24 marzo 2019

«André Green e la passione del negativo. Intervista ad Andrea Baldassarro» di Doriano Fasoli



Andrea Baldassarro, psichiatra e psicoanalista, è membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytic Association. Tra i suoi ultimi lavori: «Un tentativo di comprendere la psicosi», in La tentazione psicotica di Liliane Abensour (2014); «André Green e la psicoanalisi contemporanea», in La clinica psicoanalitica contemporanea di André Green (2016); «Alterità e identità nella psicoanalisi del XXI secolo. Miti, religioni, linguaggi», in Cartografie dell’inconscio a cura di Lorena Preta (2016). Ha curato il volume Perché il male, edito da Mimesis nel 2017, e il recente La passione del negativo. Omaggio al pensiero di André Green, edito da Franco Angeli. Vive e lavora a Roma.

Doriano Fasoli: Dottor Baldassarro, cos'è che si oppone nell'essere umano alla possibilità di curarsi, di essere curato?

Andrea Baldassarro: Negli ultimi anni della sua vita, e nei suoi ultimi scritti, Freud si era interrogato sempre più insistentemente su quello che si oppone alla guarigione, e più in generale sulla tendenza dell’essere umano a procurarsi della sofferenza, dunque sulla presenza di forze che si oppongono – almeno apparentemente – al piacere. Certo, molta di questa riflessione era derivata dall’idea che esistano le pulsioni di morte accanto a quelle di vita; pulsioni che, ricordiamolo, non spingono affatto l’uomo a desiderare la morte, ma lo inducono piuttosto a ricercare uno stato di quiete, di annullamento delle tensioni e un ‘azzeramento’ di tutto quanto è fonte di tensioni spiacevoli per l’individuo. Certamente queste forze implicano un rigetto di quanto la vita stessa rappresenta, ovvero proprio la tensione verso il soddisfacimento, che di per sé implica necessariamente una certa dose di sofferenza. E tuttavia questo fondo così problematico per l’essere umano è sempre presente, oltretutto in quanto la mancanza di senso è sempre dietro l’angolo, per ciascuno: Freud non aveva forse intuito che persino il delirio è un tentativo di guarigione, in quanto è un modo di donare senso all’incomprensibile? «La mente ha bisogno di senso», diceva Piera Aulagnier, come di un nutrimento per la psiche, e credo che non possiamo che essere d’accordo con questa idea. Infatti, è soprattutto nei cosiddetti casi-limite, che mettono a dura prova la possibilità dell’analista di portare avanti il trattamento – diceva André Green che sono le situazioni che costituiscono il «limite» dell’analizzabilità, – che si ritrovano una sorta di opposizione alla guarigione e un annullamento di tutti gli sforzi dell’analista di curare, che vanno di pari passo con una mancanza di senso della propria esistenza. C’è da dire comunque che anche l’idea di cura non va da sé in psicoanalisi: a rigore l’analista non dovrebbe voler curare in senso tradizionale, ma appunto analizzare, e la guarigione, o meglio la trasformazione del paziente, ne verrebbe di conseguenza. Comunque, in queste situazioni – più comunemente dette borderline – la convergenza del narcisismo e del masochismo, sorta di fondo intrattabile dell’umano, che avrebbe appunto la sua origine nella pulsione di morte, tende ad annullare le forze che invece spingerebbero verso la guarigione. Il paziente sembra così più interessato a far fallire l’impegno dell’analista, che così ne condividerebbe l’impotenza, piuttosto che sostenere la volontà di cura, in una paradossale modalità di assicurarsi sempre il risultato: in ogni caso impedendo all’altro di vincere, per così dire, si è sempre certi della propria riuscita, alimentando e coniugando così, come dicevamo, il proprio narcisismo e il proprio masochismo.

Da cosa trae spunto il titolo del libro da lei curato di recente per Franco Angeli, La passione del negativo?

Come è indicato nelle note di copertina del volume, il negativo non è da considerare solo nella sua accezione ‘negativizzante’, in quanto è da concepire non solo come un elemento distruttore, ma anche creatore: anche un autore molto significativo nel campo della riflessione filosofico-politica, Roberto Esposito, ha recentemente considerato il «negativo» come un necessario momento di passaggio che precede e consente poi l’accesso al positivo, alle figure dell’«affermativo», come le definisce: ovvero la differenza, la determinazione e l’opposizione. Oltretutto, quando ci si illude di ‘superare’ il negativo o di poterne neutralizzare gli effetti, ecco che esso risorge più potente di prima, come abbiamo e stiamo vedendo nello scenario geopolitico contemporaneo, con l’accentuarsi di conflitti, rivendicazioni, guerre e attentati. «Negando il negativo che da sempre percorre la nostra esperienza», sostiene Esposito, «ciò che chiamiamo nichilismo ha finito per potenziarlo esponenzialmente, abbandonandoci alla sua replica distruttiva». In più, il negativo è sempre dotato di quell’elemento passionale che si ritrova anche nell’esperienza clinica, ad esempio quando si dispiega nel cosiddetto «transfert negativo». E André Green stesso è stato un analista molto passionale: molti ricordano le sue «scenate» quando non era d’accordo con le tesi di altri analisti – io stesso ho assistito a momenti di vero e proprio furore ‘passionale’ – ma questo non gli impediva di essere considerato comunque un vero maestro, e oltretutto un analista engagé. In fondo la passione per la psicoanalisi può anche essere intransigente rispetto alle molte sue derive contemporanee, come la semplificazione cui talvolta assistiamo dei suoi presupposti e delle sue mire. Per questo ho scelto di dare questo titolo al volume, appunto La passione del negativo. Il negativo si agita sempre nell’animo umano, ne alimenta i suoi desideri e le sue ambizioni: come comprendere altrimenti la tendenza umana a distruggere ancor prima che a creare? 

Come definirebbe precisamente il «negativo»?

Non è facile darne una definizione precisa, o ultima, in quanto si rischierebbe di scivolare in affermazioni scontate, o banali. D’altra parte il negativo è una presenza costante nell’esperienza umana, basti pensare a tutti gli sforzi di neutralizzarne gli effetti anche attraverso pratiche magiche; è da sempre presente nella riflessione filosofica, da Hegel in poi nel pensiero moderno, e anche nella matematica, con i numeri negativi… E ancora, nello scenario contemporaneo, la presenza del negativo è talmente evidente, con la tendenza generalizzata – magari eterna – dell’uomo a sopraffare il proprio simile, o a distruggere l’ambiente nel quale vive. E anche le religioni, non solo i miti, hanno sempre avuto a che fare con la presenza di un negativo da allontanare, esorcizzare, escludere, in fondo da demonizzare. Ma quello che mi interessa è la coniugazione indispensabile del negativo con le forze creatici: non vi è possibilità di creazione, artistica, poetica, concettuale e addirittura scientifica se non passando per un negativo che, in quanto apertura allo sconosciuto, all’imprevisto, può aprire la strada alla creazione di un’opera d’arte, o letteraria, o di una teoria scientifica, o ancora di donazione di senso alle cose. Si tratta di quella negative capability di cui parla Bion citando Keats, appunto la capacità di sostare nell’ignoto, che è, credo, la qualità maggiore che si richiede ad un analista.

«La psicoanalisi trova il negativo al fondamento stesso della sua esistenza, perché la sua teoria si basa su una positività in eccesso: il troppo pieno della pulsione […] con cui si può venire a patti solo negativizzandolo»: può dare una breve spiegazione di questa definizione fatta da André Green?

Per Green il negativo è teso tra due estremi: il negativo della rimozione, da una parte, e il negativo del masochismo della reazione terapeutica negativa dall'altro. Ma non solo la rimozione, anche gli altri meccanismi di difesa cercano di eliminare quanto è spiacevole per la psiche. L’apparato psichico infatti non solo produce, ma trasforma anche in senso negativo, cancellando ciò che è avvenuto: non solo per mezzo della rimozione, del diniego o della forclusione, ma ad esempio anche «negativizzando» l’esperienza stessa. Il dolore che può provocare infatti la percezione arriva a generare l'allucinazione negativa, che Green propone di designare come «rappresentazione dell'assenza di rappresentazione». Quando un’esperienza non è, infatti, né riconoscibile né rimuovibile, non entra neppure nel sistema delle rappresentazioni, e si presenta come un «buco» nell’esperienza percettiva. L'allucinazione negativa è dunque costitutiva dell'azione psichica che mira a non percepire un oggetto presente, e che già per Freud precede ogni allucinazione positiva. 

Allo stesso modo, la pulsione costituisce sempre un eccesso, un «troppo», un «pieno» che cerca una soluzione nel senso di uno svuotamento, di un’attenuazione della spinta pulsionale verso la sua meta che è costituita dalla sua estinzione, seppure temporanea. È questo eccesso che la pulsione rappresenta che deve essere allora «negativizzato» perché l’apparato psichico possa ritornare a funzionare. In questo senso la negativizzazione della pulsione è il primo passo per cercare e ottenere il soddisfacimento, e da qui ripartire perché il soggetto possa riprendere a desiderare, e a cercare – o creare-trovare, come dice Winnicott – l’oggetto del soddisfacimento, foss’anche illusorio.

In cosa consiste l’originalità del pensiero di Green attorno a questo tema?

Come scrivo nell’introduzione al volume, Green afferma che il «negativo» è a fondamento del dispositivo analitico, e copre un ambito vastissimo nello sviluppo del pensiero freudiano, evolvendosi dalla nevrosi come negativa della perversione fino alla reazione terapeutica negativa. Già l'idea portante di tutta la psicoanalisi, l'esistenza dell'inconscio, pone in effetti al cuore di tutto l'apparato teorico un «negativo» la cui realtà non si limita a invertire o impedire la direzione verso la rappresentazione cosciente, ma determina tutto lo psichismo, la cui parte conscia, fino a Freud e ancora oltre (e ancora oggi, direi, a volte anche tra gli stessi psicoanalisti), era stata largamente sovrastimata e viene invece ora subordinata e assoggettata all'inconscio stesso. E Green dice ancora che «non è facile far capire agli stessi psicoanalisti che cosa corrisponde alla categoria del negativo in psicoanalisi, di cui sono peraltro i testimoni privilegiati», benché «la psicoanalisi offre la particolarità di essere il tipo di pratica che rende visibile il negativo più che in qualsiasi altro campo». Il fondamento della negatività in psicoanalisi concerne gli effetti della mancanza, della non presenza e della perdita dell'oggetto, e si fonda sulla capacità della psiche umana di rispondere a quest’assenza attraverso la rappresentazione. Dunque esso è da concepire, come dicevo prima, come un elemento non solo distruttore, ma creatore. D’altra parte, direi ancora, gli effetti del negativo sono particolarmente evidenti non solo nel funzionamento intrapsichico, ma anche nelle dinamiche collettive e geopolitiche contemporanee: la cancellazione dell’alterità e delle differenze – che fanno del negativo il fondamento della soggettività stessa – sono fenomeni in costante evoluzione ormai a livello planetario. 

Quali sono i riferimenti fondamentali di Green?

André Green è stato a mio parere l’analista più importante a cavallo del secolo scorso e di quello attuale. La sua qualità è stata quella di saper coniugare una profonda conoscenza del pensiero di Freud e dei “classici” con quello degli autori contemporanei, e di interloquire con essi, mosso appunto da una forte passione per il suo oggetto, la psicoanalisi stessa. Così, accanto alla rivisitazione dei fondamenti della psicoanalisi freudiana, ha ingaggiato un dialogo serrato con molti autori post-freudiani, Winnicott e Bion in primo luogo, ma non solo con essi: anche con i suoi, i nostri contemporanei, ha discusso ininterrottamente, in questo forse favorito dalle sue origini linguistiche: nato in Egitto, parlava perfettamente l’inglese, e questo gli ha consentito di tenere il dialogo anche con l’Oltremanica, cosa rara ancora oggi. E spesso è stato in Italia, che amava moltissimo: ricordo che, in occasione di un convegno su «L’Edipo, oggi» a Roma, avevamo assistito a una messa in scena teatrale dell’Edipo a Colono per la regia di Mario Martone, e pur non comprendendo la lingua, era estremamente affascinato dalla rappresentazione. D’altra parte, Green da giovane era stato anche un attore di teatro, e questo forse spiega la sua attitudine “passionale”, come dicevo prima. Ed anche la sua passione per la dimensione «folle» dell’essere umano: non credo sia un caso che uno dei suoi libri più significativi si chiami, nel titolo originale, La follia privata, quella follia che pertiene ad ogni essere umano e che solo in alcune circostanze, come nel setting analitico, può arrivare a mostrarsi.

In ogni caso, i suoi contributi originali al pensiero psicoanalitico sono stati moltissimi, innovandolo e arricchendolo, sempre però mantenendo uno sguardo ai suoi “fondamenti” imprescindibili. Posso solo citarne alcuni:

  • la psicosi bianca, una sorta di psicosi senza delirio, legata all’impossibilità di rappresentare l’assenza con una sorta di disinvestimento radicale dell’oggetto che dà origine ad un vuoto rappresentativo e che conduce al disinvestimento anche dell’apparato psichico e della possibilità stessa di pensare.
  • la madre morta, condizione nella quale il bambino si trova confrontato a un lutto e a una depressione materna che ne segneranno profondamente lo sviluppo e l’evoluzione soggettiva. E che si ripresenterà nel transfert come ripetizione di questa depressione infantile.
  • la posizione fobica centrale, una sorta di difesa (contro)associativa che impedisce che si realizzi un assemblaggio di senso, che viene rigettato in nome del mantenimento di un assetto di base che tende a conservare lo stato mentale esistente e non consente alcun cambiamento o trasformazione psichica. 
  • l’eterocronia temporale che segna il tempo dell’analisi, e che non si ordina secondo una successione coerente dal passato al presente, ma fonda sull’après-coup la sua logica di funzionamento. 
  • i cosiddetti processi terziari, indispensabile complemento dei processi primari e secondari, fondamento dell’attività simbolica e necessari allo sviluppo di un’area di pensiero e di rappresentazione per il soggetto.
  • la ripresa del concetto di follia, che non è la psicosi o il «nucleo psicotico» all’opera quando l’analista si trova confrontato con qualcosa che non sa come ‘maneggiare’ fondandosi solo sulla teoria classica, ma quella follia che si ritrova spesso nella conduzione del trattamento analitico, come dicevo sopra, e che Freud – pur riprendendo a dialogare con essa, come già Foucault aveva fatto notare – aveva ‘depurato’ dalla nevrosi.
  • e quello di follia privata, appunto l’emergenza in analisi di quella follia soggettiva umana, che non è «un disordine della ragione», ma un «elemento affettivo, passionale, che modifica la relazione del soggetto con la realtà», e che se non comparisse starebbe ad indicare – anche nell’analista – che l’analisi non ha prodotto alcun passo significativo. A questo proposito dice infatti Green: «Per un orecchio esercitato, anche nella più banale delle nevrosi arriva un momento in cui si manifesta, nel controtransfert dell’analista, la sensazione di avere a che fare con un funzionamento mentale folle; si tratta di un momento passeggero ma cruciale».
  • poi, proprio il lavoro del negativo, concetto essenziale per comprendere una serie di fenomeni del campo analitico spesso ignorati per la potenza, negativa appunto, che si dispiega da essi: la disorganizzazione psichica, le psicosomatosi, la reazione terapeutica negativa, il narcisismo di morte e il masochismo impermeabile a qualsiasi cambiamento.
  • e infine, in diretta discendenza dal negativo, i processi di slegamento che, di pari passo con quelli di legame, fanno della dialettica costante pulsioni di vita-pulsioni di morte il cardine dell’esistenza umana. Eros e Thanatos infatti non si cancellano mai l’un l’altro, ma possono solo contraddirsi e confrontarsi costantemente, intrecciandosi senza fine… 

Di quali altri contributi si avvale il volume?

In questo volume diversi analisti, accomunati come Green dalla passione per il proprio oggetto di studio e di lavoro, la psicoanalisi, hanno elaborato il loro personale «omaggio» al pensiero di Green declinandolo secondo la propria prospettiva teorico-clinica. Cosi, Litza Guttieres-Green, moglie di Green, nonché valente analista francese ma con un’origine anche italiana, si è soffermata sulla pulsione di morte e di distruzione con un particolare accento sulle condizioni sempre più inquietanti del mondo contemporaneo, caratterizzate da una ripresa della spinta alla distruzione dell’altro e di sé, come la recente stagione degli attentati in Francia ci ha mostrato. Inoltre ci ha consegnato un ricordo personale del marito, commovente e asciutto allo stesso tempo. Francesco Conrotto ha stilato una breve ma efficace analisi delle tematiche principali intorno alle quali si è sviluppata la discussione sul negativo in psicoanalisi. Lorena Preta ha parlato dell’emozione estetica a proposito della capacità di Green, profondo conoscitore dell’arte antica e contemporanea, di individuare le radici più profonde della creazione artistica: illuminante il suo saggio su Leonardo e il suo Cartone di Londra. Catherine Chabert, allieva e amica di Green, si è cimentata con uno dei concetti più noti di Green, quello della «madre morta», esemplificato da un caso clinico di rara efficacia teorica e narrativa. Amalia Giuffrida si è soffermata, nel suo «ringraziamento» ad André Green, sulla questione dell’allucinazione negativa e più in generale sulla nozione di «allucinatorio», da cui dipendono la creazione sia della dimensione fantasmatica del soggetto che il suo appropriarsi della realtà esterna. Giuseppe Squitieri, riferendosi all’interesse di Green per la semiotica di Peirce, fa un’analisi accurata della sua concezione dei processi terziari, che sono alla base dei processi di simbolizzazione del soggetto. Lucio Russo insiste sulla duplice funzione del negativo, distruttrice e costruttrice, e sulla funzione del lavoro del negativo nell’instaurarsi della relazione analitica, soffermandosi anche sull’analisi di uno dei testi più significativi e complessi di Freud, «La negazione». Infine, nel volume è incluso il testo di una conferenza dello stesso Green tenuta a Roma nel 2003, appunto su «Negativo e negazione in psicoanalisi», e un testo di Fernando Urribarri, collaboratore di Green e curatore di alcuni suoi volumi postumi, sui «percorsi di André Green, dalla clinica del negativo alla distruttività radicale», una sorta di sintesi-summa del pensiero dell’autore francese. Chiude il volume la trascrizione di un’intervista, fatta dallo stesso Urribarri a Green, dove quest’ultimo traccia la genesi e lo sviluppo delle sue idee principali, intrecciando questo racconto con diverse considerazioni sulla sua esperienza personale di analista e sui suoi rapporti con gli altri analisti a lui contemporanei, incluso il suo controverso confronto con Jacques Lacan. 

Insomma, un volume denso e multiforme, che utilizzando il vertice del «negativo», intende non solo ricostruire e ampliare il pensiero di un maestro come André Green, ma rintracciarne le radici e mostrarne l’utilità nello scenario contemporaneo: la psicoanalisi ha infatti, a mio parere, molto da dire anche sui movimenti sociali e culturali e sui fenomeni antropologici del mondo attuale. 

È ben riconosciuta in Italia l’importanza di questo autore?

Credo che l’interesse intorno a un pensatore come André Green sia sempre più sviluppato, anche qui da noi, in quanto ha saputo coniugare l’impegno teorico con una posizione direi ‘etica’, che è quella che sempre si richiede a un analista vero, attento non solo alla clinica e ai propri pazienti – esemplari sono i suoi contributi sui casi-limite, forse le forme più difficili da trattare e sempre più frequenti negli studi degli analisti, – ma anche con uno sguardo rivolto al mondo esterno, alle prese con i dilemmi della contemporaneità ma anche con le bellezze della vita, dell’arte e della conoscenza più in generale. È per questo forse che ho voluto concludere il mio saggio introduttivo al volume con le parole dello stesso Green a proposito della possibilità data comunque agli uomini di «attingere le risorse della nostra esistenza alla potenza di Eros», in quanto «l’amore e il senso sono una sola stessa cosa».In fondo già Freud, ci ricorda Green, aveva infatti suggerito che è «l’eros che tiene unite le cose del mondo». Se dunque il negativo allora è sempre all’opera, non per questo impedisce di creare, e di vivere.


(Marzo 2019)



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