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30 gennaio 2024

«Giancarlo Micheli, “Pâris Prassède”», di Luciano Albanese

 


Giancarlo Micheli

Pâris Prassède

Monna Lisa, Roma 2023

644 pp.

€ 25,00

ISBN: 9791254583630

 

Il nuovo romanzo di Giancarlo Micheli Pâris Prassède si apre con un lungo passo di ispirazione manzoniana, dove le innumerevoli subordinate – che richiedono al lettore un’attenzione supplementare per tenere ferma nella memoria la proposizione principale – sono condite con una sottile vena di ironia certamente non estranea al Manzoni, ma più vicina, come già in altri lavori, allo stile di Carlo Emilio Gadda. In questo lungo passo di apertura incontriamo da subito il protagonista dell’opera, Pâris Prassède, che rannicchiato nella coffa della goletta francese Alecton, scruta distrattamente l’orizzonte mentre è immerso nei suoi pensieri. Iniziano qui le avventure/disavventure di Pâris Prassède, che, disceso prontamente in plancia al richiamo del capitano, inciampa in una mostruosa creatura marina appena pescata, calpestandola e rendendola inutile per una auspicata e fruttuosa vendita agli scienziati. La sbadataggine di Pâris Prassède viene ricompensata con numerose frustate, ma il rinvenimento di una creatura marina, che ricorda quella di Ventimila leghe sotto i mari, consente una digressione – la prima di tante – sulla vita della famiglia di Jules Verne e più in generale sulla Parigi del XIX secolo, favorendo così la creazione dello sfondo della prima rimarchevole impresa di Pâris Prassède, la partecipazione alla rivolta della Comune.

 

Pâris Prassède, originario di Haiti, era figlio dell’imperatore Faustin. Era stato lo stesso Faustin ad imporre il nome di Pâris Prassède, un duplice omaggio sia al mitico Paride che alla prassi, l’azione. «In principio era l’azione», diceva anche il Faust di Goethe, e come vedremo la figura di Pâris Prassède fa tutt’uno con le sue azioni. Dopo alterne vicissitudini Pâris Prassède è venduto come schiavo e lavora in una fattoria del Mississippi finché viene riscattato dalla madre e arruolato nella marina francese, nelle cui fila compare appunto in apertura del romanzo. Ben presto congedatosi torna ad Haiti, dove deve fare fronte a molte ostilità e alla fine viene imprigionato per impedirgli di far valere la sua discendenza. Successivamente, dopo la chiusura della prigione haitiana, è trasferito in quella di Sainte-Pélagie a Parigi. Qui incontra Auguste Blanqui, legge Proudhon, e hanno inizio i suoi contatti col movimento operaio europeo, in particolare, inizialmente, coi gruppi clandestini della fazione blanquista. In seguito conosce Paul Lafargue, il creolo originario di Cuba che sposerà Laura Marx. Questo lo conduce a Londra, dove conosce la famiglia di Marx e lo stesso Marx.

28 febbraio 2022

«Cammina leggera. Conversazione con Maria Chiara Risoldi» di Doriano Fasoli




Maria Chiara Risoldi è nata a Bologna nel 1953. Ha fatto la giornalista dal 1977 al 1988, prima a La città futura, poi a Rinascita. Dal 1988 al 2020 ha svolto la libera professione come psicoterapeuta, facendo parte della Società Psicoanalitica Italiana, dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica Infantile, della Società Italiana di Psicoanalisi e Psicoterapia Sándor Ferenczi e dell’Associazione EMDR Italia. Docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia di Bologna dal 2000 al 2009. Ha collaborato, dalla sua fondazione, con la Casa delle donne per non subire violenza Onlus di Bologna e ne è presidente dal 2016. Ha pubblicato con Manni nel 2003 Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina e con Tombolini nel 2018 #MeToo. Il patriarcato dalle mimose all’hashtag.

 

Doriano Fasoli: Dottoressa Risoldi, quando è nata l’idea di questo romanzo Cammina leggera, pubblicato in questi giorni da Manni?

 

Maria Chiara Risoldi: L’ennesima volta che mi sono sentita rispondere: «No, non ne abbiamo mai parlato». Ho incontrato molte persone che durante il primo colloquio mi avevano raccontato di avere già fatto precedenti esperienze psicoanalitiche, concluse o interrotte per le più diverse ragioni. Sono sempre stata molto attiva, facevo domande, esprimevo le mie opinioni, spiegavo il mio punto di vista, non sono mai stata ligia alla regola del silenzio, se non, forse, un po’ durante il training. Stare in silenzio, parlare… Questioni complesse che sto semplificando molto. Se mi veniva un’idea, una curiosità non la tenevo per me. La proponevo al paziente. Questo modo di lavorare facilitava l’emergere di questioni importanti, di eventi cruciali dell’infanzia e accelerava il cammino. Anche questa è una questione complessa che sto semplificando.

 

Quello che mi ha fatto venire voglia di scrivere un libro è stato il dolore, la rabbia, la delusione delle persone che avevano fatto anni di analisi, anche dieci, perfino venti o più di una analisi e non avevano aperto quella porta, che loro non sapevano che ci fosse e che il loro psicoanalista si era astenuto, secondo la regola, di fargli vedere oppure che nemmeno lui aveva visto, accecato da una teoria che non contemplava l’esistenza di quella porta. Condividere con l’ennesima persona la sofferenza che comportava pensare di avere perso tempo è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Avevo bisogno di scrivere.

23 ottobre 2019

«“A sinistra in fondo al corridoio”. Intervista a Patrizia Carrano» di Doriano Fasoli


Patrizia Carrano nella sua casa romana (foto di Roberto Canò, ottobre 2019)

Patrizia Carrano è nata a Venezia dove ha trascorso l'infanzia, ma vive e lavora a Roma. Scrive per la radio e la televisione; come scrittrice ha esordito con Malafemmina. La donna del cinema italiano (1977), cui è seguito Le signore Grandifirme (1978). È autrice, tra l'altro, dei libri La Magnani (1982), Stupro (1983), Baciami stupido (1984), Una furtiva lacrima (1986), Erna Rossofuoco (1989), Cattivi compleanni (1991), L'ostacolo dei sogni (1992). La sua produzione narrativa più recente comprende la raccolta di racconti Notturno con galoppo (1996), Campo di prova (2002) e i romanzi A lettere di fuoco (1999) e Illuminata. I suoi libri sono tradotti in cinque lingue.

È in libreria da due settimane un nuovo romanzo di Patrizia Carrano, dal titolo A sinistra in fondo al corridoio (1000eunanotte). Una saga familiare, che intreccia le vicende spesso rissose di genitori, figli e figliastri, cognate intriganti di stretta osservanza cattolica e anziani professori nostalgicamente legati al ricordo del vecchio Partito Comunista. Il tutto visto e raccontato da una angolatura abbastanza inedita: quella dei domestici che nei decenni si sono avvicendati a lavorare nel vasto appartamento del quartiere Nomentano a Roma dove abitano i protagonisti. 

Doriano Fasoli: Cosa c'è a sinistra in fondo al corridoio?

Patrizia Carrano: Solo la stanzetta della domestica – o del domestico – così come l'aveva previsto l'architetto che nel 1935 ha progettato l'appartamento dove vivono i miei protagonisti: una casa costruita con agio, con salone doppio, stanza da pranzo, studio, ampia zona notte. Ma per la persona di servizio un bugigattolo di due metri per due collocata, appunto, a sinistra in fondo al corridoio.

Poiché questo romanzo racconta la storia di una famiglia attraverso lo sguardo delle persone che hanno lavorato in quella casa, mi sembrava giusto partire da lì.

Da dove nasce la decisione di dar voce ai domestici? 

Perché mi sono resa conto che fra la domestica veneta e semianalfabeta che negli anni Cinquanta andava a servizio quasi gratis, e il badante peruviano, che oggi ha dovuto smettere di fare l'università nel suo paese e cercare lavoro in Europa, corre un intero universo che fino ad oggi la narrativa italiana non ha mai raccontato. Mi è piaciuto osservare, capire e narrare gli intrecci fra colf, badanti, portinaie e i personaggi della famiglia dove hanno lavorato. Il libro si svolge quasi tutto in un appartamento, ma in quelle stanze confluiscono filippini, equadoregni, e prima ancora donne del Frusinate, oppure dell'Appenino marchigiano. Ognuno con il proprio mondo, le proprie necessità. Tutte stipate in una stanzetta due per due.

30 luglio 2018

«“Una perfetta vicinanza”, romanzo di Fabio Ciriachi» di Cinzia Baldazzi



Fabio Ciriachi
Una perfetta vicinanza. Romanzo
Postfazione di Giorgio Patrizi
Coazinzola Press, Mompeo (RI) 2017
294 pp.
€ 18,00
ISBN: 9788894175394


A Mantova, nelle Fruttiere di Palazzo Te, nei giorni precedenti il vernissage, un visitatore ammira un maestoso quadro intitolato L'uomo che resta, realizzato con colori dotati di una struttura chimica adeguata a reagire alle condizioni ambientali e mutare in maniera imprevedibile. Il lavoro sarà di annotare qualunque modifica nell'arco di due mesi.

Al centro scorgiamo raffigurato un sessantenne seduto a un tavolino, intento a scrivere a mano su un foglio di carta srotolato a terra, con le estremità spinte nello spazio del dipinto fino ai rispettivi lati. A sinistra, una madre con bambino, a destra, una giovane donna.

In tale atmosfera esordisce Una perfetta vicinanza, ultimo romanzo dell’autore romano Fabio Ciriachi e, quasi a evocare agli occhi del lettore l'immaginaria opera o ulteriori rappresentazioni idonee e pertinenti, suggerisce il bianco di Campigli e gli sfondi urbani di Sironi. Personalmente avrei pensato, in aggiunta, all'eleganza delle sagome di Casorati, ma senza traccia dei tormenti freudiani di Fausto Pirandello o della drammaticità di Annigoni.

La caratteristica cangiante della tela rende il narrato lunghissimo e in progress. Leggendone, quindi, i fogli riempiti quotidie, lo studioso viene a sapere della storia di Cristiano Distansi e Vanessa Lenieri, il rapporto nato online e proseguito nella vita reale, la famiglia di lui (l'ex-moglie Arlette e il figlioletto Massimo) trasferita a Bruxelles, le vicissitudini della relazione con l’esito di una dilagante solitudine.

L’incipit si inaugura nell’aura di un’eccelsa dicotomia della riflessione filosofica elaborata nel celebre dialogo di Platone, intorno al 370 a.C., quando Socrate spiega a Fedro:

Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile per la verità, alla pittura: infatti, le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio; e così fanno anche i discorsi. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa. E una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla.1

Nel dipinto mantovano le figure «ti stanno di fronte come se fossero vive» e non “parlano” in una scala normativa (né potrebbero!), nonostante, in linea con i «discorsi» platonici, il testo redatto dal vecchio «rotola da per tutto»: ricade oltre i bordi del tavolo, provenendo dalla cornice di sinistra e, giunto all’angolo di destra, consente di essere “letto”.

2 luglio 2018

«Kenzaburō Ōe, “Un'esperienza personale”» di Nicola d'Ugo


Ōe con la moglie Yukari Ikeuchi e il figlio Hikari.

Un'esperienza personale è un romanzo dello scrittore giapponese Kenzaburō Ōe, Premio Nobel per la letteratura nel 1994. Breve e intensa, la narrazione, edita a Tōkyō nel 1964, prende spunto dalla congenita anomalia cerebrale del figlio di Ōe. Particolarmente interessante in questo romanzo è il complesso di Laio che muove l'azione del giovane padre protagonista della storia, in lotta per eliminare subdolamente il figlio lasciandolo scivolare nei meccanismi burocratici delle istituzioni ospedaliere nipponiche.

Il nocciolo fondamentale dell'«esperienza» (narrata in terza persona) è il tentativo del protagonista Tori-bird di rifiutare il proprio passaggio alla maturità, che gli farebbe venir meno certe comodità ovattate dell'eterna giovinezza di giapponese sposato con una donna di buona famiglia. Se non fosse che la vita è più complicata delle aspettative e la nascita di un figlio «bicefalo» e «mostruoso» gli fornisce l'alibi per metter da canto le proprie responsabilità e profittarne per far della sventura del figlio una tragedia in sordina che ricada sul neonato incosciente dell'universo sociale in cui ha visto la luce. E già solo per questo Ōe dimostra una presa demoniaca e geniale che egli saprà sciogliere, da suo pari, in un atto di umanità dell'espressione artistica e filosofica.

Ricordo qui, per inciso, oltre all'Edipo re di Sofocle, il mito della nascita di Mosè, abbandonato alle acque del Nilo, e quello dei fondatori di Roma, i quali costituiscono alcuni antecedenti classici di questo romanzo, seppure essi siano ribaltanti nella prospettiva, poiché lì ne sono protagonisti i figli. Meno discrepante è il fatto che nei testi classici i protagonisti siano dei nobili, a fronte del fatto che in Giappone, non meno che in Italia, il nocciolo duro dei poteri forti si stanzia in contesti locali, anche familiari, piuttosto che in una centralità soverchiante dello Stato.

Sempre per inciso, si noti che il nome del protagonista Tori-bird, anch'esso frutto di una dicotomia 'bicefala', costituisce la ripetizione della parola «uccello» in giapponese e in inglese, come se non fosse possibile denominare l'identità di Tori e Bird se non per due concetti accostabili, ma non coniugabili in un'unità ferma: Ōe scinde in due il carattere del giovane in una matrice nipponica autoctona e in un'aspirazione a prendere il volo per l'Occidente abbandonando le proprie radici e le proprie responsabilità. Al contempo, siccome la traduzione dal giapponese in inglese avrebbe potuto suonare anche Tori-bard, Ōe disgiunge la metafora dell'uccello migratore, che cerca di sfuggire al proprio destino, da quella del poeta cantore, del «bardo» del luogo, della società nipponica, insomma, in cui vive.

Con questo voglio sottolineare che l'ambientazione affatto realistica (e talvolta straordinariamente visionaria e carnale) in cui si dipana la vicenda è arricchita di riferimenti più o meno espliciti ai miti e alle cronache internazionali; al contempo, il linguaggio di Ōe dà luogo ad un sincretismo semantico di non immediata presa, su cui è più facile riflettere a lettura ultimata, in ragione di una poetica attenta al linguaggio e proclive alla messa in crisi delle convenzioni linguistiche, non in quanto puro gioco istrionico del romanziere, ma perché nel linguaggio sono riposti i concetti e il nostro modo di interpretare sensazioni e sentimenti che ad essi rimandano. Notevole è il ricorso, nei romanzi di Ōe, a stili sostanzialmente diversi a seconda della materia trattata.

21 giugno 2018

«Banco di prova. Intervista a Patrizia Carrano» di Doriano Fasoli



Patrizia Carrano è nata a Venezia ma vive a Roma. Ha scritto per molti giornali, fra cui Sette, il magazine del Corriere della Sera, per la televisione, il teatro e la radio. Fra i suoi libri più noti La Magnani. Il romanzo di una vita (Rizzoli, 1992), Notturno con galoppo (Mondadori, 1996), Illuminata (Mondadori, 2000), Donna di spade (Rizzoli, 2005), Un ossimoro in lambretta (ItaloSvevo, 2016). È stata tradotta in cinque lingue.
Appena uscito per i tipi ItaloSvevo, Banco di prova. Indagine su un delitto scolastico rievoca un fatto di cronaca che ha avuto per protagonista un ragazzo di nome Claudio Liberati, studente dello storico liceo romano Torquato Tasso all'inizio degli anni Sessanta. Ne parliamo con l'autrice Patrizia Carrano.

Doriano Fasoli: Prima domanda, banale ma inevitabile. Com'è nata l'idea di questo romanzo breve?

Patrizia Carrano: Sono stata anch' io una allieva del Tasso negli anni in cui Claudio ha fatto il ginnasio e la prima liceo. Ma avevo volutamente seppellito in un angolo della mia memoria la sua vicenda, che pure mi aveva scosso profondamente. Più di mezzo secolo dopo sono tornata in quel liceo a tenere una lezione per un concorso letterario fra studenti e l'odissea esistenziale ed emotiva di Claudio mi si è parata davanti. Non potevo non scriverne, non potevo non cercare di capire il segno e il senso di quanto era accaduto.

Il sottotitolo del libro è Indagine su un delitto scolastico. Un delitto presuppone un colpevole. Sei riuscita a scoprirlo?

Direi che ho scoperto una congiura. Quella del mondo degli adulti nei confronti della giovinezza. Quella di una scuola autoritaria e non autorevole. Quella di un Paese – l'Italia del boom – che non era capace di ascoltare voci dissonanti. Quella di genitori ciecamente decisi a ottenere il «pezzo di carta» per i loro figli, allo scopo di salire sull'ascensore sociale. A quell'epoca l'Italia aveva un Pil che cresceva del 9% all'anno e un tasso di disoccupazione del 3%. Ora la pensiamo come un Paese felice e risolto. Non era così.

Tu parli di dati. Eppure il racconto ha un tono assolutamente letterario.

Era quello che volevo. Ho cercato di entrare letterariamente nel cuore di una classe di adolescenti dei primi anni Sessanta. Di percepire il disagio, la sofferenza che alcuni di loro hanno provato, e di farli miei. Non volevo scrivere un racconto a tesi. Non l'ho mai fatto, in nessuno dei miei libri.

25 maggio 2018

«“Pastorale americana”. Un romanzo polifonico di Philip Roth» di Nicola d’Ugo



Elegiaco e tragico, umano e crudele, provocatorio e riflessivo, pervaso di quel mistero che fa di una storia interiore l'avventura di una vita ignota a chi la viva, il romanzo di Philip Roth Pastorale americana (American Pastoral, Houghton Mifflin, Boston 1997) l’ho trovato affascinate per l'intelligenza dell'autore, la sua duttilità espressiva, l'ampiezza delle tematiche trattate. Tematiche che sono incluse in atmosfere, in situazioni specifiche, dove emerge l'intensità delle convergenze di stati del mondo che sarebbero altrimenti tenuti separati, come in quella splendida sequenza del film di Robert Benton La macchia umana (2003), tratto dall'omonimo romanzo di Roth, in cui Coleman Silk (interpretato da Anthony Hopkins) e Nathan Zuckerman (Gary Sinise) ballano come innamorati, felici della vita che ritorna. È una scena limite, bella da riguardare, tratta da un film mal riuscito, ma tanto basta a ricordarci, nell'intreccio fra immagine filmica e musica jazz, la cruda contraddizione di chi, rinnegata la propria origine negra per il perduto amore di una donna bianca, non può fare a meno di gioire al ritmo della musica afroamericana, abbracciando un uomo scampato al cancro. 

I romanzi di Roth sono pieni di malattie, e Pastorale americana non è da meno. Il romanzo si apre con l'incontro di due uomini malati alla prostata, Nathan Zuckerman che sopravvive, Seymour Levov che muore qualche tempo dopo. La malattia attraversa il romanzo sotto forma di balbuzie della figlia di Seymour (AP, p. 90), di depressione di sua moglie Dawn (p. 177), di attacco cardiaco al padre di lei (p. 389) e via dicendo, fino all'evocazione dell'epidemia di vaiolo del 1777 (p. 303). Attraverso queste malattie Roth fa terra bruciata intorno all'individuo, nella misura i cui la vita non è solo pensiero e narrazione: di là dall'immaginazione dell'uomo c'è qualcosa di carnale che va per conto proprio, e che non può essere condiviso con un'altra persona. Pensa Seymour:

Yes, alone we are, deeply alone, and always, in store of us, a layer of loneliness even deeper. There is nothing we can do to dispose of that. No, loneliness shouldn't surprise us, as astonishing to experience as it may be. You can try turning yourself inside out, but all you are then is inside out and lonely instead of inside in and lonely. (225-226)
Sì, siamo soli, profondamente soli, e in serbo per noi, sempre, c’è uno strato di solitudine ancora più profondo. Non c’è nulla che possiamo fare per liberarcene. No, la solitudine non dovrebbe stupirci, per sorprendente che possa essere farne l’esperienza. Puoi cercare di tirar fuori tutto quello che hai dentro, ma allora non sarai altro che questo: vuoto e solo anziché pieno e solo.

Al tempo stesso il ventre molle della malattia evoca il destino individuale, oltre a denunciare disagi sociali, come nel caso della depressione di Dawn e di balbuzie, bulimia e anoressia ideative e ideologiche di Merry (pp. 243-244).

9 maggio 2018

«Su “Romanzo per la mano sinistra” di Giancarlo Micheli» di Luciano Albanese



Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017), di Giancarlo Micheli, consta di 102 capitoli per complessive 635 pagine. Si tratta di un lavoro molto accurato e molto impegnativo, che emerge prepotentemente dal panorama letterario più recente. Racconta, attraverso le lettere di Stefan al figlio Bruno, le vicissitudini di una famiglia ebraica, Adele (chiamata alternativamente col diminutivo Ada) Stefan e Bruno, in un periodo che va dall’annessione dell’Austria alla Germania nazista alla fine del ‘secolo breve’. Lo sfondo delle vicende dei protagonisti è costituito da una folta galleria di personaggi storici, che acquistano una solida autonomia compositiva – a tratti persino preponderante – e costituiscono una sorta di romanzo parallelo rispetto al filo principale della narrazione. Sfilano così davanti a noi Hitler, Mussolini, Freud, Concetto Marchesi, Marie Bonaparte, Ciano, Luchino Visconti, Alicata, Valerio Borghese, Mario Capanna, Feltrinelli, Asor Rosa, Pasolini, insieme ad altri personaggi indirettamente collegati alle vicende principali, come ad es. Enrico Fermi e gli scienziati di Los Alamos. In effetti una buona metà del romanzo è occupata da questa galleria di personaggi, di cui Micheli, grazie ad un paziente lavoro storiografico, ricostruisce, in uno stile ‘tucidideo’, le conversazioni intercorse. Al punto che potrebbe sorgere il dubbio se il vero sfondo dell’opera siano piuttosto le storie di Stefan, Adele e Bruno, che da questa ottica funzionerebbero da elemento di raccordo.

In realtà i due piani del romanzo si intersecano continuamente, perché i personaggi storici in questione sono, più spesso direttamente che indirettamente, la causa prima dell’odissea dei protagonisti, e quindi della loro tragica fine. Anche una ricostruzione sommaria delle loro vicende – che non credo inutile – è in grado di mostrare quanto e fino a che punto essi abbiano dovuto subire l’iniziativa di chi aveva in mano le leve effettive del potere.

Adele, una storica dell’arte, e Stefan, uno psicanalista, vivono e lavorano felicemente a Vienna insieme al neonato Bruno, quando l’annessione dell’Austria alla Germania nazista li costringe a fuggire in Italia, la patria di Adele. Lì tuttavia nuove difficoltà sorgono in seguito alla promulgazione delle leggi razziali. Dopo una inutile supplica allo stesso Mussolini, i due chiedono consiglio sul da farsi sia a Freud, che, vicino alla morte, li indirizza a Parigi, presso la sua allieva Marie Bonaparte, che a Concetto Marchesi, che li indirizza verso l’Urss, apparente fucina di un futuro migliore. Decidono per la seconda soluzione, e giungono a Leopoli. Lì Stefan viene contattato dall’Nkvd, che lo arruola fra i suoi agenti. Dopo il patto Molotov-Ribbentrop e la spartizione della Polonia, i due ritengono più sicuro trasferirsi a Cracovia sotto la protezione della contessa Lanckorońska. Ma Stefan viene intercettato da ufficiali della Wehrmacht che stanno complottando contro Hitler e intendono servirsi di lui come diagnostico della psicopatologia hitleriana (oggetto della sua tesi dottorale). La congiura fallisce sul nascere, e Stefan viene costretto dai congiurati, per mantenere la sua copertura, ad arruolarsi nelle SS come medico psichiatra. Nel frattempo Ada, ritenendo che della scomparsa di Stefan sia responsabile la contessa Lanckorońska, fugge con Bruno e, mezza assiderata, trova rifugio e momentanea pace nel monastero di Bielany. Tuttavia una improvvisa retata delle SS condurrà Adele e Bruno di fronte al Gruppenführer Heydrich, che invaghito di Adele le prometterà salvezza in cambio di amore.

8 febbraio 2018

«Il bafometto. Intervista a Giuseppe Girimonti Greco» di Doriano Fasoli



Giuseppe Girimonti Greco è traduttore e saggista. Si occupa principalmente di Proust. Fra i suoi ultimi lavori di traduzione: Vertigine di Julien Green (Nutrimenti , Roma; premio Bodini 2017), Racconti di Marcel Proust (Clichy, Firenze 2017) e Fiabe di Charles Perrault (La Nuova Frontiera Junior, Roma 2018), tutti e tre curati insieme allo scrittore Ezio Sinigaglia, con il quale forma un collaudato sodalizio da alcuni anni.

Doriano Fasoli: Cosa racconta Il bafometto, l’ultimo romanzo di Pierre Klossowski, appena pubblicato da Adelphi nella tua traduzione?

Giuseppe Girimonti Greco: Non è facile “raccontare” Il bafometto. La parte più propriamente narrativa del testo è il lungo Prologo (uscito su rivista, autonomamente, già nel 1964), che può essere considerato un bell’esempio di pastiche di almeno tre tipologie testuali: il verbale di polizia, il saggio storico-erudito, la narrazione alla Walter Scott. Klossowski ricostruisce (reinventadola) la fosca vicenda del processo ai Templari (accusati, com’è noto, di eresia, idolatria e sodomia), che portò rapidamente alla sospensione dell’Ordine. I personaggi evocati sono in parte storici (Filippo il Bello, Guglielmo di Nogaret, Jacques de Molay, ecc.), in parte fittizi: in una lettera al critico Jean Decottignies che è stata pubblicata in appendice a una monografia dello stesso Decottignies (Klossowski, notre prochain, H. Veyrier, Paris 1985), e che in questa edizione abbiamo riprodotto a mo’ di postfazione («Note e chiarimenti sul Bafometto»), Klossowski dice di aver accarezzato, già a partire dal 1964, «il progetto di un romanzo storico che rievocasse le circostanze della soppressione dell’Ordine dei Templari»; tuttavia, molto presto lo scrupolo di attendibilità storica cede il passo a un progetto di altra natura; l’idea di partenza ridesta in lui «il ricordo di una remota lettura di Walter Scott», risalente alla prima adolescenza. Infatti, «i nomi di due dei protagonisti del Prologo – Bois Guilbert e Malvoisie – sono mutuati da quelli dei due Templari che compaiono in Ivanhoe» (Brian de Bois-Guilbert e Philip de Malvoisin). Ma Klossowski si diverte a inserire nel suo racconto anche altri personaggi dai nomi quanto mai “parlanti”: Valentine de Saint-Vit (acerrima nemica del Tempio) e Ogier de Béauseant (il bell’efebo che porta la discordia in seno all’Ordine). Sulla questione dell’onomastica klossowskiana il discorso sarebbe troppo tecnico; mi limiterò a notare, en passant, che vit, nel francese medievale (quello dei fabliaux, per intendersi), indica il membro virile (dal latino vectis, “leva”, “stanga”, “sbarra” e simili); e che séant è sinonimo colloquiale di derrière, fessier, postérieur; cosicché, volendo, ci si sarebbe potuti avventurare in esperimenti onomastici – per così dire – goliardici: “Valentina della Santa Verga” e “Oggieri di Belsedere”; soluzioni scartate a monte, ché alla lunga avrebbero sicuramente stancato l’orecchio. Come dicevo, solo nel Prologo abbiamo una narrazione vera e propria, molto tesa, peraltro; gotica, cupa e… corrusca (per usare un aggettivo caro a Paolo Poli, che tanto amava le cose neogotiche, il finto Medioevo); Klossowski la definisce «favola allegorica, fiaba orientale», apologo gnostico «che risente (Blanchot dixit) del modello del racconto orientale del Vathek di Beckford»; personalmente, io ho letto Il bafometto, sin dall’inizio, come un vero e proprio conte brun: ovvero, come una narrazione ricca di momenti sublimi e grotteschi insieme, e caratterizzata da un andamento policier molto riuscito (visto che sulla “tenebrosa vicenda” che distrugge l’Ordine dall’interno indaga un vero e proprio detective: il Commendatario, abilissimo nel trovare il bandolo della matassa e nel venire a capo del mistero, salvo poi decidere di nascondere per sempre le “tracce” dello scandalo).

20 dicembre 2017

«”Libro Rotto”. Intervista a Luca Buoncristiano» di Doriano Fasoli



Luca Buoncristiano è nato a Roma. Giornalista pubblicista, ha lavorato per RAI TV e Radio RAI e ha pubblicato per diverse testate nazionali. Dal 2002 al 2004 ha collaborato con la fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene, curando la catalogazione del lascito artistico di Bene. È coautore, con Alessandra Amitrano, in qualità di illustratore, del libro Mary e Joe (Fazi, 2007). Nel 2012 ha curato, per il quadrimestrale Panta, un’uscita monografica, edita da Bompiani, che raccoglie interviste a Bene. Libro Rotto, cui si incentra la presente conversazione, è il suo primo romanzo, pubblicato in questi giorni per i tipi El Doctor Sax: Beat & Books, con prefazione di Sandro Veronesi.

Doriano Fasoli: Buoncristiano, come è nata l'idea di questo romanzo? 

Luca Buoncristiano: Il libro nasce come evoluzione della mia creatura Joe Rotto, nata ormai 12 anni fa sul web e esistita fino ad oggi solo in forma di illustrazione aforistica o filosofica. Ho sempre considerato Joe Rotto al centro di un'azione nelle sue affermazioni. Ecco, il romanzo è tutto quello che manca al disegno.  Il romanzo è Joe Rotto in azione ed è la creazione di un mondo. Ho sempre comunque considerato le mie tavole come delle illustrazioni letterarie, la mia ambizione era quindi quella di arrivare qui, unendo testo e disegno. Dove il disegno non è illustrazione ma altro testo a sé. Sono due segni diversi. Ho realizzato un lavoro che è parola, visione e voce insieme.

Puoi dirci, come è costruito? 

Come una vertiginosa caduta verso un precipizio infinito.

Quali sono i tuoi riferimenti…

Charles Bukowski, Charles Addams, Charles Schulz e Charles Manson.

A quale tipo di pubblico hai pensato durante la stesura?

A me stesso. Non l'ho mai considerato il pubblico. Detesto l'idea di un pubblico, al contrario cerco le persone.  Pur essendo consapevole di aver realizzato un'opera pop, non ho mai perso di vista il mio piacere e il mio divertimento. Ho scritto il libro che avrei voluto leggere.

Quali sono le tue predilezioni letterarie?

Tante. Irriassumibili. Amo molto gli scrittori americani, per esempio Henry Miller, Hunter S. Thompson, Pynchon, Burroughs, Bret Easton Ellis e così via.

Ma sono circondato da molti fantasmi, credimi.

E quali quelle musicali…

Anche qui si può aprire un mondo. Ho 1200 vinili. Posso dire che per il libro ho saccheggiato Lou Reed che trovo superiore a Bob Dylan come autore di testi, amo Bowie alla follia e che il Soul degli anni ’60 mi mette in pace con il mondo.

Quanto tempo hai impiegato a scriverlo?

Quattro anni. Ma è di più che ci giro intorno. Però negli ultimi quattro anni mi ci sono messo dentro, con fatica e dolore, e l'ho tirato fuori.

Sei al passo con la letteratura odierna?

No. Zero direi.


(Dicembre 2017)