomel come funzionario locale per le iniziative culturali, viaggiando per tutta la Russia.

22 maggio 2020

«Su “Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci” di Sigmund Freud (Parte 2)» di Valter Santilli


Leonardo da Vinci, Cartone di sant'Anna, 1499-1500,
gessetto nero, biacca e sfumino su carta, Londra, National Gallery




L’errore di Leonardo: «Mercoledì a ore 7 morì ser Piero da Vinci […]. Mercoledì vicino alle 7 ore».


Nel quinto capitolo del saggio su Leonardo, Freud analizza il rapporto che Leonardo, artista e scienziato, ebbe con la figura paterna. Egli riporta pertanto una breve nota scritta su uno dei diari leonardeschi, un’annotazione importante per il contenuto e interessante per la forma tanto da suscitare l’attenzione dello psicoanalista; la piccola nota contiene un «minuscolo errore formale». Leonardo nel mese di luglio del 1504 annota giorno, mese, anno e ora della morte di suo padre, Ser Piero da Vinci, di anni 80; egli annota inoltre il numero dei figli che l’anziano padre lasciava «10 figlioli maschi e 2 femmine».

«Il piccolo errore formale consiste nel fatto che l’indicazione di tempo “a ore 7” viene ripetuta due volte». Freud in prima battuta commenta il «minuscolo errore» di Leonardo come fosse stata la comprensibile distrazione di un figlio mentre appuntava l’ora della morte del padre, ma subito non trattiene l’interpretazione psicoanalitica e addebita l’errore alla inibizione affettiva di Leonardo nei confronti di suo padre. Liberato da questa inibizione, scrive Freud, Leonardo avrebbe voluto o potuto scrivere: «Oggi alle ore 7 è morto mio padre, Ser Piero da Vinci, povero padre mio!».

È certo che il padre di Leonardo ebbe «un ruolo importante nella sua evoluzione psicosessuale». Freud delinea sinteticamente un bel ritratto di Ser Piero da Vinci: «fu uomo di grande forza vitale che raggiunse stima ed agiatezza». Sottolinea con enfasi gli aspetti socialmente volitivi e umanamente virili di questo «notaio discendente di notai»:

Si sposò quattro volte, le prime due mogli gli morirono senza figlioli e solo dalla terza ebbe nel 1476 il primo figlio legittimo, quando Leonardo aveva già ventiquattr’anni […]; con la quarta e ultima moglie, che sposò già cinquantenne, generò altri nove figli e due figlie.

Curioso destino familiare quello di Leonardo: fino all’età di ventiquattro anni egli fu l’unico figlio, ma illegittimo, di un agiato notaio fiorentino. La condizione di illegittimità negli ambienti urbani borghesi era allora causa di svantaggi sociali: ad esempio un figlio illegittimo non avrebbe mai potuto accedere agli studi umanistici ordinari, e Leonardo, nel caso, non sarebbe mai potuto diventare a sua volta notaio, come da tradizione familiare. All’età di 17 anni il padre con acume aveva riconosciuto in lui una inclinazione artistica e lo aveva indirizzato verso lo studio delle arti e delle tecniche. Il giovane Leonardo venne per questo affidato alla bottega di Andrea Verrocchio, una delle più rinomate della città di Firenze. La città era allora governata dal giovane Lorenzo dei Medici detto il Magnifico per la disposizione che aveva verso le arti e per lo sfarzo dei suoi costumi. Firenze stava vivendo un’età d’oro: la città era non solo la culla del Rinascimento delle arti e delle lettere, ma anche il luogo privilegiato dove gli architetti e gli artigiani iniziavano a sperimentare nella loro pratica delle nuove tecniche, le più varie. Il mondo non piangerà certo Leonardo da Vinci ‘mancato notaio’.

29 settembre 2019

«Su “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci” di Sigmund Freud (Parte 1)» di Valter Santilli



Francesco Melzi (1493-1570), Ritratto di Leonardo da Vinci, gesso rosso, Royal Collection Trust 


Tempo fa lessi un libro di Thomas H. Ogden, Il leggere creativo. Sul retro di copertina della edizione italiana è scritto che nel volume sono stati raccolti i lavori che l’autorevole psicoanalista americano «ha dedicato all’esperienza del leggere creativamente». 

Il libro è composto da una raccolta di saggi su «fondamentali lavori» di autori psicoanalitici di grande rilievo e tra essi è compreso, naturalmente, un lavoro fondamentale di Freud, «Lutto e melanconia». 

Lo stile dello scritto di Ogden sull’esperienza del leggere creativamente è rigoroso, ed in parte richiama lo stile impegnato degli esercizi scolastici di parafrasi di testi letterari fondamentali. Quella di Ogden è un tipo di creativa parafrasi che illumina e arricchisce i testi che sono stati oggetto del suo appassionante studio, così come viene descritto nei dizionari: «Esposizione di un testo […] spesso accompagnata da sviluppi o chiarimenti». 

Nell’introduzione del libro l’autore descrive la sua esperienza di lettura creativa che fa da fondamenta alla sua scrittura creativa: Thomas Ogden leggendo e scrivendo creativamente cerca di rimanere il più possibile fedele agli scritti dell’autore letto. Lo psicoanalista americano chiarisce che ha trattato lo stile di scrittura e il contenuto ideativo dei saggi di ciascun autore come «due qualità di una entità singola», ed esplicita che quel determinato saggio scritto da quell’autore, con lo stile particolare che lo contraddistingue, non si potrebbe scrivere diversamente perché «dire qualcosa diversamente è dire qualcosa di diverso». 

A proposito di bravi scrittori e di buoni lettori un grande scrittore, nonché autorevole critico letterario, Vladimir Nabokov, in Lectures on Literature, pubblicate postume, scrive che «non si legge un libro, un libro lo si può solo rileggere. Un buon lettore, un grande lettore, un lettore attivo e creativo è un rilettore». Per marcare quindi l’esperienza intellettuale del «leggere», Nabokov specifica che «un libro di qualunque genere esso sia – opera narrativa oppure opera scientifica – interessa per prima cosa la mente»

Nella «Introduzione» al saggio di Freud «Lutto e malinconia»Ogden riporta una particolare frase del testo la cui lettura rende «impossibile separare le idee dalla scrittura»

Il commento che egli fa di questa frase particolare è che: «Lo scritto è denso – una grande quantità di pensiero è contenuta nell’atto stesso di scrivere poche parole». Mi pare che la stessa definizione, sebbene molto sintetica, possa applicarsi al testo di Freud su Leonardo da Vinci. 

11 settembre 2019

«Otto Fenichel. Conversazione con Alberto Angelini» di Doriano Fasoli



Alberto Angelini, psicoanalista, ha insegnato Psicofisiologia all’Università La Sapienza di Roma e svolto ricerche presso l’Istituto di Psicologia del Cnr. Diplomatosi in Regia al Centro Sperimentale di Cinematografia, è stato consulente dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e docente di Psicologia clinica presso l’Istituto internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia (UNICRI). Direttore responsabile della rivista Eidos. Cinema Psyche e Arti visive dal 2004 e direttore vicario della rivista Letteratura e cinema, è autore di oltre cinquanta articoli scientifici e di diversi volumi, tradotti in più lingue. Tra le opere principali di Angelini si ricordano: La psicoanalisi in Russia. Dai precursori agli anni Trenta, prefazione di C. Musatti (1988); Psicologia del cinema, prefazione di L. Mecacci (1992); Pionieri dell’inconscio in Russia (2002); Un enciclopedista romantico. Psicoanalisi e società nell'opera di Otto Fenichel (2009), pubblicati per i tipi Liguori. Psicoanalisi e Arte teatrale (2014) e il recente Otto Fenichel. Psicoanalisi, metodo e storia (2019), entrambi editi da Alpes Italia.

Doriano Fasoli: Dottor Angelini, in quale periodo Otto Fenichel ha esercitato la sua professione di psicoanalista?

Alberto Angelini: Fenichel lavorò, negli anni Venti e Trenta, prima a Vienna, dov’era nato nel 1897, poi a Berlino. Il giovane Otto apparteneva ad una famiglia borghese. Fin dall’infanzia tenne un diario dei concerti e del teatro, tipico oggetto viennese, dove commentava ogni rappresentazione. Dotato di grande ingegno psicoanalitico e di una formazione culturale classica, oltre a svolgere una intensa attività clinica, fu autore di numerosi lavori scientifici. Gli amici sapevano com’egli possedesse una memoria fotografica non solo per le citazioni di Freud, con relativo numero di pagina, ma, ad esempio, per l’intero orario ferroviario europeo. Le sue proposte psicoanalitiche, tuttavia, sono basate sulla novità e profondità dei concetti avanzati e non sull’accumulo dei dati. Nel 1938 si trasferì negli Stati Uniti, dove esercitò la psicoanalisi in California fino all’anno della sua scomparsa, il 1946. La morte prematura impedì al suo pensiero di svilupparsi pienamente.

Qual è l’attualità del suo pensiero?

Fenichel considerava come valori non solo scientifici, ma addirittura etici, la razionalità e l’aspirazione al rigore metodologico. Egli, già negli anni Trenta, percepiva l’incombere, sul movimento psicoanalitico, d’idee antirazionaliste e antilluministe. In epoca contemporanea assistiamo ad un attacco alla razionalità, non solo in ambito psicoanalitico, ma in generale, su più fronti, socialmente e culturalmente. Fatta salva la casistica clinica che comunque possiede sempre una sua grande utilità riguardo al metodo, nella psicoanalisi, con il dilagare del pensiero bioniano, si è scivolati verso la metafisica, escludendo la dimensione di filosofica realtà che il pensiero psicoanalitico dovrebbe avere per aspirare ad uno statuto scientifico. Per altri versi sono addirittura ridicoli i criptolinguaggi di discendenza lacaniana, la cui sofisticata complicazione linguistica non trova motivi di sostegno. Anche il banale empirismo psicoanalitico, pur utile, non offre solidità di metodo. Chi, opponendosi a tutto ciò, volesse cercare le fondamenta metodologiche della psicoanalisi appellandosi ai neuroni e al cervello andrebbe incontro ad analoghe difficoltà di principio, su un altro versante. Infatti la strada del meccanicismo materialista si è sempre scontrata con le enormi diversità degli esseri umani. I cervelli, anatomicamente, sono uguali in tutto il pianeta, ma le persone no. Gli esseri umani sono profondamente diversi, per tutto ciò che riguarda le funzioni psichiche superiori, come il linguaggio, l’attenzione, la memoria e altro.

15 giugno 2019

«Trasgressioni Bataille, Lacan. Intervista a Silvia Lippi» di Doriano Fasoli



Silvia Lippi, bolognese di nascita, vive a Parigi. È psicoanalista, affiliata all’associazione Espace analytique di Parigi e all’ALIPSI di Milano. È psicologa all’ospedale psichiatrico Barthélemy Durand d’Étampes, ricercatrice presso l’Università di Parigi 7 e docente titolare dell’IRPA, Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata diretto da Massimo Recalcati, nelle sedi di Milano e Grottammare. Oltre a numerose pubblicazioni in Francia, nel 2017 è uscito in Italia La decisione del desiderio (Mimesis), già vincitore del Prix Oedipe le Salon 2014, mentre del 2018 sono Freud. La passione dell’ingovernabile (Feltrinelli) e Ritmo e melanconia (Poiesis).

Doriano Fasoli: Dottoressa Lippi, cosa suggerisce il titolo del suo nuovo lavoro Trasgressioni. Bataille, Lacan (che ricorda quello di Masud Khan, Trasgressioni, Bollati Boringhieri), pubblicato in questi giorni da Orthotes Editrice?

Silvia Lippi: Bisognerebbe chiederlo agli ipotetici lettori! Per quanto mi riguarda, ho voluto scrivere un libro sul desiderio, abbordato dal punto di vista del fantasma. Per fantasma intendo, alla maniera freudiana, lo scenario che ognuno di noi si costruisce per accedere all’oggetto del desiderio. E uno dei fantasmi fondamentali è proprio la trasgressione. Non solo dal punto di vista strettamente sessuale: il bimbo che ruba di nascosto la marmellata è spinto da un moto trasgressivo, come il feticista che invece di innamorarsi di una donna si innamora di una pelliccia, o di una scarpa. Il concetto di trasgressione rinvia alla vergogna ma anche alla colpa, quindi all’infrazione, alla disobbedienza, dunque alla legge. Uno psicoanalista non può rimanere indifferente a tutto questo materiale, e agli interrogativi connessi che riguardano la vita psichica. Che rapporto esiste tra la trasgressione come atto e la trasgressione come fantasma? Il desiderio può esistere senza la trasgressione? Come si articolano i concetti di «legge» e di «trasgressione»? E a che tipo di godimento ci riferiamo quando mettiamo in atto un fantasma di trasgressione? Sono questi i quesiti a cui il libro cerca di rispondere.

Nonostante la mole bibliografica esistente, cosa l’ha spinta a occuparsi di Bataille e Lacan?

Ogni causalità è surdeterminata: voglio dire, le ragioni che mi hanno spinta a scrivere il libro sono molteplici. Prima di tutto, mi chiamo Silvia, come Sylvia Maclès, che è stata prima la moglie di Bataille e poi la moglie di Lacan. Scherzi a parte, ho conosciuto Bataille sui banchi del liceo, a Bologna, grazie al mio professore di letteratura, Gian Paolo Roffi, di cui mi ricordo un corso stupefacente sul romanzo Storia dell’occhio. A quell’epoca, non sapevo ancora che sarei andata a vivere a Parigi un giorno, tantomeno che avrei scritto un libro su Georges Bataille. Ricordo solamente che rimasi colpita dallo strano erotismo di questo suo racconto, gioioso e sconsolato nello stesso tempo. E sicuramente anche dai personaggi della storia, certo così poco epici. Vorrei qui precisare che la trasgressione nell’opera di Bataille non è mai ostentata. È una trasgressione sobria, rigorosa, oserei dire, come fosse l’effetto dell’amor fati. Non vi è nessuna provocazione, nessuna sfida all’Altro e alla sua legge. La trasgressione è una ricerca di verità che passa attraverso il desiderio del soggetto.

26 maggio 2019

«Europa cristiana: un falso storico» di Giovanni Sias



Dalla nascita dell’Unione Europea non si è perso tempo a ricordare, ribadire, insistere e infine decretare le radici cristiane dell’Europa. Ancora l’altro giorno, l’8 maggio 2019, sul Corriere della Sera il cardinale Bruno Forte richiamava il senso cristiano delle radici europee, e avverte che «il futuro dell’Europa non può prescindere dalle sue radici etiche e spirituali, le sole a poter alimentare una rinnovata passione morale e un impegno condiviso». Parole di verità, non ho dubbi, parole vere perché oneste nei confronti degli europei (che sono ancora “da fare”). 

Ma… il luogo da cui queste parole vere originano, il loro presupposto, è falso. Perché è un falso storico che l’Europa sia «cristiana». E se noi ci prendessimo la briga di mettere in intreccio e in tensione i processi storici con la teoria freudiana coglieremmo immediatamente sia la falsità della proposizione quanto la sua pretesa tutta ideologica di indirizzare la cultura europea in un’unica direzione: quella del potere ideologico del Cattolicesimo medievale esteso alle coscienze degli europei contemporanei.

L’Europa è un luogo del Mediterraneo, ma il Mediterraneo è un luogo dai confini incerti. Chi lo vuole stretto fra i Dardanelli e le Colonne d’Ercole vive in un’economia organicistica senza avvertire l’estensione dell’apparato psichico. L’organicismo risponde così alla logica religiosa del discorso, che ha spartito e diviso il Mediterraneo lungo tre punti cardinali: la Croce, il Muro (del pianto) e la Kaʿba (la pietra nera) ciascuno in conflitto con gli altri. Manca il quarto punto, il più importante, quello relativo al linguaggio e dunque insituabile, incollocabile in una qualsiasi spazializzazione o riduzione del Mediterraneo a una ideologia, a un rituale o a una nazione che sono i tre punti ordinali della religione. La distanza fra la mitologia e la religione è molto breve, la distanza che la religione pone sulla visione del mondo invece è infinitamente grande: favola l’una, Verità l’altra, senz’accorgersi della verità della favola né dei vaniloqui che si scambiano di posto con la verità.

Nell’ordine del linguaggio, quell’ordine che la psicanalisi indica in una topologia attraverso cui è possibile tracciare una geografia delle regioni dello psichico, il Mediterraneo si estende, a Oriente, almeno fino a Bagdad. E ci fu un tempo in cui, nella sua estensione, non aveva confini.

2 aprile 2019

«Storie nere in stanze d’analisi. Conversazione con Marcello Turno» di Doriano Fasoli



Marcello Turno è psichiatra e psicoanalista, membro dell’International Psychoanalytical Association (IPA) e della Federazione Europea di Psicoterapia Psicoanalitica (EFPP). Appassionato di scrittura sperimentale è stato autore di numerose azioni sceniche per teatro danza, fra cui Pater nosterIchspaltungMetamorphosisSaffeides, realizzate dal Nouveau Theatre du Ballet International di Venezia e da Immagine Danza. Ha scritto per il teatro ElectraIo Cesare, Bruto, forse la rivoluzione, messo in scena con un gruppo di tossicodipendenti inseriti in un programma di recupero, di cui ha curato anche la regia. Ha collaborato alla sceneggiatura del TV movie L’uomo del vento. Ha pubblicato per Alpes Il mancato suicidio di Luigi Pirandello (2013) e per lo stesso editore, in questi giorni, Storie nere in stanze d’analisi. Vive e lavora a Roma.

Doriano Fasoli: Dottor Turno, Storie nere in stanze d’analisi. Un titolo forte! Spaventa un po’. Di che si tratta?

Marcello Turno: Sono cinque racconti, organizzati in un volume il cui indice richiama volutamente a un trattatello di psicoanalisi: «Una questione di transfert», «Analisi interminabile», «La seduta d’analisi», «Enactment» e «Psicoanalisi futura». Più che spaventare vuole essere un sovversivo, fuori dagli schemi tradizionali. Rompere la consuetudine a cui ci ha abituato In Treatment. Nei miei racconti il protagonista è la relazione paziente-analista. C’è sempre qualcosa che porta ad agire o l’uno o l’altro.

Analisti o pazienti che diventano killer, appunto. Non teme di attirarsi le ire dei suoi colleghi?

A leggerli bene i racconti ironizzano sui tic e gli stereotipi degli analisti. L’ho già detto in una intervista televisiva: vediamo se sanno sorridere. A volte si prendono troppo sul serio e fino ad ora, escluso Woody Allen e Moni Ovadia, non mi sembra che ci siano altri a prenderli in giro.

Nel suo libro condensa il paradigma indiziario della crime investigation con teorie psicoanalitiche. A detta di chi ha letto Storie nere in stanze d’analisi riesce a farlo egregiamente. Sembra quasi che siano casi clinici. Come mai questa idea?

Sono convinto che un buon psicoanalista debba essere un investigatore della mente. Comunque è una deriva autobiografica. Da ragazzo, ma anche in età adulta, sono stato un accanito lettore di letteratura gialla e nera e molte altri generi ancora. Dove mi è possibile dissemino omaggi. Ad esempio rimasi colpito che Raymond Chandler stette giorni interi per decidere se usare una frase: «l’ombra […] gli tagliò la faccia». Io questa frase l’ho usata. È diventata «l’ombra gli tagliò la testa», è un omaggio a lui. Non vedevo l’ora. A mo’ di mosaico ho incastrato il background culturale con teoria e pratica psicoanalitica e sono nati i racconti.

24 marzo 2019

«André Green e la passione del negativo. Intervista ad Andrea Baldassarro» di Doriano Fasoli



Andrea Baldassarro, psichiatra e psicoanalista, è membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytic Association. Tra i suoi ultimi lavori: «Un tentativo di comprendere la psicosi», in La tentazione psicotica di Liliane Abensour (2014); «André Green e la psicoanalisi contemporanea», in La clinica psicoanalitica contemporanea di André Green (2016); «Alterità e identità nella psicoanalisi del XXI secolo. Miti, religioni, linguaggi», in Cartografie dell’inconscio a cura di Lorena Preta (2016). Ha curato il volume Perché il male, edito da Mimesis nel 2017, e il recente La passione del negativo. Omaggio al pensiero di André Green, edito da Franco Angeli. Vive e lavora a Roma.

Doriano Fasoli: Dottor Baldassarro, cos'è che si oppone nell'essere umano alla possibilità di curarsi, di essere curato?

Andrea Baldassarro: Negli ultimi anni della sua vita, e nei suoi ultimi scritti, Freud si era interrogato sempre più insistentemente su quello che si oppone alla guarigione, e più in generale sulla tendenza dell’essere umano a procurarsi della sofferenza, dunque sulla presenza di forze che si oppongono – almeno apparentemente – al piacere. Certo, molta di questa riflessione era derivata dall’idea che esistano le pulsioni di morte accanto a quelle di vita; pulsioni che, ricordiamolo, non spingono affatto l’uomo a desiderare la morte, ma lo inducono piuttosto a ricercare uno stato di quiete, di annullamento delle tensioni e un ‘azzeramento’ di tutto quanto è fonte di tensioni spiacevoli per l’individuo. Certamente queste forze implicano un rigetto di quanto la vita stessa rappresenta, ovvero proprio la tensione verso il soddisfacimento, che di per sé implica necessariamente una certa dose di sofferenza. E tuttavia questo fondo così problematico per l’essere umano è sempre presente, oltretutto in quanto la mancanza di senso è sempre dietro l’angolo, per ciascuno: Freud non aveva forse intuito che persino il delirio è un tentativo di guarigione, in quanto è un modo di donare senso all’incomprensibile? «La mente ha bisogno di senso», diceva Piera Aulagnier, come di un nutrimento per la psiche, e credo che non possiamo che essere d’accordo con questa idea. Infatti, è soprattutto nei cosiddetti casi-limite, che mettono a dura prova la possibilità dell’analista di portare avanti il trattamento – diceva André Green che sono le situazioni che costituiscono il «limite» dell’analizzabilità, – che si ritrovano una sorta di opposizione alla guarigione e un annullamento di tutti gli sforzi dell’analista di curare, che vanno di pari passo con una mancanza di senso della propria esistenza. C’è da dire comunque che anche l’idea di cura non va da sé in psicoanalisi: a rigore l’analista non dovrebbe voler curare in senso tradizionale, ma appunto analizzare, e la guarigione, o meglio la trasformazione del paziente, ne verrebbe di conseguenza. Comunque, in queste situazioni – più comunemente dette borderline – la convergenza del narcisismo e del masochismo, sorta di fondo intrattabile dell’umano, che avrebbe appunto la sua origine nella pulsione di morte, tende ad annullare le forze che invece spingerebbero verso la guarigione. Il paziente sembra così più interessato a far fallire l’impegno dell’analista, che così ne condividerebbe l’impotenza, piuttosto che sostenere la volontà di cura, in una paradossale modalità di assicurarsi sempre il risultato: in ogni caso impedendo all’altro di vincere, per così dire, si è sempre certi della propria riuscita, alimentando e coniugando così, come dicevamo, il proprio narcisismo e il proprio masochismo.

19 giugno 2018

«Gabrielle Rubin e il romanzo familiare di Freud. Conversazione con Valter Santilli» di Doriano Fasoli



Valter Santilli è il curatore della edizione italiana del libro Il romanzo familiare di Freud di Gabrielle Rubin, psicoanalista e scrittrice francese. È un bel testo, agile nello stile e originale nei contenuti. Il libro è il frutto di una ricerca dell’autrice – condotta con metodo rigorosamente freudiano – sulle tracce del romanzo familiare di Freud. Questo suo lavoro appare ispirato da una suggestiva frase di Ernest Jones: «Si dovrebbero studiare le conseguenze che su Sigi hanno avuto le complessità della sua famiglia di origine», messa in esergo. È bene ricordare quanto complessa fosse la ‘costellazione familiare’ di Freud: il padre, Jacob, aveva circa venti anni in più di Amalia, la madre di Freud. Jacob Freud era vedovo e aveva avuto due figli da un precedente matrimonio, Emanuel e Philipp, questi vivevano con lui e avevano all’incirca la stessa età della loro giovane matrigna. Emanuel inoltre era già sposato e aveva un figlio, John, di un anno maggiore di Sigmund: Freud dunque appena nato era già lo zio di un nipote che era più grande di lui di un anno.

Doriano Fasoli: Chiedo al curatore della edizione italiana del libro come e quando è nata l’iniziativa editoriale di pubblicare in italiano questo testo, poco conosciuto, che ha come suo audace obiettivo quello di riscrivere una parte della vita di Freud e di ridefinire alcuni significati delle sue opere attraverso il filtro del romanzo familiare.

Valter Santilli: Nella presentazione del libro ripercorro per sommi capi le tappe che mi hanno portato ad avvertire la necessità di tradurre e pubblicare in italiano questo libro. Trovai e acquistai questo libro di Gabrielle Rubin in una piccola e ben fornita libreria di Montpellier, nel 2006. Rimasi superficialmente colpito dal titolo, per la sua vaga suggestione letteraria, più che dalla scarna immagine di copertina… Una volta tornato a Roma riposi il libro su uno scaffale della mia libreria, di non facile accesso, e lì è rimasto per qualche anno…

E quindi quando e perché iniziasti a leggerlo?

Iniziai a leggerlo quando mi avvicinai, personalmente e professionalmente, alla psicoanalisi e quando il mio interesse per le opere di Freud andò oltre il mero interesse culturale. Quando lessi per la prima volta il libro della Rubin, Le roman familial de Freud rimasi colpito dall’audacia con cui ella si avventura nel ripercorrere, con metodo rigorosamente freudiano, alcune tappe cruciali della vita di Freud, le tappe che, secondo l’autrice, furono poi determinanti per le successive scoperte geniali del padre della psicoanalisi. Rubin in questo suo libro ne rimette in gioco i significati.

Sei dunque rimasto colpito dai questi dati biografici che nel libro vengono rimessi in gioco?

Ti dirò che alla prima lettura del Romanzo familiare di Freud avvertii una certa fastidiosa irritazione pur apprezzandone l’originalità. La mia prima imbarazzata sensazione era che l’autrice volesse mettere Freud ‘sul lettino’ e volesse così riattivare il geniale lavoro ‘autoanalitico’ che Freud aveva compiuto, a suo tempo, con grande audacia e con grande coraggio.

7 aprile 2018

«Un italiano nel maggio 68 a Parigi, ovvero Godere senza limiti. Intervista a Sergio Benvenuto» di Doriano Fasoli



Sergio Benvenuto è psicoanalista, filosofo e saggista. Ricercatore a Roma all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, al quale ha apportato un approccio filosofico e/o psicoanalitico, è presidente dell'ISAP (Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi) e direttore dell'European Journal of Psychoanalysis, da lui fondato nel 1995. Professore emerito, e uno dei maggiori maestri di studi psicoanalitici e filosofici italiani, ha collaborato e collabora a numerose riviste culturali internazionali, tra cui TelosLettre InternationaleTexteJournal for Lacanian StudiesL'évolution psychiatrique. Tra le traduzioni per l’Italia, si ricorda Il seminario. Libro XX. Ancora 1972-1973 di Jacques Lacan, edito da Einaudi nel 1983. Tra le sue copiose pubblicazioni scientifiche e culturali, si vogliono qui ricordare in sintesi solo le recenti oggetto di questa conversazione: Godere senza limiti. Un italiano nel maggio 68 a Parigi, edito da Mimesis e Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi, edito da Orthotes. La seguente conversazione si incentra soprattutto, per la diretta esperienza di Benvenuto al Maggio 68 in Francia, sul volume edito in questi giorni da Mimesis.

Doriano Fasoli: Benvenuto, perché hai scritto un libro sul Maggio 68 in Francia?

Sergio Benvenuto: Pur essendo nato nel 1948, posso dire di aver vissuto il fascismo e la guerra, perché mio padre, straordinario affabulatore, ha passato molte ore nel raccontare a noi figli la sua esperienza sotto il fascismo e durante la guerra. Questo mi ha permesso di stabilire una continuità con la generazione precedente, nel capirne drammi e illusioni. Credo che la nostra generazione abbia lo stesso compito con le generazioni più giovani: testimoniare la propria esperienza. È quel che ho cercato di fare io con questo libro quasi-postumo. Lo sento come un dovere quasi biologico: trasmettere ai più giovani non tanto delle idee, delle teorie, delle convinzioni, quanto piuttosto, semplicemente, quel che si è vissuto. Saranno poi i nostri posteri a farne quel che vorranno.

Cosa significò per te, allora diciannovenne, studente italiano alla Sorbona di Parigi, trovarsi nella tempesta del Maggio ’68? E cosa ti spinse ad andare a Parigi?

Decisi di andare a studiare a Parigi nel 1967 perché ero straordinariamente attratto dalla cultura francese di allora, improntata a quello che si chiamava «strutturalismo» (Lévi-Strauss, Barthes, Lacan, Foucault, Althusser, Todorov) e che poi gli americani chiamarono, chissà perché, «post-strutturalismo». Prima dello strutturalismo, molti dei miei maestri dell’adolescenza erano francesi: i surrealisti, Sartre, Camus, Céline, Merleau-Ponty, Bataille… Inoltre, volendo iniziare un percorso di formazione come psicoanalista, intuivo che all’epoca in Francia bolliva molto nella pentola psicoanalitica. E non mi sbagliavo, dato che la psicoanalisi francese, all’epoca ancora alquanto ignota nel mondo, avrebbe poi preso una posizione di preminenza nel panorama mondiale. Non solo Lacan, ma la psicoanalisi francese in genere.

Il Maggio 68 fu per me entusiasmante perché ero in perfetta sintonia con molte delle esigenze che allora si espressero. E che non erano solo esigenze politiche, ma di rivoluzione del modo di vivere. Il Maggio sembrò realizzare, anche se in modo effimero, il sogno di varie generazioni di militanti dell’estrema sinistra. Non dimentichiamo che lo sciopero generale politico che paralizzò la Francia per settimane era stato teorizzato proprio da un francese, Georges Sorel, attraverso un libro del 1908 che fu bestseller della sinistra per decenni, Riflessioni sulla violenza. Col Maggio, un sogno a cui partecipavo da anni sembrava divenuto realtà. Il guaio è che poi un’intera generazione – di militanti, filosofi, saggisti, ecc. – ha continuato a pensare il 68, e il Maggio 68 in particolare, non come un’eccezione ma come ciò che poteva diventare regola. Ed è allora che sono cominciate le disillusioni amare, la tentazione masochista del terrorismo, il radicalismo sterile della sinistra, ecc.