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30 gennaio 2024

«Giancarlo Micheli, “Pâris Prassède”», di Luciano Albanese

 


Giancarlo Micheli

Pâris Prassède

Monna Lisa, Roma 2023

644 pp.

€ 25,00

ISBN: 9791254583630

 

Il nuovo romanzo di Giancarlo Micheli Pâris Prassède si apre con un lungo passo di ispirazione manzoniana, dove le innumerevoli subordinate – che richiedono al lettore un’attenzione supplementare per tenere ferma nella memoria la proposizione principale – sono condite con una sottile vena di ironia certamente non estranea al Manzoni, ma più vicina, come già in altri lavori, allo stile di Carlo Emilio Gadda. In questo lungo passo di apertura incontriamo da subito il protagonista dell’opera, Pâris Prassède, che rannicchiato nella coffa della goletta francese Alecton, scruta distrattamente l’orizzonte mentre è immerso nei suoi pensieri. Iniziano qui le avventure/disavventure di Pâris Prassède, che, disceso prontamente in plancia al richiamo del capitano, inciampa in una mostruosa creatura marina appena pescata, calpestandola e rendendola inutile per una auspicata e fruttuosa vendita agli scienziati. La sbadataggine di Pâris Prassède viene ricompensata con numerose frustate, ma il rinvenimento di una creatura marina, che ricorda quella di Ventimila leghe sotto i mari, consente una digressione – la prima di tante – sulla vita della famiglia di Jules Verne e più in generale sulla Parigi del XIX secolo, favorendo così la creazione dello sfondo della prima rimarchevole impresa di Pâris Prassède, la partecipazione alla rivolta della Comune.

 

Pâris Prassède, originario di Haiti, era figlio dell’imperatore Faustin. Era stato lo stesso Faustin ad imporre il nome di Pâris Prassède, un duplice omaggio sia al mitico Paride che alla prassi, l’azione. «In principio era l’azione», diceva anche il Faust di Goethe, e come vedremo la figura di Pâris Prassède fa tutt’uno con le sue azioni. Dopo alterne vicissitudini Pâris Prassède è venduto come schiavo e lavora in una fattoria del Mississippi finché viene riscattato dalla madre e arruolato nella marina francese, nelle cui fila compare appunto in apertura del romanzo. Ben presto congedatosi torna ad Haiti, dove deve fare fronte a molte ostilità e alla fine viene imprigionato per impedirgli di far valere la sua discendenza. Successivamente, dopo la chiusura della prigione haitiana, è trasferito in quella di Sainte-Pélagie a Parigi. Qui incontra Auguste Blanqui, legge Proudhon, e hanno inizio i suoi contatti col movimento operaio europeo, in particolare, inizialmente, coi gruppi clandestini della fazione blanquista. In seguito conosce Paul Lafargue, il creolo originario di Cuba che sposerà Laura Marx. Questo lo conduce a Londra, dove conosce la famiglia di Marx e lo stesso Marx.

12 ottobre 2023

«"Prefazione" (da ‘Alla curva della vita’ di Doriano Fasoli)» di Luciano Albanese



Risulta dalle testimonianze che gli Stoici antichi, soprattutto Crisippo, avevano analizzato a fondo alcuni classici paradossi, in particolare quello del sorite (il mucchio)Quando uno diventa calvo? Quando cade il primo capello o quando cadono tutti? Analogamente potremmo chiederci – e molti in effetti se lo sono già chiesto – quando si comincia a morire, appena nasci o quando finisci di vivere? Montaigne, ricorda Fasoli, diceva che la morte è solo il momento in cui il morire ha termine. Ma, già, agli albori del pensiero occidentale, Aristotele, nel Protrettico, fr. 10 b Ross, diceva che, come i pirati tirreni (gli Etruschi) legavano i vivi ai morti (la tortura inflitta da Mezenzio ai prigionieri nell’Eneide virgiliana), così la nostra anima è legata a un corpo in perpetuo disfacimento fin dall’inizio (un tema, questo, ripreso in lungo e in largo dalla letteratura manichea).

 

Ognuno di noi avverte la costanza del disfacimento del nostro corpo, ma l’istinto di sopravvivenza è forte, e siamo riluttanti ad ammetterlo. Perduti nel gorgo delle incombenze quotidiane, abbiamo inventato, come scrive Heidegger, un «essere per la morte medio e quotidiano» all’interno del mondo del «si dice». In questo mondo «si muore» allo stesso modo in cui si commentano gli ultimi, lontani avvenimenti seduti al caffè. «Si muore» significa che un si anonimo muore. Muore sempre qualcun altro, quindi è come se non morisse nessuno, perché il Si è nessuno.

 

Non è questa la strada imboccata da Fasoli nel suo ultimo, breve, ma densissimo lavoro. Fasoli sembra voler passare attraverso la morte, quella vera, per poi venircela a raccontare. La curva della vita di cui si parla qui non è quella dell’epistrophè plotiniana, in cui l’anima, staccata dal corpo, ritorna alla sua vera patria, quella celeste. No, qui parliamo di una curva senza ritorno, in cui il singolo, nato dalla polvere, polvere ridiventa. E gli ultimi tratti di questa curva sono i più dolorosi, perché mentre percepiamo malinconicamente di essere diventati un corpo che non risponde più ai nostri comandi, assistiamo impotenti alla morte di amici e parenti meno fortunati – ma è poi una fortuna continuare a vivere così? – che hanno lasciato questo mondo. Percorrendo questa curva, scrive Fasoli, ci ritroviamo a sfogliare i morti, ad uno ad uno. Ma non ci arrendiamo alla loro scomparsa, preludio alla nostra, e continuiamo ansiosamente a pianificare il futuro, illudendoci ancora, forse, che l’avvenire teorizzato dalla Sinistra hegeliana – la Filosofia dell’avvenire di Feuerbach, ecc. – sia qualcosa in grado di sconfiggere il vero avvenire a cui siamo destinati fin dalla nascita, quello della morte.

28 febbraio 2022

«Cammina leggera. Conversazione con Maria Chiara Risoldi» di Doriano Fasoli




Maria Chiara Risoldi è nata a Bologna nel 1953. Ha fatto la giornalista dal 1977 al 1988, prima a La città futura, poi a Rinascita. Dal 1988 al 2020 ha svolto la libera professione come psicoterapeuta, facendo parte della Società Psicoanalitica Italiana, dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica Infantile, della Società Italiana di Psicoanalisi e Psicoterapia Sándor Ferenczi e dell’Associazione EMDR Italia. Docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia di Bologna dal 2000 al 2009. Ha collaborato, dalla sua fondazione, con la Casa delle donne per non subire violenza Onlus di Bologna e ne è presidente dal 2016. Ha pubblicato con Manni nel 2003 Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina e con Tombolini nel 2018 #MeToo. Il patriarcato dalle mimose all’hashtag.

 

Doriano Fasoli: Dottoressa Risoldi, quando è nata l’idea di questo romanzo Cammina leggera, pubblicato in questi giorni da Manni?

 

Maria Chiara Risoldi: L’ennesima volta che mi sono sentita rispondere: «No, non ne abbiamo mai parlato». Ho incontrato molte persone che durante il primo colloquio mi avevano raccontato di avere già fatto precedenti esperienze psicoanalitiche, concluse o interrotte per le più diverse ragioni. Sono sempre stata molto attiva, facevo domande, esprimevo le mie opinioni, spiegavo il mio punto di vista, non sono mai stata ligia alla regola del silenzio, se non, forse, un po’ durante il training. Stare in silenzio, parlare… Questioni complesse che sto semplificando molto. Se mi veniva un’idea, una curiosità non la tenevo per me. La proponevo al paziente. Questo modo di lavorare facilitava l’emergere di questioni importanti, di eventi cruciali dell’infanzia e accelerava il cammino. Anche questa è una questione complessa che sto semplificando.

 

Quello che mi ha fatto venire voglia di scrivere un libro è stato il dolore, la rabbia, la delusione delle persone che avevano fatto anni di analisi, anche dieci, perfino venti o più di una analisi e non avevano aperto quella porta, che loro non sapevano che ci fosse e che il loro psicoanalista si era astenuto, secondo la regola, di fargli vedere oppure che nemmeno lui aveva visto, accecato da una teoria che non contemplava l’esistenza di quella porta. Condividere con l’ennesima persona la sofferenza che comportava pensare di avere perso tempo è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Avevo bisogno di scrivere.

4 dicembre 2021

«Doriano Fasoli. “Derive. Schegge di vita in versi e in prosa”» di Luciano Albanese

 


Doriano Fasoli

Derive. Schegge di vita in versi e in prosa

Prefazione di Stefano Santuari

Alpes, Roma 2021

X-139 pp.

€ 15,00

ISBN: 8865317345



Scrittore, critico, giornalista e sceneggiatore, studioso e docente di psicoanalisi e letteratura, Doriano Fasoli si ripresenta ora al pubblico in veste di poeta. Lo stile di Fasoli, sul quale tornerò, ricorda quello delle ‘poesie in prosa’ di Rimbaud, ed è particolarmente in linea col contenuto dell’opera, bene compendiato dal titolo. Come una barca che ha perso gli ormeggi e fluttua alla mercé della corrente – spiega Fasoli – così è la vita. Non si sa da dove si parte, non si sa da dove si viene e non si sa dove si arriva. È un moto che i greci definivano ‘planetario’, ovvero ‘errante’, come quello dei ‘pianeti’, appunto, chiamati così perché nella prospettiva geocentrica apparivano retrogradi. Tuttavia, osserva Fasoli, verso la fine di questo viaggio ‘planetario’ ci si accorge che non è tanto importante la meta – peraltro ignota – ma certe stazioni incontrate lungo la via.

 

Derive è il ricordo, tradotto nella forma poetica, di un centinaio di queste soste, siano esse incontri, interviste, ricordi di viaggio o emozioni vissute interiormente. Si inizia con infanzia e adolescenza, dove emerge la figura della madre e soprattutto del padre, controfigura di Jean Gabin nel Porto delle nebbie. Poi il militare, e successivamente l’incontro decisivo con Stefano Santuari, autore della bella prefazione. Gustosissima la loro irruzione nell’eremo di Camaldoli: un tentativo di fuga mistica dal mondo risolto in tagliatelle ai funghi porcini e telefonate di nascosto alle ragazze, prima della inevitabile cacciata dal convento. Anche Michele Psello, mutatis mutandis, fece un’esperienza simile, prima che il gorgo della vita lo risucchiasse di nuovo. 

 

Esperienze di vita e di morte si intrecciano continuamente nel libro di Fasoli. Dal sofferto ricordo della lunga, eroica sofferenza di Martine alle interviste con Carmelo Bene e Fabrizio De André, entrambi destinati a una vita breve, ma quasi consapevoli di questo, e del fatto che dopo sarebbero vissuti perennemente nel ricordo. Altre figure note emergono dal ‘Vortice di incontri’ che vede sfilare personaggi come Barilli, Maria Luisa Spaziani, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Cesare Brandi, colto nella serenità della bella villa di Vignano di Siena, Emilio Garroni, Giovanni Macchia, Toti Scialoja, Sergio Endrigo, e altri ancora. In Appendice ritroviamo Carmelo Bene, intervistato nel corso del suo memorabile Riccardo III, Emilio Garroni, il cui ricordo mi riporta agli anni della Sapienza, ed Elémire Zolla, il nuovo, aristocratico vate della filosofia perenne di Agostino Steuco. E ancora, l’indimenticabile ritratto di Marguerite Duras, che aveva ribattezzato Fasoli ‘Terence Stamp’.

23 ottobre 2019

«“A sinistra in fondo al corridoio”. Intervista a Patrizia Carrano» di Doriano Fasoli


Patrizia Carrano nella sua casa romana (foto di Roberto Canò, ottobre 2019)

Patrizia Carrano è nata a Venezia dove ha trascorso l'infanzia, ma vive e lavora a Roma. Scrive per la radio e la televisione; come scrittrice ha esordito con Malafemmina. La donna del cinema italiano (1977), cui è seguito Le signore Grandifirme (1978). È autrice, tra l'altro, dei libri La Magnani (1982), Stupro (1983), Baciami stupido (1984), Una furtiva lacrima (1986), Erna Rossofuoco (1989), Cattivi compleanni (1991), L'ostacolo dei sogni (1992). La sua produzione narrativa più recente comprende la raccolta di racconti Notturno con galoppo (1996), Campo di prova (2002) e i romanzi A lettere di fuoco (1999) e Illuminata. I suoi libri sono tradotti in cinque lingue.

È in libreria da due settimane un nuovo romanzo di Patrizia Carrano, dal titolo A sinistra in fondo al corridoio (1000eunanotte). Una saga familiare, che intreccia le vicende spesso rissose di genitori, figli e figliastri, cognate intriganti di stretta osservanza cattolica e anziani professori nostalgicamente legati al ricordo del vecchio Partito Comunista. Il tutto visto e raccontato da una angolatura abbastanza inedita: quella dei domestici che nei decenni si sono avvicendati a lavorare nel vasto appartamento del quartiere Nomentano a Roma dove abitano i protagonisti. 

Doriano Fasoli: Cosa c'è a sinistra in fondo al corridoio?

Patrizia Carrano: Solo la stanzetta della domestica – o del domestico – così come l'aveva previsto l'architetto che nel 1935 ha progettato l'appartamento dove vivono i miei protagonisti: una casa costruita con agio, con salone doppio, stanza da pranzo, studio, ampia zona notte. Ma per la persona di servizio un bugigattolo di due metri per due collocata, appunto, a sinistra in fondo al corridoio.

Poiché questo romanzo racconta la storia di una famiglia attraverso lo sguardo delle persone che hanno lavorato in quella casa, mi sembrava giusto partire da lì.

Da dove nasce la decisione di dar voce ai domestici? 

Perché mi sono resa conto che fra la domestica veneta e semianalfabeta che negli anni Cinquanta andava a servizio quasi gratis, e il badante peruviano, che oggi ha dovuto smettere di fare l'università nel suo paese e cercare lavoro in Europa, corre un intero universo che fino ad oggi la narrativa italiana non ha mai raccontato. Mi è piaciuto osservare, capire e narrare gli intrecci fra colf, badanti, portinaie e i personaggi della famiglia dove hanno lavorato. Il libro si svolge quasi tutto in un appartamento, ma in quelle stanze confluiscono filippini, equadoregni, e prima ancora donne del Frusinate, oppure dell'Appenino marchigiano. Ognuno con il proprio mondo, le proprie necessità. Tutte stipate in una stanzetta due per due.

2 ottobre 2019

«“Elogio delle merci”, tre racconti di Isacco Turina» di Cinzia Baldazzi





La ricchezza delle società nelle quali 
predomina il modo di produzione capitalistico 
si presenta come una “immane raccolta di merci” 
e la merce singola si presenta come sua forma elementare.
Karl Marx, 1867


Nelle tre storie allineate sotto il titolo Elogio delle merci (Coazinzola Press, Mompeo 2018, pp. 302), «il lettore incontrerà le storie minuscole di qualche esistenza umana che si dibatte senza riposo all’ombra maestosa delle merci», spiega l’autore Isacco Turina, «nel loro ciclo infinito di produzione, distribuzione e smaltimento». 

La solitudine e l’alienazione di un’impiegata quarantenne addetta al collaudo manuale di prodotti finalizzati alla vendita («Lo scherzo»); la catastrofica esperienza di decine di clienti costretti in un supermercato a causa dell’infuriare di un uragano («La ginestra»); la vicenda agro-dolce di un giovane disoccupato il quale in una discarica alle porte della città trova il lavoro e l’amore («Il custode»).

In una sapiente architettura semantica “a scala”, Turina introduce nel primo racconto gli oggetti commerciali, destinati nel secondo a essere collocati, distribuiti nel grande circuito, per poi preparare la discesa narrativa della cosalità con l’abbandono e il deperimento nell’ultimo brano. L’utilizzo del climax a lato dell’anticlimax si svolge anche all’interno del plot di ciascuno dei pezzi (mediante effetti di progressione e poi di ingerenza minoritaria dei segni-segnali prescelti).

Tuttavia il maggior interesse critico ha luogo, in base a quanto già accennato, quando il medesimo accorgimento si estende al livello superiore di struttura del libro, alla sua architettura, prendendo le mosse dalla silenziosa spietatezza de «Lo scherzo», innalzando il narrato all’apogeo della distruzione ne «La ginestra», infine sigillando una conclusione “discendente” con «Il custode». Infine, l’ambiente dove si conclude il primo brano introduce lo spazio d’azione del secondo, mentre quest’ultimo termina con una riflessione su quello che sarà l’oggetto centrale del terzo.

Insomma, sembra ancora valido l’avvertimento formulato da Umberto Eco all’alba degli anni ’70 ne Le forme del contenuto: «Una cultura, per organizzare le proprie esperienze, deve nominarle: deve cioè fare corrispondere a elementi di forma dell’espressione elementi di forma del contenuto» e, allo scopo di mantenerne intatta la reciproca efficacia, essi dovranno compiere iter di intensità parallela. 

21 aprile 2019

«Su Carolina Maria de Jesus. Conversazione con Rita Ciotta Neves» di Doriano Fasoli



Rita Ciotta Neves è nata a Roma nel 1949, dove si è laureata in Lettere presso l’Università La Sapienza, concludendo il dottorato in Storia presso l’Università Portucalense Infante D. Henrique. Dal 1980 vive a Lisbona. È stata docente di Italiano all’Università di Coimbra e, nell’ambito del Progetto Erasmus, docente alle Università di Perugia, Arezzo e Lecce. A Lisbona è stata docente di Italiano all’Istituto Italiano di Cultura e di Semiotica e di Teoria letteraria all’Università Lusófona. Oltre a numerosi articoli, saggi e traduzioni, ha pubblicato Italo Calvino – Lições de Modernidade (Edições Universitárias Lusófonas, 2007) e Gramsci – A cultura, os subalternos, a educação (Edições Colibri, 2016). Ha pubblicato in questi giorni, presso la casa editrice Alpes, Carolina Maria de Jesus. Una biografia ai margini della letteratura.

Doriano Fasoli: Professoressa Neves, in quali anni è vissuta Carolina Maria de Jesus?

Rita Ciotta Neves: La scrittrice nasce a Sacramento, una piccola località nello stato di Minas Gerais, nel 1914 e muore a Parelheiros, nella periferia di San Paolo, nel 1977. Carolina vive in un periodo di grandi trasformazioni sociali e politiche nel Brasile. Nel ’45 finisce il periodo dittatoriale di Getúlio Vargas e nel ’64 ne comincia uno ancora più duro, quello della dittatura militare, che finirà solo nell'’85. La sua vita adulta e di scrittrice si svolge dunque tra le due dittature, in quell'intervallo aureo della presidenza di Juscelino Kubitschek, quando il paese si risveglia e vive la speranza e la frenesia di una nuova epoca. Sono gli anni della costruzione di Brasilia e dell'affermarsi delle grandi metropoli, come San Paolo, Rio de Janeiro e Belo Horizonte. E, in campo culturale, gli anni del modernismo, che rivoluziona tutte le forme d'arte, dalla pittura all'architettura, alla letteratura. Ed è anche il periodo della nascita delle favelas, questi immensi agglomerati urbani dove vivono i poveri, i marginali, gli immigrati che arrivano dall'entroterra in cerca di lavoro nelle grandi città. Nel ’60, quando esce il primo libro di Carolina, lo sperimentalismo modernista si è già placato, lasciando il posto a una maggiore sensibilità sociale e a una maggiore ricerca di letteratura impegnata. Questo spiega anche il meteorico successo del diario Quarto de despejo, accolto come una voce che tra le prime arriva da dentro la favela e che è una testimonianza in prima persona dell'ingiustizia sociale e dei problemi razziali del paese.

Anche secondo lei, come affermava Alberto Moravia, «le parole di Carolina hanno una profondità shakespeariana»? 

Moravia scopre Quarto de despejo nel ’60, durante un suo viaggio in Brasile in compagnia di Elsa Morante. Il diario di Carolina Maria de Jesus vive, in quell'anno, il suo momento di maggior successo, è già stato tradotto in 13 lingue e venduto in 40 paesi. Moravia ne rimane affascinato e vede nell'opera di Carolina una forza che avrebbe potuto contribuire alla soluzione dei problemi razziali brasiliani. Con l'espressione «profondità shakespeariana», lo scrittore si riferisce al profondo e acuto sguardo che Carolina rivolge alla complessità della condizione umana. Perché lei descrive la condizione di una donna brasiliana nera e favelada, madre nubile di tre figli, ma la sua storia potrebbe essere quella di una qualsiasi donna ‘subalterna’, proveniente da qualsiasi parte del pianeta, appartenente a qualsiasi cultura. L'osservazione di Moravia mi sembra quindi molto giusta, perché le parole di Carolina sono universali, così come lo sono quelle di Shakespeare.

2 aprile 2019

«Storie nere in stanze d’analisi. Conversazione con Marcello Turno» di Doriano Fasoli



Marcello Turno è psichiatra e psicoanalista, membro dell’International Psychoanalytical Association (IPA) e della Federazione Europea di Psicoterapia Psicoanalitica (EFPP). Appassionato di scrittura sperimentale è stato autore di numerose azioni sceniche per teatro danza, fra cui Pater nosterIchspaltungMetamorphosisSaffeides, realizzate dal Nouveau Theatre du Ballet International di Venezia e da Immagine Danza. Ha scritto per il teatro ElectraIo Cesare, Bruto, forse la rivoluzione, messo in scena con un gruppo di tossicodipendenti inseriti in un programma di recupero, di cui ha curato anche la regia. Ha collaborato alla sceneggiatura del TV movie L’uomo del vento. Ha pubblicato per Alpes Il mancato suicidio di Luigi Pirandello (2013) e per lo stesso editore, in questi giorni, Storie nere in stanze d’analisi. Vive e lavora a Roma.

Doriano Fasoli: Dottor Turno, Storie nere in stanze d’analisi. Un titolo forte! Spaventa un po’. Di che si tratta?

Marcello Turno: Sono cinque racconti, organizzati in un volume il cui indice richiama volutamente a un trattatello di psicoanalisi: «Una questione di transfert», «Analisi interminabile», «La seduta d’analisi», «Enactment» e «Psicoanalisi futura». Più che spaventare vuole essere un sovversivo, fuori dagli schemi tradizionali. Rompere la consuetudine a cui ci ha abituato In Treatment. Nei miei racconti il protagonista è la relazione paziente-analista. C’è sempre qualcosa che porta ad agire o l’uno o l’altro.

Analisti o pazienti che diventano killer, appunto. Non teme di attirarsi le ire dei suoi colleghi?

A leggerli bene i racconti ironizzano sui tic e gli stereotipi degli analisti. L’ho già detto in una intervista televisiva: vediamo se sanno sorridere. A volte si prendono troppo sul serio e fino ad ora, escluso Woody Allen e Moni Ovadia, non mi sembra che ci siano altri a prenderli in giro.

Nel suo libro condensa il paradigma indiziario della crime investigation con teorie psicoanalitiche. A detta di chi ha letto Storie nere in stanze d’analisi riesce a farlo egregiamente. Sembra quasi che siano casi clinici. Come mai questa idea?

Sono convinto che un buon psicoanalista debba essere un investigatore della mente. Comunque è una deriva autobiografica. Da ragazzo, ma anche in età adulta, sono stato un accanito lettore di letteratura gialla e nera e molte altri generi ancora. Dove mi è possibile dissemino omaggi. Ad esempio rimasi colpito che Raymond Chandler stette giorni interi per decidere se usare una frase: «l’ombra […] gli tagliò la faccia». Io questa frase l’ho usata. È diventata «l’ombra gli tagliò la testa», è un omaggio a lui. Non vedevo l’ora. A mo’ di mosaico ho incastrato il background culturale con teoria e pratica psicoanalitica e sono nati i racconti.

30 luglio 2018

«“Una perfetta vicinanza”, romanzo di Fabio Ciriachi» di Cinzia Baldazzi



Fabio Ciriachi
Una perfetta vicinanza. Romanzo
Postfazione di Giorgio Patrizi
Coazinzola Press, Mompeo (RI) 2017
294 pp.
€ 18,00
ISBN: 9788894175394


A Mantova, nelle Fruttiere di Palazzo Te, nei giorni precedenti il vernissage, un visitatore ammira un maestoso quadro intitolato L'uomo che resta, realizzato con colori dotati di una struttura chimica adeguata a reagire alle condizioni ambientali e mutare in maniera imprevedibile. Il lavoro sarà di annotare qualunque modifica nell'arco di due mesi.

Al centro scorgiamo raffigurato un sessantenne seduto a un tavolino, intento a scrivere a mano su un foglio di carta srotolato a terra, con le estremità spinte nello spazio del dipinto fino ai rispettivi lati. A sinistra, una madre con bambino, a destra, una giovane donna.

In tale atmosfera esordisce Una perfetta vicinanza, ultimo romanzo dell’autore romano Fabio Ciriachi e, quasi a evocare agli occhi del lettore l'immaginaria opera o ulteriori rappresentazioni idonee e pertinenti, suggerisce il bianco di Campigli e gli sfondi urbani di Sironi. Personalmente avrei pensato, in aggiunta, all'eleganza delle sagome di Casorati, ma senza traccia dei tormenti freudiani di Fausto Pirandello o della drammaticità di Annigoni.

La caratteristica cangiante della tela rende il narrato lunghissimo e in progress. Leggendone, quindi, i fogli riempiti quotidie, lo studioso viene a sapere della storia di Cristiano Distansi e Vanessa Lenieri, il rapporto nato online e proseguito nella vita reale, la famiglia di lui (l'ex-moglie Arlette e il figlioletto Massimo) trasferita a Bruxelles, le vicissitudini della relazione con l’esito di una dilagante solitudine.

L’incipit si inaugura nell’aura di un’eccelsa dicotomia della riflessione filosofica elaborata nel celebre dialogo di Platone, intorno al 370 a.C., quando Socrate spiega a Fedro:

Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile per la verità, alla pittura: infatti, le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio; e così fanno anche i discorsi. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa. E una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla.1

Nel dipinto mantovano le figure «ti stanno di fronte come se fossero vive» e non “parlano” in una scala normativa (né potrebbero!), nonostante, in linea con i «discorsi» platonici, il testo redatto dal vecchio «rotola da per tutto»: ricade oltre i bordi del tavolo, provenendo dalla cornice di sinistra e, giunto all’angolo di destra, consente di essere “letto”.

4 luglio 2018

«Seconda spiaggetta dietro il castello di Lerici», un racconto di Nicola d’Ugo



Che bella la bellezza femminile. Ieri me ne stavo sulla spiaggetta appartata accanto a sette ragazze a seni nudi una più bella dell’altra. La più affascinante era una ragazza dal viso da selvaggia, piccoletta, coi capelli lunghi che le coprivano i seni. Non che avesse brutti seni, erano belli, ma il fatto che i capelli glieli coprissero la rendeva ancora più bella. Era robustina e un bel po’ dopo, quando si è rivestita, mi sono voltato a seguirla con lo sguardo andar via nel suo vestito lungo, bianco e traforato. Mi sembravano le donne del mare descritte da Fosco Maraini, benché fossero italiane e non giapponesi, abbronzate e simpaticissime. La loro maggiore preoccupazione, oltre a camminare nell’acqua vicino alle rocce, era quella di rianimare un pesciolino. Una di loro aveva infatti trovato un pesciolino a riva e credeva che fosse morto. Di fatto, nella sua mano era esanime. Questo le dispiaceva, naturalmente. Le ricadeva in acqua, cercava di raccoglierlo, ma purtroppo era morto. Che peccato.

Recuperato, lo accarezzava nel palmo della mano, con un’altra ragazza che guardava il pesciolino, dispiaciuta anche lei, e speranzosa che forse non fosse morto. Accarezza e accarezza, massaggia e massaggia morbidamente, il pesciolino ha cominciato a riprendere i sensi. Coi polpastrelli e col palmo gentile della ragazza, che parlava di massaggio cardiaco, il pesciolino si è ripreso e lo ha rimesso nell’acqua. Ma dopo pochi istanti sembrava che non nuotasse, che fosse un leggero peso mosso dal lembo d’acqua sulla rena. Allora dispiaciuta ha detto che era morto, e lo ha ripreso in mano. Aveva bisogno di un massaggio, di tenerezza, e, oltre alla tenerezza, ci ha aggiunto colpettini al petto perché il suo cuore riprendesse a battere, premendolo. Temevo che lo schiacciasse.

L’amica con gli occhi di fuori cercava di collaborare col solo potere dello sguardo, che è un potere della speranza, dell’augurio e della collaborazione attenta. Stavo per dirle che era bene non lo tenesse troppo fuori dell’acqua, che rischiava di non respirare, quando una sua amica, che si aspergeva d’acqua il petto per rinfrescarsi i seni dalla calura e sentirne il piacere sui cicciosi capezzoli, mi ha anticipato, per cui la fanciulla, che non ci pensava, si è scusata per la dimenticanza, rimettendo il pesciolino nell’acqua. Ma che fine ha fatto il pesciolino?

Ad un certo punto il cucciolotto di pochi centimetri, punteggiato nelle tenere squame, ha ripreso vitagrazie a queste ragazze,ha iniziato a muoversi nell’acqua, se ne è andato per conto suo. Ha incontrato le sue benefattrici in un recesso di spiaggia tra le rocce, e ha ripreso la propria vita e se l’è portata via tra le onde. Che brave, belle, simpatiche e sensibili ragazze. Che spettacolo di grazia in un frangente del pomeriggio lericino. Quando le ragazze si sono rivestite, se ne sono andate, lasciando dietro, ancora seminuda, una di loro. Ma un’amica, che stava per andarsene, è tornata indietro ad aspettarla, sedendosi sulla sabbia.

21 giugno 2018

«Banco di prova. Intervista a Patrizia Carrano» di Doriano Fasoli



Patrizia Carrano è nata a Venezia ma vive a Roma. Ha scritto per molti giornali, fra cui Sette, il magazine del Corriere della Sera, per la televisione, il teatro e la radio. Fra i suoi libri più noti La Magnani. Il romanzo di una vita (Rizzoli, 1992), Notturno con galoppo (Mondadori, 1996), Illuminata (Mondadori, 2000), Donna di spade (Rizzoli, 2005), Un ossimoro in lambretta (ItaloSvevo, 2016). È stata tradotta in cinque lingue.
Appena uscito per i tipi ItaloSvevo, Banco di prova. Indagine su un delitto scolastico rievoca un fatto di cronaca che ha avuto per protagonista un ragazzo di nome Claudio Liberati, studente dello storico liceo romano Torquato Tasso all'inizio degli anni Sessanta. Ne parliamo con l'autrice Patrizia Carrano.

Doriano Fasoli: Prima domanda, banale ma inevitabile. Com'è nata l'idea di questo romanzo breve?

Patrizia Carrano: Sono stata anch' io una allieva del Tasso negli anni in cui Claudio ha fatto il ginnasio e la prima liceo. Ma avevo volutamente seppellito in un angolo della mia memoria la sua vicenda, che pure mi aveva scosso profondamente. Più di mezzo secolo dopo sono tornata in quel liceo a tenere una lezione per un concorso letterario fra studenti e l'odissea esistenziale ed emotiva di Claudio mi si è parata davanti. Non potevo non scriverne, non potevo non cercare di capire il segno e il senso di quanto era accaduto.

Il sottotitolo del libro è Indagine su un delitto scolastico. Un delitto presuppone un colpevole. Sei riuscita a scoprirlo?

Direi che ho scoperto una congiura. Quella del mondo degli adulti nei confronti della giovinezza. Quella di una scuola autoritaria e non autorevole. Quella di un Paese – l'Italia del boom – che non era capace di ascoltare voci dissonanti. Quella di genitori ciecamente decisi a ottenere il «pezzo di carta» per i loro figli, allo scopo di salire sull'ascensore sociale. A quell'epoca l'Italia aveva un Pil che cresceva del 9% all'anno e un tasso di disoccupazione del 3%. Ora la pensiamo come un Paese felice e risolto. Non era così.

Tu parli di dati. Eppure il racconto ha un tono assolutamente letterario.

Era quello che volevo. Ho cercato di entrare letterariamente nel cuore di una classe di adolescenti dei primi anni Sessanta. Di percepire il disagio, la sofferenza che alcuni di loro hanno provato, e di farli miei. Non volevo scrivere un racconto a tesi. Non l'ho mai fatto, in nessuno dei miei libri.

20 dicembre 2017

«”Libro Rotto”. Intervista a Luca Buoncristiano» di Doriano Fasoli



Luca Buoncristiano è nato a Roma. Giornalista pubblicista, ha lavorato per RAI TV e Radio RAI e ha pubblicato per diverse testate nazionali. Dal 2002 al 2004 ha collaborato con la fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene, curando la catalogazione del lascito artistico di Bene. È coautore, con Alessandra Amitrano, in qualità di illustratore, del libro Mary e Joe (Fazi, 2007). Nel 2012 ha curato, per il quadrimestrale Panta, un’uscita monografica, edita da Bompiani, che raccoglie interviste a Bene. Libro Rotto, cui si incentra la presente conversazione, è il suo primo romanzo, pubblicato in questi giorni per i tipi El Doctor Sax: Beat & Books, con prefazione di Sandro Veronesi.

Doriano Fasoli: Buoncristiano, come è nata l'idea di questo romanzo? 

Luca Buoncristiano: Il libro nasce come evoluzione della mia creatura Joe Rotto, nata ormai 12 anni fa sul web e esistita fino ad oggi solo in forma di illustrazione aforistica o filosofica. Ho sempre considerato Joe Rotto al centro di un'azione nelle sue affermazioni. Ecco, il romanzo è tutto quello che manca al disegno.  Il romanzo è Joe Rotto in azione ed è la creazione di un mondo. Ho sempre comunque considerato le mie tavole come delle illustrazioni letterarie, la mia ambizione era quindi quella di arrivare qui, unendo testo e disegno. Dove il disegno non è illustrazione ma altro testo a sé. Sono due segni diversi. Ho realizzato un lavoro che è parola, visione e voce insieme.

Puoi dirci, come è costruito? 

Come una vertiginosa caduta verso un precipizio infinito.

Quali sono i tuoi riferimenti…

Charles Bukowski, Charles Addams, Charles Schulz e Charles Manson.

A quale tipo di pubblico hai pensato durante la stesura?

A me stesso. Non l'ho mai considerato il pubblico. Detesto l'idea di un pubblico, al contrario cerco le persone.  Pur essendo consapevole di aver realizzato un'opera pop, non ho mai perso di vista il mio piacere e il mio divertimento. Ho scritto il libro che avrei voluto leggere.

Quali sono le tue predilezioni letterarie?

Tante. Irriassumibili. Amo molto gli scrittori americani, per esempio Henry Miller, Hunter S. Thompson, Pynchon, Burroughs, Bret Easton Ellis e così via.

Ma sono circondato da molti fantasmi, credimi.

E quali quelle musicali…

Anche qui si può aprire un mondo. Ho 1200 vinili. Posso dire che per il libro ho saccheggiato Lou Reed che trovo superiore a Bob Dylan come autore di testi, amo Bowie alla follia e che il Soul degli anni ’60 mi mette in pace con il mondo.

Quanto tempo hai impiegato a scriverlo?

Quattro anni. Ma è di più che ci giro intorno. Però negli ultimi quattro anni mi ci sono messo dentro, con fatica e dolore, e l'ho tirato fuori.

Sei al passo con la letteratura odierna?

No. Zero direi.


(Dicembre 2017)