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3 marzo 2025

«Senso e intelletto nel pensiero moderno» di Luciano Albanese


Immanuel Kant


La filosofia moderna nasce quando entra in crisi il concetto di somiglianza fra percezioni e oggetti corrispondenti, il cardine di Aristotele e del materialismo ellenistico. Inversamente, la dissomiglianza fra percezioni e oggetti, ricavata dall’atomismo democriteo, era il tema centrale dello scetticismo antico, ma è solo nei tempi moderni che emergono tutte le sue potenzialità, che lo faranno diventare il motivo conduttore dei ‘nuovi filosofi’. 

 

Sesto Empirico aveva dimostrato, come già Democrito a suo tempo, che il fuoco non è ‘caldo’ e la spada non è ‘dolorosa’, ovvero che il fuoco che scalda non sente caldo e la spada che ferisce non sente dolore, quindi che le sensazioni, negli esseri senzienti, erano prodotte da cose non senzienti (Contro i matematici AM VII 357, 367-68). Conseguentemente era impossibile continuare a parlare di somiglianza fra le sensazioni e gli oggetti che le producono. Ne seguiva che le affezioni dei sensi non potevano mai attingere gli oggetti esterni, ovvero i sostrati (hypokeimena, i sostrati della tradizione aristotelica: Schizzi pirroniani PH II 74) delle affezioni stesse – pur dichiarati esistenti. Il senso, perciò, «non fornisce al pensiero gli oggetti esterni, ma si limita a enunciare la propria affezione» (AM VII 354).

 

A questo si aggiungeva che l’esperienza delle guerre europee fatta da alcuni filosofi, come Descartes, aveva dimostrato che le sensazioni possono insorgere anche in assenza degli oggetti corrispondenti. Chi aveva perso uno degli arti in battaglia continuava a sentire dolore nonostante che avesse perso il braccio o la gamba, le fonti originarie di quelle sensazioni. Inoltre, anche i sogni dimostravano che le inani visioni notturne erano in grado di produrre sensazioni sonore, tattili e olfattive dotate di un alto tasso di evidenza (la famosa enargheia comune alla scuola aristotelica, stoica ed epicurea, su cui si fondava l’ipotesi dell’esistenza di una conoscenza certa).

 

La filosofia moderna aveva ripreso in mano, e tradotto, i testi dello scetticismo antico spinta soprattutto da tre esperienze sconvolgenti, che avevano messo in crisi il vecchio sistema del mondo: la rivoluzione copernicana, lo scisma luterano e la scoperta dell’America. A partire da quelle tre date, il dubbio si era insinuato profondamente nella filosofia moderna, e chi desiderava combattere lo scetticismo emergente vedeva davanti a sé due sole opzioni possibili. Una soluzione radicale, quella di eliminare i sostrati, e dire che esistono solo le sensazioni, ovvero che percezioni e oggetti si identificano. Gli unici oggetti esistenti sono le sensazioni, esse est percipi, ovvero esistere significa essere percepiti (Berkeley nella fase dell’empirismo radicale, oggi Matrix dei fratelli Wachowski).

12 febbraio 2024

«In treatment: frammenti narrativi di alcuni scenari psicoterapeutici» di Valter Santilli

 

Johannes Vermeer. Ragazza con l'orecchino di perla (1665 ca.)


Anni fa ebbi l’occasione di guardare alcune scene degli episodi italiani del serial televisivo In Treatment, provai una sensazione di noia e di fastidio come quando vidi alcune scene de Il Grande Fratello. In entrambi i casi provai la sensazione di essere un passivo voyeur al quale si voleva far credere che quello a cui stava assistendo fosse, seppure virtualmente, la rappresentazione vera e intima di ciò che è la realtà umana. Mi sembrava eclatante l’imbroglio di far passare quella storia televisiva, affetta dall’ambizione di descrivere nei tempi dello ‘spettacolo’, per ciò che accade quando una persona decide di andare in treatment, come se fosse la rappresentazione documentaria della reale esperienza di questo tipo di cura. Confesso che la finzione teatrale, con tutte le grossolane inesattezze, mi aveva profondamente deluso: ho sentito il fastidio che si prova quando sperimentiamo che qualcuno o qualcosa invade il nostro mondo. In questo caso, essendo ‘del mestiere’, uno spazio professionale che ritengo anche uno spazio ‘privato’ che appartiene al paziente e al terapeuta. Mi sembrava un illecito azzardo voler svelare pubblicamente la qualità di quegli incontri, contenitori di realtà psicologiche ed esistenziali che scaturiscono direttamente dalla ‘relazione terapeutica’: una delle forme radicali ed essenziali di comunicazione interpersonale. La visione di questa pretesa filmica era simile alla visione di certe scene puramente carnali, o esplicitamente pornografiche, che vorrebbero convincere colui che guarda che quello che viene mostrato è la reale esperienza di due o più esseri umani che fanno l’amore. Quello che mi pare emerga, nonostante l’interesse e la curiosità che a suo tempo il serial era riuscito a suscitare nel pubblico televisivo, è la pretesa di rendere pubblico ciò che accade nella stanza dove due o più persone si impegnano, con ruoli e funzioni diversi, in una esperienza di relazione che socialmente e scientificamente viene riconosciuta come ‘trattamento psicoterapeutico’, in questa definizione includo anche la pratica della psicoanalisi, sebbene essa abbia le sue specificità. 

 

Passò del tempo prima che io riconsiderassi il serial In Treatment e avessi una specie di illuminazione cognitiva: riuscii a comprendere che quella vista in tv non avrebbe mai potuto essere quello che ‘veramente’ è la psicoterapia. Compresi finalmente che quegli episodi televisivi erano una rappresentazione teatrale tratta da un copione ispirato a reali esperienze cliniche ed esistenziali. Perché io avessi questo insight fu determinante la lettura di alcune pagine di un importante lavoro di André Green: La déliaison. In questo brillante saggio l’autore, in un capitolo che ha come titolo «Il teatro dell’illusione e la scena sociale», ricorda che a Freud si aprirono le porte di alcuni contenuti fondanti la psicoanalisi dopo aver casualmente assistito a Parigi alla rappresentazione della tragedia Edipo re di Sofocle. Nel 1885 Freud per un semestre frequenta come ‘borsista’ le lezioni di Charcot, presso l’ospedale La Salpêtrière. Green in un capitolo del suo saggio riporta i contenuti di una lettera di Freud datata 15.10.1897, indirizzata a Wilhelm Fliess, dove riferendosi alla tragedia di Sofocle parla del teatro e della tragedia come di uno spazio del mondo esterno in cui il ‘teatro privato’ del mondo interno si realizza. 

30 gennaio 2024

«Giancarlo Micheli, “Pâris Prassède”», di Luciano Albanese

 


Giancarlo Micheli

Pâris Prassède

Monna Lisa, Roma 2023

644 pp.

€ 25,00

ISBN: 9791254583630

 

Il nuovo romanzo di Giancarlo Micheli Pâris Prassède si apre con un lungo passo di ispirazione manzoniana, dove le innumerevoli subordinate – che richiedono al lettore un’attenzione supplementare per tenere ferma nella memoria la proposizione principale – sono condite con una sottile vena di ironia certamente non estranea al Manzoni, ma più vicina, come già in altri lavori, allo stile di Carlo Emilio Gadda. In questo lungo passo di apertura incontriamo da subito il protagonista dell’opera, Pâris Prassède, che rannicchiato nella coffa della goletta francese Alecton, scruta distrattamente l’orizzonte mentre è immerso nei suoi pensieri. Iniziano qui le avventure/disavventure di Pâris Prassède, che, disceso prontamente in plancia al richiamo del capitano, inciampa in una mostruosa creatura marina appena pescata, calpestandola e rendendola inutile per una auspicata e fruttuosa vendita agli scienziati. La sbadataggine di Pâris Prassède viene ricompensata con numerose frustate, ma il rinvenimento di una creatura marina, che ricorda quella di Ventimila leghe sotto i mari, consente una digressione – la prima di tante – sulla vita della famiglia di Jules Verne e più in generale sulla Parigi del XIX secolo, favorendo così la creazione dello sfondo della prima rimarchevole impresa di Pâris Prassède, la partecipazione alla rivolta della Comune.

 

Pâris Prassède, originario di Haiti, era figlio dell’imperatore Faustin. Era stato lo stesso Faustin ad imporre il nome di Pâris Prassède, un duplice omaggio sia al mitico Paride che alla prassi, l’azione. «In principio era l’azione», diceva anche il Faust di Goethe, e come vedremo la figura di Pâris Prassède fa tutt’uno con le sue azioni. Dopo alterne vicissitudini Pâris Prassède è venduto come schiavo e lavora in una fattoria del Mississippi finché viene riscattato dalla madre e arruolato nella marina francese, nelle cui fila compare appunto in apertura del romanzo. Ben presto congedatosi torna ad Haiti, dove deve fare fronte a molte ostilità e alla fine viene imprigionato per impedirgli di far valere la sua discendenza. Successivamente, dopo la chiusura della prigione haitiana, è trasferito in quella di Sainte-Pélagie a Parigi. Qui incontra Auguste Blanqui, legge Proudhon, e hanno inizio i suoi contatti col movimento operaio europeo, in particolare, inizialmente, coi gruppi clandestini della fazione blanquista. In seguito conosce Paul Lafargue, il creolo originario di Cuba che sposerà Laura Marx. Questo lo conduce a Londra, dove conosce la famiglia di Marx e lo stesso Marx.

12 ottobre 2023

«"Prefazione" (da ‘Alla curva della vita’ di Doriano Fasoli)» di Luciano Albanese



Risulta dalle testimonianze che gli Stoici antichi, soprattutto Crisippo, avevano analizzato a fondo alcuni classici paradossi, in particolare quello del sorite (il mucchio)Quando uno diventa calvo? Quando cade il primo capello o quando cadono tutti? Analogamente potremmo chiederci – e molti in effetti se lo sono già chiesto – quando si comincia a morire, appena nasci o quando finisci di vivere? Montaigne, ricorda Fasoli, diceva che la morte è solo il momento in cui il morire ha termine. Ma, già, agli albori del pensiero occidentale, Aristotele, nel Protrettico, fr. 10 b Ross, diceva che, come i pirati tirreni (gli Etruschi) legavano i vivi ai morti (la tortura inflitta da Mezenzio ai prigionieri nell’Eneide virgiliana), così la nostra anima è legata a un corpo in perpetuo disfacimento fin dall’inizio (un tema, questo, ripreso in lungo e in largo dalla letteratura manichea).

 

Ognuno di noi avverte la costanza del disfacimento del nostro corpo, ma l’istinto di sopravvivenza è forte, e siamo riluttanti ad ammetterlo. Perduti nel gorgo delle incombenze quotidiane, abbiamo inventato, come scrive Heidegger, un «essere per la morte medio e quotidiano» all’interno del mondo del «si dice». In questo mondo «si muore» allo stesso modo in cui si commentano gli ultimi, lontani avvenimenti seduti al caffè. «Si muore» significa che un si anonimo muore. Muore sempre qualcun altro, quindi è come se non morisse nessuno, perché il Si è nessuno.

 

Non è questa la strada imboccata da Fasoli nel suo ultimo, breve, ma densissimo lavoro. Fasoli sembra voler passare attraverso la morte, quella vera, per poi venircela a raccontare. La curva della vita di cui si parla qui non è quella dell’epistrophè plotiniana, in cui l’anima, staccata dal corpo, ritorna alla sua vera patria, quella celeste. No, qui parliamo di una curva senza ritorno, in cui il singolo, nato dalla polvere, polvere ridiventa. E gli ultimi tratti di questa curva sono i più dolorosi, perché mentre percepiamo malinconicamente di essere diventati un corpo che non risponde più ai nostri comandi, assistiamo impotenti alla morte di amici e parenti meno fortunati – ma è poi una fortuna continuare a vivere così? – che hanno lasciato questo mondo. Percorrendo questa curva, scrive Fasoli, ci ritroviamo a sfogliare i morti, ad uno ad uno. Ma non ci arrendiamo alla loro scomparsa, preludio alla nostra, e continuiamo ansiosamente a pianificare il futuro, illudendoci ancora, forse, che l’avvenire teorizzato dalla Sinistra hegeliana – la Filosofia dell’avvenire di Feuerbach, ecc. – sia qualcosa in grado di sconfiggere il vero avvenire a cui siamo destinati fin dalla nascita, quello della morte.

13 maggio 2023

«Luciano Albanese legge di Doriano Fasoli» di Luciano Albanese

 

Doriano Fasoli. Foto di Roberto Canò. Roma 2019.


Il nuovo libro di Doriano FasoliFinestre sulla memoria (Alpes, Roma 2022, pp. XII-157), è in parte, come il precedente Derive, costellato dal ricordo di molte esperienze personali, in cui l’ispirazione poetica – poesie in prosa anche queste – avvolge il lettore, specie quello coetaneo dell’autore – in una nube di malinconica nostalgia per un tempo irrimediabilmente perduto. A questo ordine tematico appartengono, ad esempio, i ritratti di Giovanni Macchia ed Enrico Guaraldo, l’addio a Gianni Celati, i «Frammenti di un dialogo amoroso», i ricordi del Filmstudio a Via degli Orti d’Alibert, dove andavamo tutti alla fine degli anni ’60 (nessuno dimenticherà mai il grido «americani a casa!» – uno degli slogan del Movimento studentesco – lanciato dal fondo della sala da Massimiliano Fuksas, durante la proiezione di Lonesome Cowboys di Andy Warhol, alla vista dell’ennesima fellatio), Jeanne, o la contadina del Caso fortuito. E ancora, il lirismo di Sempre più solo e vintoGiornata di soleBreve nota sull’imbecillitàDue donne, e di quasi tutta l’intera sezione «Impressioni di orizzonti», di cui segnalo, in particolare, Parigio cara (pochi soldi, i libri trafugati e nascosti nel giubbotto, e la lunga sfilata di mostri sacri, Henry Miller e Céline in testa, che aveva vissuto nella mitica Parigi dell’immaginario europeo) e Al mattino, in cui sembra riecheggiare il finale del monologo di Molly nell’Ulisse di Joyce.

 

Ma, oltre a questo, dal libro emerge un tema cruciale per tutta la modernità: che cosa succede quando il sapere fallisce completamente i suoi scopi, e diventa solo erudizione? «Ho studiato filosofia, – diceva il Faust di Goethe in apertura della sua tragedia – medicina, teologia, da cima a fondo, e con tenace ardore, e mi ritrovo a saperne quanto sapevo prima. Anzi, ho finito per accorgermi che non ci è dato di sapere nulla di nulla». Lo scetticismo di Fasoli sul valore conoscitivo della cultura filosofica e scientifica prese nel loro insieme è abbastanza simile a quello di Faust, e questo si avverte già dalle prime pagine del libro, «La valle dell’ombra» e «Essere o non essere» (il famoso dilemma di Amleto), in cui svaniscono tre pietre angolari della nostra esistenza, Io, Dio e l’Essere. Doriano è un uomo di ampie letture, perché è un individuo curioso, nel senso più nobile del termine, e la sua conoscenza della cultura sia antica che moderna è molto vasta. Cominciando dal cogito ergo sum di Cartesio, le pagine di Finestre sulla memoria offrono al lettore una galleria di temi e di personaggi che non ha nulla da invidiare a quanto possiamo apprendere da una enciclopedia del sapere. Bertrand Russell, Heidegger guardiano dell’Essere, il topo di Schrödinger, la lettura manichea della vagina, il suicidio di van Gogh, Carmelo Bene e Artaud, Foucault in California nella Valle della Morte, col Marchese de Sade ideale compagno, le Baccanti di Euripide, il Concilio di Nicea, Gadda e Roscellino – sintomatico questo accoppiamento –, la difficoltà di scrivere usando parole che non ci appartengono, perché hanno già una loro storia (ancora Foucault), le oscure radici del sacrificio – tema comune, per motivi diversi, al Burkert di Homo necans e a Bataille –, Libertà e Necessità, Alice attraverso lo specchio letta da Lacan,  il mistero del corpo, della sua nascita e della sua morte, e quindi la sua costante esposizione al pericolo, la Rivoluzione scientifica che ci ha tragicamente “spiazzati” (il tema centrale di John Donne e del Controrinascimento), le tragedie di Euripide, etica e scienza, Aristotele e la babele delle lingue, sull’anima, le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, le mosche, esseri tutt’altro che irrazionali (grazie ad esse è stato scoperto il principio di reafferenza), il Libro e la tela di Penelope, post coitum tristitiam, lo Stige e Caronte, l’ottuso moralismo del “politicamente corretto”, Deleuze, Spinoza e la tirannia, il daimon, fisici e filosofi, elogio dei sensi, la vecchiaia e il suo mistero, ultimo capitolo del più grande mistero di vivere. 

«L’oggetto d’amore in Pierre Bonnard» di Nicola D’Ugo


Pierre Bonnard. Nudo davanti a uno specchio. 1931.


Pierre Bonnard è stato uno dei maggiori pittori fra l’Otto e Novecento. Quello che vorrei raccontare in queste poche righe è il meccanismo con cui, nella sua pittura, rappresenta l’oggetto d’amore. I suoi dipinti memorabili, di quelli di cui, se ce ne s’innamora, è poi difficile che l’amore vada perduto con il tempo, sono talmente intrisi di luce che non si sa bene se sia la luce esterna al dipinto a illuminare la scena o quella interna. Dato che, se guardiamo un dipinto al buio, non vediamo che il buio, viene da sé che è la luce esterna, ossia quella in cui è collocato il dipinto, a illuminarne i colori. Eppure, guardando i suoi quadri, sembra che la luce venga dall’interno del quadro, da una finestra o altro; che, insomma, l’artista abbia riposto la luce nel dipinto come per magia. Tale effetto magico, nella storia dell’arte, si chiama impressionismo. Gli impressionisti dipingevano all’aria aperta e cercavano di cogliere gli effetti di luce come li percepivano, talvolta a sprazzi, e i colori che attraversano le loro tele sono talmente pervasi di luce da rendersi variegati e vividi come mai prima era apparso in pittura. Un libro che racconta la giornata tipo dell’impressionista Monet che si alzava la mattina presto per dipingere all’aria aperta si intitola Light (luce, appunto), un breve e intenso romanzo scritto da Eva Figes nel 1983 (non credo sia uscito in italiano).

 

Ma Bonnard non è un impressionista. La luce che diffondono i suoi quadri, anziché sorgere da esigenze di pura rappresentazione, è impiegata come una tecnica, come un elemento che serve una rappresentazione più intensa dell’uomo. L’intensità dell’impressionismo è, se vogliamo, esternamente musicale, rivolta a cogliere l’impressione della luce sull’occhio; quella di Bonnard è, come è stato già detto altrove, della pura memoria, ossia come elaborazione che la mente fa della luce e degli oggetti. Prendiamo un suo dipinto: Il nudo davanti a uno specchio (1931). Che cosa ci racconta Bonnard attraverso questo dipinto? L’oggetto d’amore, la sua donna colta dallo sguardo in un momento della sua esistenza, in un luogo intimo, in cui, cioè, non si preoccupa d’essere vista da occhi indiscreti. Se osserviamo il nudo della donna, ne cogliamo senz’altro la figura ben disegnata, dai calzari ai capelli. Ma se andiamo sul dettaglio, sulla schiena, per esempio, sui glutei o sul retro delle braccia, questa bella figura femminile perde qualsiasi compattezza della forma, può effettivamente essere una bella donna o una donna non proprio bella, e il suo viso è un profilo abbozzato di qualsiasi donna. Bonnard ha dipinto un nudo, ma non lo ha esposto. Avrebbe potuto indicarci dei dettagli, ma è riuscito a vestire una donna, a renderla solo una figura. Tutto quello che ci racconta è l’intimità di una donna in una stanza che si guarda allo specchio. Il resto della stanza c’è, ma è fuori scena: a destra, a sinistra della donna, dalla parte dell’osservatore. Nello specchio vengono riflessi vari oggetti, anzitutto un tavolinetto che vediamo due volte: nella stanza e nello specchio. Ma nello specchio non vediamo il viso della donna. La figura stessa, centrale nell’inquadratura del dipinto, non è centrale fra gli oggetti. Infatti le suppellettili sono riposte in un ordine piuttosto casuale. V’è addirittura una sedia dietro le gambe della donna che quasi la tocca. La sedia è rivolta verso di noi e non verso lei: non è lì perché sia impiegata dal personaggio.

27 marzo 2023

«Quattro prose da ‘Finestre sulla memoria. Dissolvenze e sovrapposizioni’» di Doriano Fasoli



 

È per un'opera come Finestre sulla memoria di Doriano Fasoli che un comune, anonimo lettore quale sono, avverte l'impulso di uscire dall'anonimato. Ogni lettera, ogni parola non sono nero segno alfabetico, sono indici di cose potenti che mi hanno fatto sentire una voce: la voce dell'essenzialità di ciò che più conta in noi e di noi fra gli altri. Le Finestre di Doriano Fasoli si aprono su squarci autobiografici e biografici (di Giovanni Macchia, di Celati), poi appaiono intermittenze filosofiche (Heidegger, Deleuze, Foucault ecc.), psicanalitiche (Freud, Lacan ecc.), antropologiche (Girard); riflessi letterari (Flaubert, Celati, Hölderlin, Rimbaud ecc.), cinematografici (Kurosawa, Scorsese), figurativi (van Gogh, Rembrandt), musicali (Rimskij-Korsakov, Coltrane) e quant'altro affondi nell'humus della Vita e della Morte, del Bene e del Male, del Divino, della Libertà, del Tempo, cioè i temi ineludibili della chiaroscurale esistenza umana (l'uomo «è punto d'incontro tra buio e luce», p. 20). Il tutto amalgamato in un periodare denso, per rimandi e balenii, talora consapevolmente sfuggenti, perché «ogni autore calamita solo lacerti, frammenti adatti alla propria calamita» (p. 57) e il linguaggio è un'alchimia che parla «pure come assenza, ma non è mai totalmente silenzioso» (p. 28). Forse, può chiedersi il lettore, devo allora cercare le «pietre rare delle parole nascoste»? (p. 7) Vale a dire il significato che si annida fra le viscere di ogni frase per sanare, o cercare di sanare, qualche dubbio che mi tormenta? Sbaglierebbe. Per citare Seferis, le parole mantengono la forma dell'uomo, nel quale «senso e non senso sono inseparabili», e perciò si deve dubitare di «ogni conclusione convinta di comunicare il vero». Se è vero, come credo lo sia, che «è di risposte che muore l'uomo» (p. 107), non resta che il dialogo sincero e orizzontale con le domande di senso. Insomma, il lettore farà «d'ogni riga profitto» (p. 57) se ascolta la sinfonia delle domande a strapiombo sull'essere umano composta dall'autore, se entra e permane nello spazio dell'interrogativo e si arrende a esso nella speranza di accendere «luci nella valle dell'ombra» (p. 3). Non si autoassolva e non cerchi consolazioni. Non nella Storia, che «nulla insegna, non tanto perché demente quanto perché eminenti cretini sono stati suoi scolari» (p. 43), non nella scrittura perché non arriverà mai a una conclusione, non nella memoria, dal cui affresco cadono «larghi pezzi e le lacune ti provocano con la loro cecità». Doriano Fasoli ha regalato al lettore un libro antidoto e un libro telescopico: l'antidoto contro il consumo bulimico delle semplificazioni e telescopico nel senso della similitudine di Francesco Algarotti. Parafrasandolo, direbbe che quest'opera nel tempo sarà come un telescopio nello spazio: «così l'uno come l'altro avvicinano gli oggetti lontani» (dalla lettera «Al padre Giambattista Roberti, della Compagnìa di Gesù, a Barbiano. Sopra le comparazioni.»)

 

Marco Quarin

 

(Marzo 2023)

 

10 gennaio 2022

«Vale la pena di tradurre un testo letterario?» di Luciano Albanese



Come si dice: traduttore traditore. Dopo il classico ‘naftalina’ per ‘mandarini cinesi’ nelle storie di Eta Beta di Gottfredson, mi è caduto l’occhio, si parva licet, su un passo della Ricerca del tempo perduto di Proust. Durante una delle conversazioni a tavola a casa dei Verdurin, in Un amore di Swann (dove purtroppo si capisce che il livello culturale delle stesse, quindi della classe dominante, non è più quello dei Saturnali di Macrobio o dei Deipnosofisti di Ateneo) Odette si lamenta del fatto che Swann sembra non ritenere degna né lei, né altri, di abbeverarsi alla sua cultura. In effetti Swann interviene raramente, e se ne sta quasi sempre aristocraticamente sulle sue. In ogni caso, il rimprovero di Odette offre l’occasione a uno dei commensali, che si distingue solo per le sue facezie, di cimentarsi in un gioco di parole. Swann cerca di difendersi, e cerca di dire che il rimprovero di Odette non ha giustificazioni. Odette risponde insofferente: « Cette blague ! ». Allora il: commensale, un dottore che pensa di essere divertente, si inserisce dicendo: « Blague à tabac ? ».

 

Il traduttore è messo davanti a una grossa difficoltà. ‘Blague’ in francese significa tanto ‘bugia’ quanto ‘tabacchiera’, e per un francese o per chiunque legga il francese il gioco di parole è forse discutibile, ma certamente comprensibile. Ma il povero traduttore italiano che deve fare? Oreste Del Buono se la cava abbastanza bene, e traduce:

 

«Che bugia!» disse Odette.

«Bugia da candele?», si informò il dottore.

 

‘Bugia’ in italiano è anche il piccolo candeliere che ancora accendono alcuni ristoranti sul tavolo di una intima cena a due. Il senso del gioco di parole è colto bene, ma resta il fatto che il testo originale rimarrebbe oscuro usando le sue stesse parole, quindi il lettore italiano ha di fronte sempre e comunque un testo diverso da quello francese.

 

Le cose vanno ancora peggio nella traduzione di Giovanni Raboni. Odette dice, rivolta a Swann: «E non mi prendete in giro!» E il dottore chiede: «Giro turistico?». Qui il testo francese è completamente stravolto, e sinceramente è difficile non provare un senso di fastidio davanti a questa soluzione (penso che almeno una nota che avvertisse il lettore dello scempio fatto all’originale sarebbe stata necessaria). Moltiplicate questo episodio per mille, e avrete un’idea, ancora approssimativa, della distanza che separa un testo letterario originale dalle sue traduzioni. In realtà tradurre un testo letterario è come ‘tradurre’ un monumento o un dipinto. In entrambi i casi, sono operazioni impossibili e prive di senso. Si fanno perché si pensa che la divulgazione di un’opera sia comunque utile. Ma non è quell’opera che si divulga, si divulga sempre qualcos’altro che o le somiglia poco o non le somiglia affatto.

 

Luciano Albanese

 

(Gennaio 2022)

 

 

 

 

 

31 dicembre 2021

«"Il Canto di Ulisse" di Dante» di Nicola d'Ugo

 


  

La conoscenza: la sua importanza e i suoi limiti

 

Dopo l'invettiva contro Firenze, inizia il vero e proprio tema del Canto XXVI dell’Inferno dantesco: la conoscenza, i suoi pericoli e i suoi limiti. Conoscere va bene, ma fino a un certo punto. Dio ha posto dei limiti all'uomo e tali limiti, per quanto estesi, non devono essere superati. Dante, lo sappiamo, è un poeta che ricerca il nuovo, ciò che non conosce. Ciò che è estraneo, la novità, porta al miglioramento dell'uomo. La sua prima opera si chiamava Vita nova, la vita che cambia, si rinnova, attraverso l'amore per Beatrice: di fronte alla novità non si guarda più con gli stessi occhi, ma con un sentimento e una «coscïenza» diversi. Anche la Commedia parla di cose nove, del tutto inaudite: il viaggio di Dante nel regno dei morti.


La conoscenza del nuovo («esperïenza» dirà Ulisse) è quindi fondamentale per il miglioramento della propria anima, per la sua nobilitazione. Nello Stilnovo, la nobilitazione dell'uomo avveniva attraverso l'esperienza, attraverso la donna gentile o angelicata, immagine in terra dello splendore divino. Dante riassume questo concetto nella formula «novo miracolo e gentile», in cui all’eccezionalità esteriore debba corrispondere un contenuto intimo virtuoso, nobile, «gentile» appunto (Vita nova, XXI, « Ne li occhi porta la mia donna Amore», v. 14). Come sappiamo dalla storia della Commedia, per raggiungere il bene bisogna passare attraverso il male e non solo rimanere in quello che consideriamo, a priori, il bene. Solo guardando il male in faccia, da vicino, possiamo riconoscere in noi i tratti del male, le implicazioni dei nostri pensieri, dei nostri gesti, delle nostre omissioni. Il male non è qualcosa che riguardi gli altri, ma se stessi: posso scorgere il male nell'altro, ma questo è molto meno importante dello scoprire il male in me stesso, poiché ciò che è fondamentale è sempre, per Dante, il bene e il male all'interno di sé.


La conoscenza svolge quindi un ruolo fondamentale nei riguardi della propria salvezza. In questo, il Canto di Ulisse trova la sua centralità, in quanto è emblematico di un modo sbagliato di concepire la conoscenza. Infatti, la conoscenza per Dante non si limita a una serie di nozioni: la conoscenza non è informazione, qualcosa di astratto, un insieme di dati relativi alla vita. La conoscenza è, innanzitutto, passione, è emozione, è desiderio. L'uomo raggiunge la conoscenza attraverso una forza emotiva che lo spinga verso ciò che è inusitato, che lo trascini verso la novità. L’uomo deve essere sensibile, quindi, a ciò che lo circonda, riconoscere in ciò che incontra l’eccezionalità della specie di sapere e perseguire il proprio percorso conoscitivo attraverso la selezione di ciò che entra in quel genere di conoscenza.

4 dicembre 2021

«Doriano Fasoli. “Derive. Schegge di vita in versi e in prosa”» di Luciano Albanese

 


Doriano Fasoli

Derive. Schegge di vita in versi e in prosa

Prefazione di Stefano Santuari

Alpes, Roma 2021

X-139 pp.

€ 15,00

ISBN: 8865317345



Scrittore, critico, giornalista e sceneggiatore, studioso e docente di psicoanalisi e letteratura, Doriano Fasoli si ripresenta ora al pubblico in veste di poeta. Lo stile di Fasoli, sul quale tornerò, ricorda quello delle ‘poesie in prosa’ di Rimbaud, ed è particolarmente in linea col contenuto dell’opera, bene compendiato dal titolo. Come una barca che ha perso gli ormeggi e fluttua alla mercé della corrente – spiega Fasoli – così è la vita. Non si sa da dove si parte, non si sa da dove si viene e non si sa dove si arriva. È un moto che i greci definivano ‘planetario’, ovvero ‘errante’, come quello dei ‘pianeti’, appunto, chiamati così perché nella prospettiva geocentrica apparivano retrogradi. Tuttavia, osserva Fasoli, verso la fine di questo viaggio ‘planetario’ ci si accorge che non è tanto importante la meta – peraltro ignota – ma certe stazioni incontrate lungo la via.

 

Derive è il ricordo, tradotto nella forma poetica, di un centinaio di queste soste, siano esse incontri, interviste, ricordi di viaggio o emozioni vissute interiormente. Si inizia con infanzia e adolescenza, dove emerge la figura della madre e soprattutto del padre, controfigura di Jean Gabin nel Porto delle nebbie. Poi il militare, e successivamente l’incontro decisivo con Stefano Santuari, autore della bella prefazione. Gustosissima la loro irruzione nell’eremo di Camaldoli: un tentativo di fuga mistica dal mondo risolto in tagliatelle ai funghi porcini e telefonate di nascosto alle ragazze, prima della inevitabile cacciata dal convento. Anche Michele Psello, mutatis mutandis, fece un’esperienza simile, prima che il gorgo della vita lo risucchiasse di nuovo. 

 

Esperienze di vita e di morte si intrecciano continuamente nel libro di Fasoli. Dal sofferto ricordo della lunga, eroica sofferenza di Martine alle interviste con Carmelo Bene e Fabrizio De André, entrambi destinati a una vita breve, ma quasi consapevoli di questo, e del fatto che dopo sarebbero vissuti perennemente nel ricordo. Altre figure note emergono dal ‘Vortice di incontri’ che vede sfilare personaggi come Barilli, Maria Luisa Spaziani, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Cesare Brandi, colto nella serenità della bella villa di Vignano di Siena, Emilio Garroni, Giovanni Macchia, Toti Scialoja, Sergio Endrigo, e altri ancora. In Appendice ritroviamo Carmelo Bene, intervistato nel corso del suo memorabile Riccardo III, Emilio Garroni, il cui ricordo mi riporta agli anni della Sapienza, ed Elémire Zolla, il nuovo, aristocratico vate della filosofia perenne di Agostino Steuco. E ancora, l’indimenticabile ritratto di Marguerite Duras, che aveva ribattezzato Fasoli ‘Terence Stamp’.

11 luglio 2021

«Black Widow (2021)» di Nicola d’Ugo

 

 

Black Widow (2021) non ha nulla a che fare con le iperboliche avventure degli Avengers. È un thriller alla James Bond con un taglio da romanzo di formazione, tipico di altri film della regista australiana Cate Shortland (Somersault, 2004, e Lore, 2012). Un apologo sulla liberazione delle donne: le migliaia di Vedove Nere, sottomesse e sottoposte fin da bambine ai disumani trattamenti da cavie nella Stanza Rossa.

 

La seconda e terza Vedova Nera, Natasha Romanoff (Scarlett Johansson e, da piccola, Ever Anderson) e la sua sorella adottiva ed emula Yelena Belova (Florence Pugh; da piccola, Violet McGraw), cercano di distruggere definitivamente la Stanza Rossa, di liberare le Vedove Nere e uccidere il suo scellerato direttore russo, il massiccio generale Dreykov (Ray Winstone). Neppure troppo velato il parallelismo tra Dreykov e il corpulento manipolatore Harvey Weinstein, l'allusione alla sua Miramax hollywoodiana, al movimento #MeToo ecc.

 

Con un bel po' d'azione, pochi personaggi e senza effetti visivi notevoli, il taglio è spesso comico, parodico, il tema domestico. Una famiglia di spie russe in Ohio che si ritrova un ventennio dopo (dopo il finto matrimonio e due figlie adottive portate via a forza da Dreykov) a fare i conti con quegli strani genitori (interpretati dal simpatico David Harbour e l’affettuosa, astuta Rachel Weisz), scellerati dal punto di vista di sorella e sorellina, navigate supereroine assassine. Non li cercano per una nemesi (in questo sono poco Avengers, Vendicatrici), ma per fini strumentali al proprio progetto. Rivederli rende la nemesi certa.

 

La Marvel ha deciso di produrre un film diverso dal resto della serie, più rétro anziché più innovativo. A parte l'inizio ambientato nel 1995, la storia si svolge nel 2016 in varie parti del mondo, soprattutto a Budapest. E ha due finali: il secondo, ambientato nel 2023, potrebbe sfuggirvi, perché è dopo i lunghissimi titoli di coda. Il livello qualitativo della regia lascia un po' a desiderare, a cominciare dal fatto che sacrifichi le straordinarie doti espressive della Johansson nelle vesti del personaggio più affascinante degli Avengers a vantaggio della pur brava Pugh, forse per 'lanciare' la simpatica e più infantile terza Vedova Nera nei prossimi film della Marvel. Peccato, davvero.

 

Nicola d’Ugo

 

(Luglio 2021)

 

 

6 giugno 2021

«“Roubaix, una luce”. Un film di Arnaud Desplechin» di Nicola d’Ugo

 


Carino, non un capolavoro, ma interessante. Il film di Arnaud Desplechin si ispira a un evento di cronaca del 2001-2002, in cui venne uccisa una donna anziana e vennero accusate le due giovani vicine, misere, alcoliste e tossicomani.

 

Gli attori sono di notevolissimo livello, come ci si aspetta dai francesi. Roschdy Zem, nella parte del commissario, ha ricevuto il Premio César come migliore attore nel 2020, mentre Sara Forestier la candidatura come attrice non protagonista. Léa Seydoux, la più celebre a livello internazionale, non ha ricevuto un picchio, del resto quello che hanno ricevuto lei e Adèle Exarchopoulos per la loro interpretazione de La vita di Adele non l'ha mai ricevuto nessun altro attore nella storia del cinema, neppure Marlon Brando, Sophia Loren o Meryl Streep: la Palma d'oro a Cannes nel 2013. Qui recita alla grande, non come insipida Bond girl.

 

Roubaix, una luce non è male, è un film che è stato candidato alla Palma d'oro a Cannes e al César francese. La parte migliore è quella degli interrogatori e dei rapporti con la città ai confini del Belgio del commissario arabo, cresciuto lì. Roschdy Zem dà spessore umano al commissario, la sua è davvero una bella interpretazione non banale. Per il resto il film manca di una cinematografia d'autore, non c'è la magia che il cinema ha nelle sue potenzialità, si affida solo a un intreccio abbastanza semplice, alla notevolissima interpretazione degli attori, a buoni dialoghi e a un'interessante raffigurazione dei metodi dell'interrogatorio francese. Il resto è uno squarcio illustrativo su una depressa città di provincia del Nord della Francia. Un film che mette in luce la bassezza morale che si vive in certe città francesi colpite da povertà, depressione economica e separatismi etnici. In fondo, più che essere un noir, cerca di offrire allo spettatore uno sguardo antropologico su Roubaix come esempio tipico delle realtà provinciali europee, senza moralismo e prese di posizione nette.

3 dicembre 2020

«“The Bourne Legacy”, il futuro in atto» di Luciano Albanese

 


Schiacciato dagli altri episodi della serie Jason Bourne, privo di Matt Damon, evocato, ma non presente, come l’Achille omerico sotto la tenda; infestato da alcuni spezzoni dei film precedenti della stessa serie, The Bourne Legacy (2012) poteva avere l’apparenza di un centone poco digeribile e inutile. Io stesso mi ero sempre rifiutato di vederlo. Poi mi è capitato di trovarlo su Netflix e ho capito che avevo fatto male. Il film offre in apertura alcune scene bellissime ad alta quota, che impegnano colui che si era già rivelato un grande attore in The Hurt Locker (2008), Jeremy Renner, in una difficile gara di sopravvivenza fisica, a tu per tu con la natura selvaggia delle montagne dell’Alaska e circondato dai lupi. Ma sopravvive alla grande, e da questo si capisce che deve avere un fisico fuori del comune. Attraversate le montagne, si dirige verso una baita in mezzo alla neve e alla foresta, dove l’aspetta un uomo, altrettanto in buona salute. Aaron Cross, questo il nome del protagonista, dice all’abitatore della baita che ha perso la sua dotazione di medicine, e ne chiede di nuove.

 

Nel frattempo abbiamo capito, dalle scene precedenti e dagli spezzoni degli altri film, che i due sono agenti, e che siamo nel corso di un’altra delle operazioni coperte che già hanno reso la vita difficile a Jason Bourne. Ma qualcuno ha deciso di terminare questa operazione che rischia di essere scoperta e, come nei Tre giorni del Condor (1975), di chiudere la bocca a tutti gli agenti coinvolti. Quindi lo stesso drone che il giorno prima aveva rifornito la baita di materiali, torna improvvisamente e la distrugge in modo spettacolare insieme al compagno di Aaron che stava al suo interno.

22 maggio 2020

«Su “Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci” di Sigmund Freud (Parte 2)» di Valter Santilli


Leonardo da Vinci, Cartone di sant'Anna, 1499-1500,
gessetto nero, biacca e sfumino su carta, Londra, National Gallery




L’errore di Leonardo: «Mercoledì a ore 7 morì ser Piero da Vinci […]. Mercoledì vicino alle 7 ore».


Nel quinto capitolo del saggio su Leonardo, Freud analizza il rapporto che Leonardo, artista e scienziato, ebbe con la figura paterna. Egli riporta pertanto una breve nota scritta su uno dei diari leonardeschi, un’annotazione importante per il contenuto e interessante per la forma tanto da suscitare l’attenzione dello psicoanalista; la piccola nota contiene un «minuscolo errore formale». Leonardo nel mese di luglio del 1504 annota giorno, mese, anno e ora della morte di suo padre, Ser Piero da Vinci, di anni 80; egli annota inoltre il numero dei figli che l’anziano padre lasciava «10 figlioli maschi e 2 femmine».

«Il piccolo errore formale consiste nel fatto che l’indicazione di tempo “a ore 7” viene ripetuta due volte». Freud in prima battuta commenta il «minuscolo errore» di Leonardo come fosse stata la comprensibile distrazione di un figlio mentre appuntava l’ora della morte del padre, ma subito non trattiene l’interpretazione psicoanalitica e addebita l’errore alla inibizione affettiva di Leonardo nei confronti di suo padre. Liberato da questa inibizione, scrive Freud, Leonardo avrebbe voluto o potuto scrivere: «Oggi alle ore 7 è morto mio padre, Ser Piero da Vinci, povero padre mio!».

È certo che il padre di Leonardo ebbe «un ruolo importante nella sua evoluzione psicosessuale». Freud delinea sinteticamente un bel ritratto di Ser Piero da Vinci: «fu uomo di grande forza vitale che raggiunse stima ed agiatezza». Sottolinea con enfasi gli aspetti socialmente volitivi e umanamente virili di questo «notaio discendente di notai»:

Si sposò quattro volte, le prime due mogli gli morirono senza figlioli e solo dalla terza ebbe nel 1476 il primo figlio legittimo, quando Leonardo aveva già ventiquattr’anni […]; con la quarta e ultima moglie, che sposò già cinquantenne, generò altri nove figli e due figlie.

Curioso destino familiare quello di Leonardo: fino all’età di ventiquattro anni egli fu l’unico figlio, ma illegittimo, di un agiato notaio fiorentino. La condizione di illegittimità negli ambienti urbani borghesi era allora causa di svantaggi sociali: ad esempio un figlio illegittimo non avrebbe mai potuto accedere agli studi umanistici ordinari, e Leonardo, nel caso, non sarebbe mai potuto diventare a sua volta notaio, come da tradizione familiare. All’età di 17 anni il padre con acume aveva riconosciuto in lui una inclinazione artistica e lo aveva indirizzato verso lo studio delle arti e delle tecniche. Il giovane Leonardo venne per questo affidato alla bottega di Andrea Verrocchio, una delle più rinomate della città di Firenze. La città era allora governata dal giovane Lorenzo dei Medici detto il Magnifico per la disposizione che aveva verso le arti e per lo sfarzo dei suoi costumi. Firenze stava vivendo un’età d’oro: la città era non solo la culla del Rinascimento delle arti e delle lettere, ma anche il luogo privilegiato dove gli architetti e gli artigiani iniziavano a sperimentare nella loro pratica delle nuove tecniche, le più varie. Il mondo non piangerà certo Leonardo da Vinci ‘mancato notaio’.

2 ottobre 2019

«“Elogio delle merci”, tre racconti di Isacco Turina» di Cinzia Baldazzi





La ricchezza delle società nelle quali 
predomina il modo di produzione capitalistico 
si presenta come una “immane raccolta di merci” 
e la merce singola si presenta come sua forma elementare.
Karl Marx, 1867


Nelle tre storie allineate sotto il titolo Elogio delle merci (Coazinzola Press, Mompeo 2018, pp. 302), «il lettore incontrerà le storie minuscole di qualche esistenza umana che si dibatte senza riposo all’ombra maestosa delle merci», spiega l’autore Isacco Turina, «nel loro ciclo infinito di produzione, distribuzione e smaltimento». 

La solitudine e l’alienazione di un’impiegata quarantenne addetta al collaudo manuale di prodotti finalizzati alla vendita («Lo scherzo»); la catastrofica esperienza di decine di clienti costretti in un supermercato a causa dell’infuriare di un uragano («La ginestra»); la vicenda agro-dolce di un giovane disoccupato il quale in una discarica alle porte della città trova il lavoro e l’amore («Il custode»).

In una sapiente architettura semantica “a scala”, Turina introduce nel primo racconto gli oggetti commerciali, destinati nel secondo a essere collocati, distribuiti nel grande circuito, per poi preparare la discesa narrativa della cosalità con l’abbandono e il deperimento nell’ultimo brano. L’utilizzo del climax a lato dell’anticlimax si svolge anche all’interno del plot di ciascuno dei pezzi (mediante effetti di progressione e poi di ingerenza minoritaria dei segni-segnali prescelti).

Tuttavia il maggior interesse critico ha luogo, in base a quanto già accennato, quando il medesimo accorgimento si estende al livello superiore di struttura del libro, alla sua architettura, prendendo le mosse dalla silenziosa spietatezza de «Lo scherzo», innalzando il narrato all’apogeo della distruzione ne «La ginestra», infine sigillando una conclusione “discendente” con «Il custode». Infine, l’ambiente dove si conclude il primo brano introduce lo spazio d’azione del secondo, mentre quest’ultimo termina con una riflessione su quello che sarà l’oggetto centrale del terzo.

Insomma, sembra ancora valido l’avvertimento formulato da Umberto Eco all’alba degli anni ’70 ne Le forme del contenuto: «Una cultura, per organizzare le proprie esperienze, deve nominarle: deve cioè fare corrispondere a elementi di forma dell’espressione elementi di forma del contenuto» e, allo scopo di mantenerne intatta la reciproca efficacia, essi dovranno compiere iter di intensità parallela. 

29 settembre 2019

«Su “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci” di Sigmund Freud (Parte 1)» di Valter Santilli



Francesco Melzi (1493-1570), Ritratto di Leonardo da Vinci, gesso rosso, Royal Collection Trust 


Tempo fa lessi un libro di Thomas H. Ogden, Il leggere creativo. Sul retro di copertina della edizione italiana è scritto che nel volume sono stati raccolti i lavori che l’autorevole psicoanalista americano «ha dedicato all’esperienza del leggere creativamente». 

Il libro è composto da una raccolta di saggi su «fondamentali lavori» di autori psicoanalitici di grande rilievo e tra essi è compreso, naturalmente, un lavoro fondamentale di Freud, «Lutto e melanconia». 

Lo stile dello scritto di Ogden sull’esperienza del leggere creativamente è rigoroso, ed in parte richiama lo stile impegnato degli esercizi scolastici di parafrasi di testi letterari fondamentali. Quella di Ogden è un tipo di creativa parafrasi che illumina e arricchisce i testi che sono stati oggetto del suo appassionante studio, così come viene descritto nei dizionari: «Esposizione di un testo […] spesso accompagnata da sviluppi o chiarimenti». 

Nell’introduzione del libro l’autore descrive la sua esperienza di lettura creativa che fa da fondamenta alla sua scrittura creativa: Thomas Ogden leggendo e scrivendo creativamente cerca di rimanere il più possibile fedele agli scritti dell’autore letto. Lo psicoanalista americano chiarisce che ha trattato lo stile di scrittura e il contenuto ideativo dei saggi di ciascun autore come «due qualità di una entità singola», ed esplicita che quel determinato saggio scritto da quell’autore, con lo stile particolare che lo contraddistingue, non si potrebbe scrivere diversamente perché «dire qualcosa diversamente è dire qualcosa di diverso». 

A proposito di bravi scrittori e di buoni lettori un grande scrittore, nonché autorevole critico letterario, Vladimir Nabokov, in Lectures on Literature, pubblicate postume, scrive che «non si legge un libro, un libro lo si può solo rileggere. Un buon lettore, un grande lettore, un lettore attivo e creativo è un rilettore». Per marcare quindi l’esperienza intellettuale del «leggere», Nabokov specifica che «un libro di qualunque genere esso sia – opera narrativa oppure opera scientifica – interessa per prima cosa la mente»

Nella «Introduzione» al saggio di Freud «Lutto e malinconia»Ogden riporta una particolare frase del testo la cui lettura rende «impossibile separare le idee dalla scrittura»

Il commento che egli fa di questa frase particolare è che: «Lo scritto è denso – una grande quantità di pensiero è contenuta nell’atto stesso di scrivere poche parole». Mi pare che la stessa definizione, sebbene molto sintetica, possa applicarsi al testo di Freud su Leonardo da Vinci.