27 aprile 2019

«“Il secchio e lo specchio”, poesie di Francesco Lorusso», di Cinzia Baldazzi




Francesco Lorusso
Il secchio e lo specchio
Nota di Guido Oldani
Manni, San Cesario di Lecce 2018, pp. 96


In un’ironia tutta sua, Jean Cocteau era solito affermare:

Gli specchi dovrebbero pensare più a lungo prima di riflettere.

Ebbene, nella silloge Il secchio e lo specchiodi riflessioni ne vengono offerte numerose, da parte del nostro pensiero e di quello che potrebbe appartenere alle cose in sé: in particolare, a una complessa, arbitraria, ma in certa misura veritiera superficie riflettente di esse. Accade quasi che l’autore Francesco Lorusso, nelle articolate parabole discendenti causate dalla «perdita della memoria e del senso civico», in gran parte relativa all’«onnipotenza elettronica», si liberi dell’idea incombente della morte, illuminata però a tratti, come sostiene Guido Oldani nella nota al testo, in un’atmosfera di casa e di mare, per mezzo di una «scrittura incardinata in questa epoca». E prosegue:

Ma la parabola della traiettoria di queste sequenze dirada il tratteggio mentre si va verso l’apice della narrazione. Man mano la metrica s’impone, persino unitamente a delle tracce di espressionismo d’altre latitudini. Poi, quando la scansione sta andando a compimento, compare qualche concessione al respiro geografico.

Così in Lorusso percepiamo:

La folla già si fondeva al fumo
scuro della sera quando il sogno
si sedeva dietro l’ordine del giorno
accarezzando tutte le nostre cose
come un canto alto di vento
Perfino l’urlo sottile ghiaccia la superficie
e finge di fuggire la goccia di quella bocca
da un pensiero nella pancia che non ritorna
nel dissapore che con forza digerisco per te.

(p. 12)

I versi rievocano alla mente, chissà come, quelli di Nazim Hikmet quando nella poesia «Mosca, 1962» tentava di allontanarsi dal presagio di un’incombente fine:

Mi sono spogliato dell'idea della morte
ho infilato il fogliame di giugno dei viali
quello di maggio era un po’ giovanile per me
tutta un'estate mi attende tutta un'estate in città
con le sue pietre il suo asfalto fuso
le sue gazzose il suo ghiaccio
le sue sale di cinema sudate
gli attori di provincia dalla voce rotonda
[…]
con le poesie che leggerò al balcone
e con i tuoi capelli un po’ accorciati1

21 aprile 2019

«Su Carolina Maria de Jesus. Conversazione con Rita Ciotta Neves» di Doriano Fasoli



Rita Ciotta Neves è nata a Roma nel 1949, dove si è laureata in Lettere presso l’Università La Sapienza, concludendo il dottorato in Storia presso l’Università Portucalense Infante D. Henrique. Dal 1980 vive a Lisbona. È stata docente di Italiano all’Università di Coimbra e, nell’ambito del Progetto Erasmus, docente alle Università di Perugia, Arezzo e Lecce. A Lisbona è stata docente di Italiano all’Istituto Italiano di Cultura e di Semiotica e di Teoria letteraria all’Università Lusófona. Oltre a numerosi articoli, saggi e traduzioni, ha pubblicato Italo Calvino – Lições de Modernidade (Edições Universitárias Lusófonas, 2007) e Gramsci – A cultura, os subalternos, a educação (Edições Colibri, 2016). Ha pubblicato in questi giorni, presso la casa editrice Alpes, Carolina Maria de Jesus. Una biografia ai margini della letteratura.

Doriano Fasoli: Professoressa Neves, in quali anni è vissuta Carolina Maria de Jesus?

Rita Ciotta Neves: La scrittrice nasce a Sacramento, una piccola località nello stato di Minas Gerais, nel 1914 e muore a Parelheiros, nella periferia di San Paolo, nel 1977. Carolina vive in un periodo di grandi trasformazioni sociali e politiche nel Brasile. Nel ’45 finisce il periodo dittatoriale di Getúlio Vargas e nel ’64 ne comincia uno ancora più duro, quello della dittatura militare, che finirà solo nell'’85. La sua vita adulta e di scrittrice si svolge dunque tra le due dittature, in quell'intervallo aureo della presidenza di Juscelino Kubitschek, quando il paese si risveglia e vive la speranza e la frenesia di una nuova epoca. Sono gli anni della costruzione di Brasilia e dell'affermarsi delle grandi metropoli, come San Paolo, Rio de Janeiro e Belo Horizonte. E, in campo culturale, gli anni del modernismo, che rivoluziona tutte le forme d'arte, dalla pittura all'architettura, alla letteratura. Ed è anche il periodo della nascita delle favelas, questi immensi agglomerati urbani dove vivono i poveri, i marginali, gli immigrati che arrivano dall'entroterra in cerca di lavoro nelle grandi città. Nel ’60, quando esce il primo libro di Carolina, lo sperimentalismo modernista si è già placato, lasciando il posto a una maggiore sensibilità sociale e a una maggiore ricerca di letteratura impegnata. Questo spiega anche il meteorico successo del diario Quarto de despejo, accolto come una voce che tra le prime arriva da dentro la favela e che è una testimonianza in prima persona dell'ingiustizia sociale e dei problemi razziali del paese.

Anche secondo lei, come affermava Alberto Moravia, «le parole di Carolina hanno una profondità shakespeariana»? 

Moravia scopre Quarto de despejo nel ’60, durante un suo viaggio in Brasile in compagnia di Elsa Morante. Il diario di Carolina Maria de Jesus vive, in quell'anno, il suo momento di maggior successo, è già stato tradotto in 13 lingue e venduto in 40 paesi. Moravia ne rimane affascinato e vede nell'opera di Carolina una forza che avrebbe potuto contribuire alla soluzione dei problemi razziali brasiliani. Con l'espressione «profondità shakespeariana», lo scrittore si riferisce al profondo e acuto sguardo che Carolina rivolge alla complessità della condizione umana. Perché lei descrive la condizione di una donna brasiliana nera e favelada, madre nubile di tre figli, ma la sua storia potrebbe essere quella di una qualsiasi donna ‘subalterna’, proveniente da qualsiasi parte del pianeta, appartenente a qualsiasi cultura. L'osservazione di Moravia mi sembra quindi molto giusta, perché le parole di Carolina sono universali, così come lo sono quelle di Shakespeare.

2 aprile 2019

«Storie nere in stanze d’analisi. Conversazione con Marcello Turno» di Doriano Fasoli



Marcello Turno è psichiatra e psicoanalista, membro dell’International Psychoanalytical Association (IPA) e della Federazione Europea di Psicoterapia Psicoanalitica (EFPP). Appassionato di scrittura sperimentale è stato autore di numerose azioni sceniche per teatro danza, fra cui Pater nosterIchspaltungMetamorphosisSaffeides, realizzate dal Nouveau Theatre du Ballet International di Venezia e da Immagine Danza. Ha scritto per il teatro ElectraIo Cesare, Bruto, forse la rivoluzione, messo in scena con un gruppo di tossicodipendenti inseriti in un programma di recupero, di cui ha curato anche la regia. Ha collaborato alla sceneggiatura del TV movie L’uomo del vento. Ha pubblicato per Alpes Il mancato suicidio di Luigi Pirandello (2013) e per lo stesso editore, in questi giorni, Storie nere in stanze d’analisi. Vive e lavora a Roma.

Doriano Fasoli: Dottor Turno, Storie nere in stanze d’analisi. Un titolo forte! Spaventa un po’. Di che si tratta?

Marcello Turno: Sono cinque racconti, organizzati in un volume il cui indice richiama volutamente a un trattatello di psicoanalisi: «Una questione di transfert», «Analisi interminabile», «La seduta d’analisi», «Enactment» e «Psicoanalisi futura». Più che spaventare vuole essere un sovversivo, fuori dagli schemi tradizionali. Rompere la consuetudine a cui ci ha abituato In Treatment. Nei miei racconti il protagonista è la relazione paziente-analista. C’è sempre qualcosa che porta ad agire o l’uno o l’altro.

Analisti o pazienti che diventano killer, appunto. Non teme di attirarsi le ire dei suoi colleghi?

A leggerli bene i racconti ironizzano sui tic e gli stereotipi degli analisti. L’ho già detto in una intervista televisiva: vediamo se sanno sorridere. A volte si prendono troppo sul serio e fino ad ora, escluso Woody Allen e Moni Ovadia, non mi sembra che ci siano altri a prenderli in giro.

Nel suo libro condensa il paradigma indiziario della crime investigation con teorie psicoanalitiche. A detta di chi ha letto Storie nere in stanze d’analisi riesce a farlo egregiamente. Sembra quasi che siano casi clinici. Come mai questa idea?

Sono convinto che un buon psicoanalista debba essere un investigatore della mente. Comunque è una deriva autobiografica. Da ragazzo, ma anche in età adulta, sono stato un accanito lettore di letteratura gialla e nera e molte altri generi ancora. Dove mi è possibile dissemino omaggi. Ad esempio rimasi colpito che Raymond Chandler stette giorni interi per decidere se usare una frase: «l’ombra […] gli tagliò la faccia». Io questa frase l’ho usata. È diventata «l’ombra gli tagliò la testa», è un omaggio a lui. Non vedevo l’ora. A mo’ di mosaico ho incastrato il background culturale con teoria e pratica psicoanalitica e sono nati i racconti.