28 febbraio 2022

«Cammina leggera. Conversazione con Maria Chiara Risoldi» di Doriano Fasoli




Maria Chiara Risoldi è nata a Bologna nel 1953. Ha fatto la giornalista dal 1977 al 1988, prima a La città futura, poi a Rinascita. Dal 1988 al 2020 ha svolto la libera professione come psicoterapeuta, facendo parte della Società Psicoanalitica Italiana, dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica Infantile, della Società Italiana di Psicoanalisi e Psicoterapia Sándor Ferenczi e dell’Associazione EMDR Italia. Docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia di Bologna dal 2000 al 2009. Ha collaborato, dalla sua fondazione, con la Casa delle donne per non subire violenza Onlus di Bologna e ne è presidente dal 2016. Ha pubblicato con Manni nel 2003 Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina e con Tombolini nel 2018 #MeToo. Il patriarcato dalle mimose all’hashtag.

 

Doriano Fasoli: Dottoressa Risoldi, quando è nata l’idea di questo romanzo Cammina leggera, pubblicato in questi giorni da Manni?

 

Maria Chiara Risoldi: L’ennesima volta che mi sono sentita rispondere: «No, non ne abbiamo mai parlato». Ho incontrato molte persone che durante il primo colloquio mi avevano raccontato di avere già fatto precedenti esperienze psicoanalitiche, concluse o interrotte per le più diverse ragioni. Sono sempre stata molto attiva, facevo domande, esprimevo le mie opinioni, spiegavo il mio punto di vista, non sono mai stata ligia alla regola del silenzio, se non, forse, un po’ durante il training. Stare in silenzio, parlare… Questioni complesse che sto semplificando molto. Se mi veniva un’idea, una curiosità non la tenevo per me. La proponevo al paziente. Questo modo di lavorare facilitava l’emergere di questioni importanti, di eventi cruciali dell’infanzia e accelerava il cammino. Anche questa è una questione complessa che sto semplificando.

 

Quello che mi ha fatto venire voglia di scrivere un libro è stato il dolore, la rabbia, la delusione delle persone che avevano fatto anni di analisi, anche dieci, perfino venti o più di una analisi e non avevano aperto quella porta, che loro non sapevano che ci fosse e che il loro psicoanalista si era astenuto, secondo la regola, di fargli vedere oppure che nemmeno lui aveva visto, accecato da una teoria che non contemplava l’esistenza di quella porta. Condividere con l’ennesima persona la sofferenza che comportava pensare di avere perso tempo è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Avevo bisogno di scrivere.


Qual è lo spirito che lo anima?

 

Una resa dei conti. Con Freud e con me stessa. Io ho scoperto Freud a sedici anni. Quello che allora avevo capito di Freud era che le ragioni del malessere avevano origine nell’infanzia. Avevo letto qualcosa, non ricordo più cosa, ma leggerlo, pur capendoci poco, mi aveva dato sollievo. Decisi che avrei fatto la psicologa dei bambini. A Bologna negli anni Settanta il corso di laurea in Pedagogia era un’eccellenza, scelsi l’indirizzo psicopedagogico e trovai il mio habitat. Studiai con vera passione. In particolare psicologia dell’età evolutiva. Ebbi un vero colpo di fulmine per Bowlby e Miller. La resa dei conti con Freud e con me stessa significava capire perchéche cosachi mi impedì di seguire le orme di John Bowlby e di Alice Miller e di smitizzare Freud.

 

Come mai andò a fare la giornalista?

 

Io ero molto coinvolta in politica. Mi sono laureata l’11 marzo 1977. Proprio quel giorno. Da un anno lavoravo alla Biblioteca Universitaria di Bologna, perché avevo fatto un concorso statale e vinto il posto. Non volevo fare la bibliotecaria, fu un’imposizione materna. Avrei fatto qualunque cosa per venire via, ma non al punto da gettare alle ortiche un posto fisso. In maggio il PCI consentì alla FGCI di aprire un settimanale per dialogare con il movimento: La città futura. Mauro Felicori, segretario della Sezione Universitaria Comunista di Bologna, fu chiamato a fare il vicedirettore. Io mi ero iscritta da poco al PCI. Ero femminista. Merce rara e necessaria nel nuovo settimanale. Mi chiese di collaborare da Bologna. A luglio mi propose di andare a Roma a lavorare a tempo pieno al settimanale. Non contai neanche fino a uno. Chiesi un anno di aspettativa senza stipendio al ministero e ad agosto ero a Roma a fare la giornalista. La psicologa per i bambini la dimenticai. Anche Bowlby e Miller li dimenticai. Ma non Freud. Anzi. A Roma conobbi due donne che sono state molto importanti nella mia vita. Due femministe psicoanaliste. 

 

Come avvenne il suo passaggio da giornalista a psicoanalista?

 

Metto in fila gli eventi. Dopo un anno l’aspettativa dalla Biblioteca Universitaria finisce. O mi licenzio o rientro in biblioteca. La città futura non mi garantisce nulla. Non si sa quanto sarebbe durata. Licenziarsi era agli occhi dei miei genitori una assoluta follia. Per fortuna c’era una terza via. Alla fine del 1978 chiedo il comando alla Biblioteca Nazionale di Roma, che ottengo con un aiutino della CGIL. Quindi la mattina alle otto entravo alla Nazionale, uscivo alle due e andavo al giornale. Per un anno faccio una vita veramente faticosa. Alla fine del 1979 La città futura chiude per motivi economici. Ufficialmente. In realtà perché deragliava troppo. La redazione viene lentamente assorbita da l’Unità e da Rinascita. Federico Rampini, Massimo De Angelis ed io a Rinascita. Nel 1980 mi ritrovo a fare la redattrice agli esteri. Vengo assunta come praticante e posso finalmente licenziarmi e lasciare il prezioso posto fisso statale. Comincio a studiare forsennatamente perché di politica estera sapevo poco o niente. Ho due anni e mezzo pesanti sulle spalle, il mio malessere che cova dentro di me da sempre, non mi sento all’altezza del livello culturale della redazione di Rinascita, la mia vita affettiva è una catastrofe. Molti intellettuali vanno in analisi, le mie amiche femministe fanno le psicoanaliste, Freud è rimasto un mio mito: nel 1981 decido di andare in analisi da uno psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana. I segnali che non funziona sono molteplici e relativamente precoci ma io sono una brava paziente dipendente e devota. Vado alle sedute, parlo, lui tace. I giorni che ho la seduta sono relativamente tranquilla, i fine settimana sono un inferno. La mia vita affettiva continua ad essere un disastro. Ho fatto l’esame da giornalista, sono iscritta all’Ordine, ma non sono contenta di me, non basta, la mia autostima continua ad essere bassissima, comincio a sognare di fare la scrittrice. Dopo due anni di analisi, durante un fine settimana, in balia di una crisi di angoscia identitaria, sto per compiere trent’anni, inizio a mettere in ordine i miei libri e guardandoli mi rendo conto che è la libreria di una psicologa. Decido all’improvviso che voglio fare la psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana. A 19 anni volevo fare la psicologa dei bambini e quindi quell’improvviso pensiero mi sembra ragionevole. Quando lo racconto in seduta il mio solitamente silenzioso psicoanalista si anima. Ricordo il dialogo come se si fosse svolto ieri. «Ho pensato che voglio fare la psicoanalista, poi a cena le amiche mi hanno preso in giro, dicendo che tutti quelli che vanno in analisi ad un certo punto vogliono fare gli psicoanalisti.» «Sì, e qualcuno ci riesce.» Fatto. Ecco il modo per dimostrare finalmente il mio valore, penso. In seguito al lungo lavoro che ho fatto su me stessa da sola nel corso degli anni, dopo l’analisi didattica, mi sento di interpretare quella decisione come un estremo tentativo inconsapevole di dirgli che non mi stava aiutando, che dovevo aiutarmi da sola, era il sintomo di un’impasse, di qualcosa che non funzionava nella cura. Faccio la giornalista da sette anni, ne ho trenta e all’improvviso dico che voglio fare la psicoanalista della SPI? Non la psicologa, la psicoanalista della SPI. Voglio entrare nella SPI. Rimossa Alice Miller, rimosso John Bowlby, ho una sola divinità: la SPI e cioè Sigmund Freud o viceversa. Quella relazione non sfiorò nemmeno la mia patologia. Ma non per responsabilità sua. Come per i pazienti che avevo incontrato io. I traumi importanti dell’infanzia con la teoria delle pulsioni e il setting classico restano muti e invisibili. 

 

Che cosa le ha dato la psicoanalisi? E quali sono stati i suoi fondamentali punti di riferimento?

 

La psicoanalisi ha invaso la mia vita. Ha lasciato irrisolti i miei problemi di base, devozione, dipendenza affettiva patologica da figure idealizzate, disarmonia evolutiva, sindrome della brava bambina, ha aggravato la mia “malattia”. Potrei dire che per me è vero il detto di Kraus: «La psicoanalisi è quella malattia che pretende di curare se stessa.» I miei fondamentali punti di riferimento? Ho studiato molto e frequentato diverse scuole. Ero andata in Via Panama alla sede nazionale della SPI a Roma nel famoso 1983 a chiedere che cosa si doveva fare per entrare nella SPI. Bisognava essere in analisi con un’analista didatta, o in lista di attesa, e dopo almeno un anno di analisi, ma solo con il permesso dell’analista, si poteva accedere alle prime selezioni. E qui mi fermo perché quel giorno scopro che il mio non è un didatta, quindi o cambio analista o niente. Io sono devota, dunque gli espongo il problema, lui rimane in silenzio, io dico che per diventare una brava analista avrei prima dovuto finire l’analisi con lui e poi ne avrei iniziata un’altra. Lui rimane in silenzio. Dal silenzio deduco che devo fare così. Dunque metto a punto un programma. Avrei prima fatto una scuola di psicoterapia psicoanalitica infantile, per la quale l’analisi con lui era sufficiente. Poi una volta finita l’analisi con lui avrei cercato un didatta per accedere alle selezioni per iniziare il training della SPI. Per entrare alla scuola di psicoterapia infantile però è necessario lavorare con i bambini. Mi informo e chiedo un colloquio con un docente, psicologo, psicoanalista, SPI ovviamente, dell’Istituto di neuropsichiatria infantile di Via dei Sabelli per essere presa come volontaria, nome tecnico «frequentatrice scientifica». Supero il colloquio. La mattina dalle otto alle dodici vado in Via dei Sabelli, poi in redazione. Il mio primo riferimento è dunque Winnicott, perché l’istituto è il suo tempio. Nel reparto di diagnosi e cura l’insegnamento è di altissimo livello. Ovviamente l’orientamento winnicottiano prevale, ma nel gruppo di supervisione settimanale ogni caso clinico viene discusso guardando diversi punti di vista. Secondo Winnicott, secondo Anna Freud, secondo Melanie Klein, in modo da offrire una visione ampia delle teorie psicoanalitiche sullo sviluppo del bambino. Per la mia formazione quei quattro anni sono stati fondamentali. Abituarsi a confrontare i punti di vista diversi è un abito che non ho mai dismesso. In quel momento storico le scuole di psicoterapia psicoanalitica infantile in Italia erano due: una winnicottiana e una kleiniana. Faccio domanda in entrambe, supero la selezione in entrambe e devo scegliere. Chiedo consiglio e un docente mi fa notare che quella winnicottiana è più conforme all’impostazione del mio analista. Quando glielo riferisco smentisce seccato. Quella kleiniana ha una sede anche a Milano. Quella winnicottiana solo a Roma. Io sto organizzando il mio rientro a Bologna per iniziare la professione e la scelta della scuola kleiniana diventa ovvia per motivi logistici. Inoltre avevo già completato il corso biennale di infant observation che la Tavistock aveva avviato a Roma, prerequisito necessario per la scuola kleiniana. In quel corso mi hanno insegnato piuttosto bene, oltre alla Klein, Freud e Bion. I quattro anni di training kleiniano si rivelano un incubo. Comincio a sperimentare sulla mia pelle le guerre religiose tra le diverse impostazioni. Ciascuna dichiara di essere la vera psicoanalisi. L’oro della psicoanalisi e il bronzo della psicoterapia, la celebre frase di Freud mi appare totalmente assurda, ma soprattutto causa di molti disastri. Questo paziente è adatto per una analisi, quest’altro no, peccato che non se la possa permettere ma questo paziente avrebbe proprio avuto bisogno di un’analisi, a tre sedute è una psicoterapia, no è una analisi, no, bisogna fare almeno quattro sedute, se no non è un’analisi, senza lettino è una psicoterapia, se usi un concetto di Winnicott non puoi usarne uno della Klein, se parli senza fare una interpretazione fai una psicoterapia, alle domande non si risponde, se lo fai non è una analisi, ormai tutti lavorano solo con due sedute, non si fanno più analisi, se non sei della SPI non sei una psicoanalista, sei uno psicoterapeuta, dunque anche se vedi un paziente quattro volte alla settimana, sdraiato sul lettino, fai una psicoterapia, se non rispetti il setting dettato da Freud fai una psicoterapia e altre ‘perle’ di questo livello. Nel 1992 finisco il training kleiniano, inizio l’analisi didattica, che individua finalmente qualcuno dei miei traumi infantili e nel 1996 il training della SPI. Scopro Ferenczi, perché Bologna è il suo tempio. Tra la Klein e Ferenczi la distanza è siderale. Freud, Klein, Anna Freud, Winnicott, Ferenczi, Bion, Jung… (No, Jung no, i freudiani non lo leggono Jung). È la torre di Babele delle teorie, seppure nella stessa galassia, quella in cui sono entrata. Nel 1994 inizio la mia esperienza in Bosnia partecipando a un progetto umanitario che mi costringe ad approfondire gli studi sul trauma e viaggio dentro altre galassie. Ritrovo Bowlby e Miller, rileggo Bateson e Watzlawick, scopro il cognitivismo evoluzionista, le neuroscienze… L’universo da esplorare è meravigliosamente infinito. E comincio a chiedermi che cosa si dice quando si dice «psicoanalisi». Incontro un libro che mi illumina e mi fa soffrire molto. Ma guardare la realtà per come è e non come vorremmo che fosse è l’obiettivo di una buona cura per sé e per gli altri. Dossier Freud. L’invenzione della leggenda psicoanalitica di Sonu Shamdasani e Mikkel Borch-Jacobsen. Un testo difficile da contestare per l’enorme quantità di documenti pubblicati. Un testo che per quel che mi riguarda mi consente di chiudere i conti con Freud. Non so che cosa sia la psicoanalisi. Faccio la psicoterapeuta a orientamento… No, niente orientamento: la psicoterapeuta, punto e basta. Abolisco l’uso del lettino, lavoro vis-à-vis. Il mio modo di lavorare è descritto nel mio romanzo. Il dottor Giacchetti e Matilde sono i miei alter ego. 

 

Com’è stata l’esperienza del femminismo?

 

Come quella del 1968, come quella nel PCI, come quella con la psicoanalisi: totalizzante. La dipendenza affettiva patologica necessita appartenenze forti. Ormai mi sono sganciata da tutte queste appartenenze. Del femminismo mi rimane lo sguardo di genere. Le ingiustizie sociali, lo sfruttamento, la crisi delle democrazie, le disparità, l’accesso alle opportunità, i condizionamenti culturali, le esclusioni dal potere scientifico sono tutte problematiche interpretabili solo se inserite nel contesto patriarcale. Per me oggi il femminismo è questo: non dimenticare mai il contesto patriarcale, per cercare di destrutturarlo.

 

Com’è costruito il suo romanzo Cammina leggera?

 

Ho pensato che con un romanzo, con una struttura narrativa avrei potuto comunicare meglio quello che avevo urgenza di affermare, cioè che andare a chiedere aiuto a una persona che lavora con il setting prescritto da Freud è una perdita di tempo. Lo so, è una affermazione forte, ma ne sono eticamente convinta. Ho iniziato a scriverlo nel 2018. La prima stesura era molto diversa: madre e figlia adulta trascorrono un fine settimana al mare perché la figlia deve scegliere che scuola di psicoterapia frequentare e la madre fa la psicoanalista. Era molto più lungo. Non ho trovato un editore perché tutti i lettori delle case editrici consultate e anche un agente letterario mi hanno segnalato che la psicoanalista prevaleva troppo sulla scrittrice. Era un saggio più che un romanzo. Allora ho archiviato quella versione, ho cercato una insegnante di scrittura, che per prima cosa mi ha fatto scrivere una sinossi generale e poi una per ogni capitolo. Mi ha fatto lavorare sui singoli personaggi e sulle singole situazioni. Mi ha insegnato a mettere vita nelle scene, movimento, a descrivere gli ambienti. Io scrivevo un capitolo alla volta, lei faceva l’editing e io studiavo le sue proposte. È stato veramente di soddisfazione per me perché capitolo dopo capitolo gli interventi in rosso erano sempre di meno. Il personaggio Matilde è ovviamente in parte autobiografico, ma è stato costruito avendo in mente trentacinque anni di lavoro. Potrei fare un elenco di ciò che è autobiografico, ma non credo che abbia né senso né utilità. Questa adesso è la storia di Matilde, il caso Matilde, che consente di partecipare emotivamente a un percorso psicoterapeutico, seduta per seduta, e di vedere che cosa si muove tra una seduta e l’altra. Molti colleghi della SPI mi hanno fatto notare che ormai tantissimi lavorano come il mio dottor Giacchetti. Lo so, leggo i loro libri. Ma ancora tanti lavorano come il mio primo psicoanalista.

 

Ha avuto occasione di dire: «Con Freud ho rotto da tempo. La terza terapia, quella che mi ha, diciamo, liberata, non era di orientamento psicoanalitico.» A quale terapia dunque si riferisce?

 

Per varie ragioni molto gravi io ho avuto bisogno tre anni fa di parlare con qualcuno. Non volevo una persona a orientamento psicoanalitico. L’ho cercata, l’ho trovata. Ho fatto un buon lavoro. Mi ha aiutato molto e, anche se con un certo ritardo, ho capito le radici delle mie patologie.

 

Quali altri progetti ha nel cassetto?

 

Per le stesse ragioni molto gravi che dicevo prima, alla fine del 2020 ho deciso di smettere di lavorare. Ho gradualmente, con molta sofferenza, salutato i miei pazienti, li ho accompagnati verso altre colleghe e colleghi, quelli che volevano ovviamente continuare il loro percorso, e ho chiuso lo studio. Ho dovuto imparare a vivere alla giornata. Giorno per giorno. Quindi più che progetti, nel cassetto ho un antico desiderio: scrivere. Spero di riuscire a scrivere tre storie, tre romanzi, frequentando anche una scuola di scrittura. Scrivere la biografia di mia madre: dal 1913, quando è nata, al 1942, quando a El Alamein è morto il suo primo marito, lasciandola vedova con un bambino di diciotto mesi, lei che era rimasta a sua volta orfana di padre nel 1918. Scrivere la storia della Casa delle donne di Bologna per non subire violenza in forma di romanzo. Infine ci sarebbe Matilde che vorrebbe raccontare alcune storie dei pazienti, che sono stati importanti per lei. 

 

Come vive l’oggi? Cosa le manca soprattutto rispetto al passato?

 

Per le varie ragioni per cui ho avuto bisogno di parlare con qualcuno, l’oggi per me è molto faticoso. Ma al netto di queste fatiche oggettive, mi sento leggera e libera come non mi sono mai sentita. Nonostante la pandemia. Questa leggerezza confligge con i miei sessantanove anni. Quindi molto semplicemente rispetto al passato mi manca soprattutto avere quarant’anni. 

 

Doriano Fasoli

 

(Febbraio 2022)

 

 

 

 

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