28 marzo 2019

«Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini. Conversazione con Bruno Moroncini» di Doriano Fasoli



Bruno Moroncini (Napoli, 1946) ha insegnato Filosofia morale, Antropologia filosofica e Psicologia clinica nelle Università di Messina e Salerno. Per Cronopio ha pubblicato: Mondo e sensoHeidegger e Celan (1998); La comunità e l’invenzione (2001); Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone (2005, II ed. 2010); con Rossana Petrillo, L’etica del desiderioUn commentario del seminario di Jacques Lacan (2007); Walter Benjamin e la moralità del moderno (2009); Gli amici non si danno del tu (2011); Lacan politico (2014), Perdono giustizia crudeltàFigure dell’indecostruibile in Jacques Derrida (2016). L’ultimo suo lavoro, pretesto del nostro incontro, s’intitola: La morte del poeta. Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini (edito sempre da Cronopio).

Doriano Fasoli: Professor Moroncini, quando Pasolini avverte per la prima volta che i tentacoli del potere si stanno insinuando in lui?

Bruno Moroncini: Non saprei datare con assoluta precisione il momento in cui Pasolini si rende conto di essere anche lui parte, sebbene in un modo periferico, del potere, né so se ciò sia possibile di per sé. Quel che è certo è che da un certo punto in poi, verso la fine degli anni ’60, forse per la notorietà procuratagli dal cinema, Pasolini incomincia ad avvertire che la gente intorno a lui lo considera un uomo di potere. È lui stesso a darne testimonianza: in un articolo del giugno del 1969, intitolato «Travestiti da poveri», racconta una sua esperienza accadutagli in Turchia dove si è recato per girare alcune scene di Medea. Il sindaco della cittadina dove si trova, accortosi della sua presenza ad una rappresentazione teatrale, lo tratta con grande deferenza, lo fa sedere in un posto d’onore del teatro all’aperto, insomma fa gli onori di casa all’ospite famoso. Pasolini si interroga allora su due cose: sul fatto che anche lui è trattato come una persona importante, di potere, e che il povero sindaco della cittadina turca soggiace al fascino che promana dal potere. Il punto è che questo fascino lo prova anche Pasolini che lo confessa nello stesso articolo ricordando l’emozione intensa e sconvolgente che ha provato all’apparizione in un film di Miklós Jancsó di un gruppo di ufficiali ungheresi a cavallo che incarnavano ai suoi occhi la forma più estrema del potere, quella della possibilità di infliggere la morte. Ne era totalmente affascinato. Credo che da queste esperienze nasca la riflessione sul potere che occupa l’ultimo Pasolini e che in esse siano presenti in nuce anche le tesi della abiura della Trilogia della vita.

Non era scettico Pasolini, come tanti intellettuali, nei confronti della psicoanalisi? Perché poi vi fa ricorso nella stesura di Petrolio?

Non so se Pasolini fosse scettico nei confronti della psicoanalisi: come ho scritto nel libro il rapporto che aveva con i saperi era ‘sagittale’, la lettura e l’uso che fa della semiotica, della sociologia e della psicologia, per non parlare del marxismo e di Gramsci, assomiglia, per dirla con Foucault, ad una freccia scagliata nel cuore dei saperi o a ‘un piano ideale d’immanenza che li divide lungo il loro asse’. Aspettarsi da Pasolini una conoscenza accademico-universitaria della semiotica, della sociologia e della psicologia, è tempo perso. Può darsi quindi che il suo non fosse scetticismo ma, per parafrasare Hölderlin, ‘un libero uso di ciò che è proprio’. In verità, a me sembra che Pasolini scettico nei confronti della psicoanalisi non lo fosse affatto, anzi mostrasse un interesse fortissimo per Freud e per molti dei suoi allievi, soprattutto Ferenczi, anche se si può dire che il suo era un uso ludico-inventivo della psicoanalisi. Cita anche Lacan più volte nonostante sia quasi impossibile individuare che cosa possa aver letto degli Scritti, disponibili in italiano già dal 1966. Mi conforta d’altronde il fatto che una studiosa che di Pasolini ne sa sicuramente più di me ritenga non solo attestata la presenza della psicoanalisi nella sua produzione ma prenda sul serio la sua affermazione di aver letto precocemente «tutto Freud». Mi riferisco a Silvia De Laude, che ha scritto sull’argomento un bel saggio che apparirà prossimamente in un volume collettaneo sul romanzo italiano pubblicato da Carocci. Per rispondere quindi alla sua domanda, penso che Pasolini faccia ricorso alla psicoanalisi sempre e non soltanto in Petrolio.

In cosa consiste precisamente il fascino del fascismo?

Come aveva dimostrato Elvio Fachinelli, il fascino del fascismo, il cosiddetto «fascismo eterno» di cui parla Umberto Eco, nasce anche per Pasolini dalla capacità di legare in un sintomo (termine da intendere nel senso proprio della psicoanalisi) due correnti contraddittorie che appartengono alla vita storica dei popoli e che non possono non ripercuotersi su quella psichica dei singoli: la caducità di tutte le cose umane e il bisogno altrettanto primordiale di sicurezza e continuità. Come aveva dimostrato Elvio Fachinelli, il fascismo storico era stato la risposta sintomale all’effetto della prima guerra mondiale, vale a dire alla morte della «patria». Da un lato il fascismo con il suo tratto rivoluzionario la faceva propria (fine dell’Italia liberale e risorgimentale), dall’altro con il ricorso al passato romano la negava. Il passato remoto stabilizzava la turbolenza del passato prossimo e permetteva di leggere la discontinuità e la rottura come fattori di stabilizzazione. Il dispositivo psichico in atto nel fascismo storico era quello della rimozione: nel momento in cui la rappresentazione inaccettabile della morte della «patria» fosse stata rimossa, ad essa era consentito ritornare nella forma del sintomo, nascosta sotto la rappresentazione sostitutiva del passato vittorioso. La controprova era nel fatto, individuato correttamente da Pasolini, che se la rappresentazione rimossa si fosse invece manifestata senza veli in parole e comportamenti coscienti, la reazione (come quella del padre di Pasolini) sarebbe stata aggressiva e violenta: la rappresentazione deve restare rimossa pena la rottura del soggetto.

Si potrebbe dire che vent’anni dopo, una seconda morte della patria, questa volta definitiva, ossia quella susseguente all’8 settembre del ’43, abbia prodotto un’altra categoria di sintomi, raggruppabili sotto il dispositivo freudiano della Verleugnung, termine traducibile con ‘diniego’, ossia un dispositivo con cui si nega qualcosa in cui al contrario si continua tranquillamente a credere senza che questo comporti una pur minima lacerazione soggettiva. Questo nuovo meccanismo di difesa, la scissione dell’io, individuato da Freud quasi a fine carriera, spiega agli occhi di Pasolini le nuove forme del potere, quelle del neocapitalismo di cui sono responsabili, in gran parte inconsapevoli, gli uomini della Democrazia Cristiana e i cattolici di sinistra non senza il contributo del Partito Comunista Italiano, e la cui caratteristica è appunto quella di poter respingere le lusinghe del potere mentre si contribuisce intensamente al suo sviluppo. I nuovi fascisti quindi non sono individui tutti d’un pezzo, bensì individui ‘problematici’, scissi, esattamente come il protagonista di Petrolio, e come sarebbe diventato anche Pasolini se da questo esito non lo avessero protetto la poesia e la perversione, soprattutto il masochismo.

Per il resto la questione del fascismo è per Pasolini la questione dei Padri e del loro rapporto con i Figli, ossia è una questione edipica. Il fascino del fascismo equivale a quello dei Padri che rappresentano appunto il legame fra caducità e sicurezza, fra debolezza e forza. Oggetto della prima identificazione del bambino, il Padre, che per il resto partecipa anche lui della caducità di tutte le cose umane, incarna la forza che resiste al rovinio inevitabile dell’esistenza. I Padri trasmettono il fascismo ed è il compito ingrato dei Figli amarli e allo stesso tempo rifiutare la loro eredità che come ogni eredità è anche un peso ed una pena. 

Quali culture entravano in gioco nell’educazione intellettuale di Pasolini?

Un uomo di cultura nato all’inizio del Novecento e giunto a maturità verso la fine del fascismo ha due numi tutelari cui fare riferimento per orientarsi nella vita e nel pensiero: Marx e Freud. Poi dal momento che Pasolini voleva esser poeta c’è la presenza di tutta la tradizione della poesia italiana, in primo luogo Dante e all’altro estremo Pascoli. Dall’esterno Baudelaire e Rimbaud e poi vari compagni di strada: Rebora, Penna, Fortini, Luzi. Dal momento tuttavia che Pasolini non era un conservatore ma, come Benjamin, stava nel fronte dei tradizionalisti, di quelli che distruggono per salvare, ci sono le avanguardie artistiche, i formalisti russi, Roland Barthes e Philippe Sollers, forse Maurice Blanchot. Gadda, Proust e Joyce. Tutto lo sperimentalismo contemporaneo (di cui per lui non faceva parte la neoavanguardia); basterebbe Petrolio da solo a dimostrare il carattere sperimentale della ricerca di Pasolini: questo romanzo che non è un romanzo sta alla stessa altezza della Recherche proustiana, dell’Ulisse di Joyce, se non di Finnegans Wake, dell’Uomo senza qualità di Musil, del Processo di Kafka, del Pasticciaccio di Gadda, ossia di tutti i tentativi di fare letteratura dopo la morte della letteratura, dopo la fine del romanzo borghese. Non a caso è un’opera postuma e non finita, pensata e voluta come tale ancor prima di incominciarla a scrivere. Una scrittura frammentaria secondo il dettato di Maurice Blanchot.

Conobbe personalmente Foucault, Deleuze, Derrida, Barthes?

Nel catalogo La Biblioteca di Pier Paolo Pasolini redatto da Graziella Chiarcossi e Franco Zabagli troviamo due testi di Roland Barthes, l’edizione originale di Sade, Fourier, Loyola, libro che compare anche nella «Bibliografia essenziale» presente nei titoli di testa di Salò o le 120 giornate di Sodoma, e un saggio su Ertè tradotto in italiano; un testo di Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni; uno di Foucault, Le parole e le cose; tre di Blanchot, il Lautréamont et Sade, anch’esso presente nella «Bibliografia essenziale» di Salò-Sade, un altro scritto su Sade L’inconvenance majeure Le livre à venir; niente di Derrida e Lacan. Aggiungerei, a dimostrazione dell’apertura e della curiosità di Pasolini, tre scritti fondamentali di Walter Benjamin: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, la raccolta Avanguardia e rivoluzione e, dulcis in fundo, Il dramma barocco tedesco

Ovviamente tutto ciò di per sé non vuol dir molto: la sola presenza dei libri nella biblioteca non significa che li abbia necessariamente letti, né quale uso ne abbia fatto. E può aver letto tanti altri libri che non si ritrovano nella sua biblioteca: Lacan, ad esempio, visto che, come già accennato, lo troviamo citato a più riprese in articoli e saggi. Né dalla sola lettura si ricava il tasso di influenza – angosciosa come direbbe Bloom – che libri e autori possono aver avuto su Pasolini, o il debito che con loro egli possa aver contratto. A meno che tutto ciò non sia documentato e documentabile attraverso citazioni e rimandi che legittimino la messa in rapporto o almeno giustifichino le eventuali forzature interpretative. A parte dunque conoscenze dirette che escluderei per Derrida e Foucault, più che sicura è l’influenza di Barthes (forse anche conosciuto personalmente, non so), di Sollers e di Blanchot. Per il resto quando si stabiliscono relazioni o omologie concettuali fra Pasolini e la teoria del potere del tardo Foucault (di cui si viene a conoscenza solo nel 1976, anno della pubblicazione del primo volume della Storia della sessualità, intitolato La volontà di sapere) o fra Pasolini e «Il discorso del capitalista» di Lacan (una conferenza tenuta a Milano nel 1972 ma pubblicata, piena di lacune dovute alla registrazione, nel 1978) bisogna andarci con i piedi di piombo. Non perché non si possa fare (io lo faccio abbondantemente), ma perché, in assenza di riscontri filologici diretti, bisogna maneggiare con estrema cautela gli strumenti ermeneutici (e non è detto che mi sia sempre riuscito) cercando di isolare nella produzione dei rispettivi autori dei luoghi testuali la cui comparazione regga, per quel che è sufficiente, la tesi su una loro presunta, possibile, eventuale, identità concettuale. 

Qual era il suo identikit politico?

Comunista: che altro se no? Comunista non appena, alla metà del secolo, ha cervello per pensare, cuore per sentire e occhi per vedere. L’ho già detto: un uomo di cultura nato all’inizio del secolo e che a ventun anni nel 1943 ha già nel suo destino il nome di Marx: prima o poi questo nome gli andrà incontro e lui lo farà suo. E poi, visto che è italiano, incontrerà Gramsci, quello delle Lettere e quello dei Quaderni. Altra cosa è invece il rapporto con il Partito Comunista Italiano che è un rapporto conflittuale, alle volte di grande vicinanza, altre di scontro e incomprensione. I comunisti non hanno mai amato molto Pasolini: a parte la macchia della morte di Guido, a parte l’espulsione per indegnità morale, c’è tutta la difficoltà a capire Ragazzi di vita, molta poesia, quasi tutto il cinema. Soprattutto c’è la resistenza nei confronti del suo rifiuto di un marxismo anchilosato, burocratico e nel caso italiano intriso anche di uno storicismo invaghito delle «magnifiche sorti e progressive», e che tende a scambiare l’attenzione rivolta alle vittime del progresso con il conservatorismo, la lucida descrizione delle vite distrutte, quelle che Emanuele Trevi chiama «anime perse», con il disprezzo e l’odio borghesi, il porre un limite alla potenza della storia con il rifiuto del materialismo storico. So di dire una cosa poco di moda, ma Pasolini è comunista esattamente perché è dalla parte della coscienza, della ragione e della storia. Pasolini sa che sia il mondo contadino che quello del sottoproletariato urbano non hanno chances storiche, non hanno un futuro all’interno della storia che è tutta dalla parte della classe operaia, quindi dal lato delle forze della moderna civilizzazione. Ma è questa una buona ragione per lasciar morire, giusto secondo il dettato foucaultiano, tutto ciò che da questa storia, o dalla storia in quanto tale, è escluso? Di abbandonare all’irrilevanza e all’oblio ciò che è fuori dalla storia o che fatica a stare al passo della storia, che arranca e incespica, che vive la ragione come un invito o un’imposizione alla rinuncia al godimento? Non bisogna essere dei reazionari, ché anzi è l’acquisizione del miglior marxismo novecentesco, per sapere che la storia non è tutto, che esiste il non storico, ossia un dolore ed un piacere che si ripetono intatti, incuranti di tutte le svolte della storia, che tornano incessantemente allo stesso posto nella vita delle comunità e dei singoli, che non vengono né scalfiti né modificati dai progetti coscienti e dalle intenzioni razionali. In psicoanalisi il non storico si chiama reale e la sua incidenza nella vita storica pulsione di morte. Il comunismo di Pasolini è un comunismo del reale.

Con quale altro intellettuale italiano stabilì rapporti d’amicizia e d’intesa?

Quasi con tutti, direi. Con Roversi e Leonetti, cui si aggiunge Fortini, ai tempi di Officina. Con Moravia, Morante, Siciliano, a Roma. Strabiliante è anche la sua generosità verso giovani poeti in cerca della loro prima pubblicazione: ricordo fra tutti Amelia Rosselli e Giorgio Manacorda. Eppure tutta questa gentilezza, apertura, disponibilità, convivono con polemiche furiose, impietose stroncature, discussioni violente e scontri all’ultimo sangue. Fatti, tuttavia, il più delle volte, rigorosamente in versi. Oggi si fa fatica a capirlo, oggi che non esistono più una società letteraria e una repubblica delle lettere, soppiantate dall’industria culturale di massa; ma una volta, le stesse idiosincrasie personali, le gelosie e rivalità, che pure c’erano, erano per lo più mediate attraverso la cultura. Lo scontro non era mai solamente privato: riguardava sempre anche opzioni culturali, scelte artistiche, differenze ideologiche, e alla fine erano queste a prevalere. Tolti pochi casi – quello, ad esempio, di Edoardo Sanguineti – in tutti gli altri l’amicizia sopravviveva alla polemica: sono convinto che Fortini, che pure non fu mai molto tenero con Pasolini, gli era rimasto egualmente amico: lo attesta, al di là di ogni dubbio, il necrologio. Ricordo, per finire, il caso eclatante della stroncatura da parte di Pasolini del romanzo La storia di Elsa Morante uscito nel 1974. Lo scontro, che dovette avere un doloroso peso personale, verteva in realtà su una questione letteraria e artistica: che ne è della forma-romanzo nell’epoca nel neocapitalismo? Si può continuare a scrivere romanzi secondo il modo antico o bisogna inventare un «nuovo ludo»? Come fare letteratura dopo la sua morte? Oggi lo sappiamo: la risposta alla Storia non era la sua stroncatura, era Petrolio.


(Marzo 2019)





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