29 ottobre 2017

«Corpo e carattere. Conversazione con Adriana Bianchin» di Doriano Fasoli




Adriana Bianchin, laureata in Filosofia, allieva della Scuola in ABOF di Milano, dirige i propri studi sulla corporeità nel rapporto cultura-società, in particolare rispetto alla relazione corpo-mente. Ha pubblicato in questi giorni (per Mimesis) il volume Corpo e carattere. Il dramma del contatto a partire da Reich.

Doriano Fasoli: Bianchin, quando è nato il suo incontro con Wilhelm Reich? Perché il suo particolare interesse per questa figura?

Adriana Bianchin: Il mio incontro con Wilhelm Reich si può dire sia nato su di una bancherella di bric-à-brac, nel corso di una breve vacanza in montagna. Vi avevo scovato per caso il libro Genitalità, una delle sue opere giovanili: poiché non conoscevo ancora la figura di questo studioso, sono stata semplicemente incuriosita dal titolo. Nel leggere il testo, a tratti mi sono persino commossa, poiché mi son sentita profondamente compresa nella mia storia di persona che in passato aveva sofferto per i suoi conflitti di probabile natura nevrotica. In effetti, qualche tempo prima avevo sentito il bisogno di fare un po' d'ordine e chiarezza in me stessa, perciò ero entrata in analisi. Quasi contemporaneamente, proprio io che, da ragazza, mi ritenevo ‘allergica’ a ogni attività sportiva, preferendo di gran lunga i miei beneamati libri e alimentando, sin da allora, una certa naturale tendenza all'introspezione, ho avvertito forte lo spontaneo e inspiegabile bisogno di intraprendere un'attività corporea. Mi sono quindi rivolta allo Yoga, pensando forse a dei movimenti dolci e rilassanti che mi facessero magari fare poca fatica, salvo scoprire, nell'apparente staticità degli asana, ossia le diverse posture, un potentissimo mezzo di trasformazione con cui, in un certo senso, avevo trovato il modo di tradurre corporalmente gli aspetti problematici della mia stessa personalità, aspetti problematici che andavo dipanando con l'aiuto del mio valido analista.

Ho quindi proposto al mio maestro e mentore, Romano Màdera, una ricerca su di una figura che coniugasse lo studio di queste mie due fondamentali esperienze, individuandola in Alexander Lowen, notoriamente il padre della bioenergetica. È stato quindi Màdera a suggerirmi un confronto fra il lavoro di Lowen e quello del suo maestro Wilhelm Reich, ed è stata una gioia, per me, scoprire che si trattava proprio di quel Reich. Infine, come ho scritto nell'introduzione al mio libro Corpo e carattere. Il dramma del contatto a ripartire da Reich (Mimesis), è stato da subito giocoforza dover approfondire anche lo studio del pensiero freudiano, dal momento che, per comprendere davvero quello del suo dotato allievo, appunto Wilhelm Reich, è inevitabile conoscere abbastanza bene la psicoanalisi, di cui lo stesso Reich si è sempre considerato, e a ragione, l'unico vero continuatore.

Qual è l’attualità del suo pensiero?

Premesso che, proprio fra la generazione di coloro i quali hanno trascorso la loro giovinezza aprendosi alle idee reichiane, ho spesso osservato delle reazioni di scetticismo, quasi una sorta di déjà-vu più deluso che nostalgico, a me pare che il pensiero di Reich sia più attuale che mai per gli stessi motivi che ne hanno decretato l'ambiguità della sua trascorsa fama. Mi spiego meglio. A partire da una prima falsa evidenza circa la cosiddetta rivoluzione sessuale, e quindi la liberazione sessuale degli individui, quelle che soltanto una sessantina d'anni fa erano delle forti repressioni, e conseguenti rimozioni presenti nella nostra società, oggi pare siano del tutto scomparse, al punto da tramutarsi addirittura in comportamenti di segno opposto; se però ci interroghiamo profondamente circa la capacità reale di godere appieno delle nostre esistenze, di cui la sessualità, per lo stesso Reich, è soltanto uno degli aspetti, sebbene il più importante, dobbiamo constatare che il piacere di vivere non parrebbe poi così diffuso. Lo testimoniano i disordini alimentari e/o del sonno, l'insoddisfazione amorosa e lavorativa generalizzata, disturbi ritenuti in fondo comuni, e particolarmente legati allo stress, come ad esempio la gastrite e il famigerato binomio colesterolemia –pressione alta, atteggiamenti variamente depressivi, oppure larvatamente violenti, salvo venire allo scoperto quali fatti di cronaca. Un individuo che soffre di tali patologie, tutto sommato ritenute ancora nella ‘norma’, e comunque il minimo della pena per una vita appunto stressante come molte di quelle occidentali, non è che poi, nell'intimità, riesca magicamente a dare il meglio di sé.

12 ottobre 2017

«"Ulisse" polifonico. L'irriducibile dialogismo di James Joyce» di Nicola d'Ugo




Ulisse. James Joyce. Già pronunciare i due nomi mette paura! Ma poi diventa motivo di orgoglio. Un'opera letteraria cosí importante, cosí complessa… Complessa, sí: difficile da seguire forse non proprio. Difficile piuttosto da ultimarne la lettura. Ma a lettura finita... Non si ricomincia da capo: ciò che conclude illumina l'inizio, ci dice che Stephen Dedalus, giunto a pochi passi da Molly proprio a casa sua in Eccles Street, rinuncia ad incontrarla. Mentre forse era tutto lí quel che cercava: la poesia, il senso della vita, l'ombelico del mondo, il tempio d'Apollo a Delfi.

Strana poesia però, cosí sensuale, cosí carnale che, trattandosi di Molly, «[y]our head it simply swirls», «la testa te la fa proprio girar» (U 4.438), direbbe Bloom. Sí, ti fa proprio girar la testa: piú dionisiaca che apollinea, non fosse per quella casa che la ospita, punto fermo del lungo inconcludente andare a zonzo di Leopold. O forse non è cosí, sono solo impressioni che vengono a galla a me lettore, come nell'inizio di «Sirene»: frasi smozzicate, zampilli della memoria, rigurgiti della frase. I «frammenti […] puntellati contro le mie rovine» di T. S. Eliot, le «inutili macerie del tuo abisso» montaliane, le «cascatelle trattenute da un dito» di Zanzotto.

Che poi non è la stessa cosa. Parlare di correlativi oggettivi è troppo facile. È una nozione estetica, non una poetica e ancor meno un linguaggio. Se Montale lavora sull'esperienza individuale, Zanzotto fa giochi con gli oggetti, evocando scenari impraticabili ma suggestivi. Ed Eliot? Lui lavora con le voci, gli stili, le brusche interruzioni: almeno ne La terra desolata (1922). Testimonia di un soggetto frantumato: né soggetto sconsolato, né oggetto pervasivo.

Voci, stili, brusche interruzioni… sembra di essere nell'Ulisse. Ma l'Ulisse ha un sostrato comune, una storia che fa da sfondo, un filo continuo che porta da un luogo a un altro i personaggi. Di interruzioni ce ne son molte, ma i personaggi non si sognano di apparire dal nulla, di essere in due posti diversi allo stesso momento, di saltellare in avventure di tre secoli, salve le stramberie di «Circe», che sono tutto un altro paio di maniche. I personaggi stanno buoni buoni al posto loro: chi nella Torre, chi nell'Ormond Bar, chi a portare a spasso i bambini sulla spiaggia. La giornata è solo una, il 16 giugno 1904. Il luogo è Dublino e non un altro. Terra desolata? No, qui c'è un romanzo bell'e buono, fatto di fabula ed intreccio classici.

Quello che colpisce qualsiasi lettore di Ulisse sono tre caratteristiche: il velo d'oscurità che avvolge le situazioni, l'erudizione dell'autore e il cambiamento di stile in cui sono scritti gli episodi. Se c'è qualcosa che rende familiare un testo, nel prosieguo di una lettura lunga come l'Ulisse, è la chiave interpretativa. Incontrato uno stile, per quanto arduo sia, la buona volontà di chi legge può pacificarsi almeno in questo: di questo libro apprezzo il suono o le immagini o qualche idea sul mondo. Paul Valéry avrebbe seguito la serie: se il testo suona bene allora le immagini, se queste funzionano cerchiamone un senso. 

6 ottobre 2017

«La pratica del colloquio clinico. Un’intervista a Massimo Recalcati» di Doriano Fasoli



Massimo Recalcati, tra i più noti psicoanalisti in Italia, è membro analista dell’Associazione lacaniana italiana di psicoanalisi e direttore dell’IRPA (Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata). Insegna alle Università di Pavia e di Verona. Le sue numerose pubblicazioni sono tradotte in diverse lingue. Nelle edizioni Raffaello Cortina ha pubblicato con successo L’uomo senza inconscio (2010), Cosa resta del padre? (2011), Ritratti del desiderio (2012), Non è più comeprima (2014), oltre a due volumi su Jacques Lacan (2012 e 2016).

Doriano Fasoli: Perché hai deciso oggi di dare alle stampe (presso Raffaello Cortina) questo libro che raccoglie scritti giovanili: La pratica del colloquio clinico?

Massimo Recalcati: In realtà non si tratta di scritti ma di lezioni orali. Questo libro raccoglie un intero corso universitario che tenni ad Urbino nel 1999 presso la Facoltà di Psicologia. Il fatto che mi sia deciso solo oggi a pubblicarne una versione scritta, risultato di una operazione di sbobinatura fatta allora dai alcuni miei allievi, dipende da una piccola fortuna che non ha smesso di circondare quel corso. Era in quella Università il primo corso clinico che veniva dedicato a Lacan. Fu per me l’occasione – insegnando Teoria del colloquio clinico – di mettere alla prova della pratica la dottrina di Lacan. Di offrire agli studenti non tanto l’immagine di un Lacan teorico della struttura, del linguaggio, del soggetto, eccetera, ma quella di un Lacan clinico. Il successo immediato e imprevisto delle prime dispense del corso continuò stranamente negli anni. Non avevano la forma di un libro ma quella fatta in proprio tipica, appunto, delle dispense universitarie.  La loro piccola fortuna è che per tutti questi anni non hanno mai smesso di circolare di mano in mano. Al punto che mi sono deciso a trasformarle in un libro che omaggia quei formidabili anni… Il lettore troverà la mia voce che commenta la voce di Lacan. Si tratta di lezioni ricche di clinica, di esperienza, di casi che la passione di quegli anni riversava in aula come fosse un vento di primavera o un vino prelibato… Sarebbe davvero difficile raccontare quella atmosfera che si creava spontaneamente in ogni lezione. L’aula magna dei Collegi strapiena, gli studenti seduti ovunque, un silenzio assoluto, una fame collettiva di psicoanalisi… È stato per me molto emozionante essere per questi giovani studenti un ponte che li portava verso lo studio di Lacan. In fondo è per me, per quello che sono stato in quegli anni e anche per loro, per quei volti che non dimentico, che mi sono deciso dopo tutto questo tempo a non disperdere quella esperienza e di tradurla in un libro.

Quando avvenne il tuo incontro con il pensiero di Lacan e in che senso ti ha cambiato la vita?

Dopo la discussione della mia prima laurea in filosofia. Passai l’estate a Milano a leggere Lacan nella grande aula semideserta della Biblioteca Sormani. Lessi per primi gli Scritti. Una lettura difficile, direi impossibile. Ma sufficiente per causare il mio desiderio di sapere e il mio amore per Lacan. Gli Scritti sono un condensato densissimo del lavoro in miniatura che egli compie di anno in anno nei suoi Seminari. Imparai abbastanza presto che senza la conoscenza dei Seminari gli Scritti sono, se non proprio inaccessibili, almeno mutilati di una parte sotterranea che dà loro linfa. Ho già detto da qualche parte che la mia prima impressione leggendo Lacan fu quella di imbattermi in un muro. Solo più tardi ritrovai – nel Seminario XX – il suo neologismo che accosta il muro all’amore: amur. Di questo in effetti si trattò: il mio incontro con il testo di Lacan fu un incontro d’amore; dunque, come tale, destinato a lasciare un segno, a durare, a restare nel tempo. L’amore non è infatti, come ricorda Lacan stesso, attraverso Paul Éluard, il «duro desiderio di durare»? «Ancora» – encore – non è forse la sua parola fondamentale? Sono rimasto fedele a Lacan, al mio amore per Lacan in tutti questi anni, ma a mio modo. La fedeltà nell’amore non è mai la ripetizione monocorde di un’abitudine, di un linguaggio che diventa codice dispotico, dogmatico, autoritario, privo di pensiero. Uno dei grandi insegnamenti di Lacan è l’incoraggiamento all’eresia come forma radicale dell’eredità. «Fate come me, non imitatemi», usava dire ai suoi allievi più scolasticamente fedeli. Nel rapporto con l’insegnamento di Lacan era ed è in gioco per me il grande tema dell’eredità. Innanzitutto di quella freudiana. Lacan ne ha dato testimonianza: ereditare non significa vivere di rendita ma rischiare il proprio, riconquistare, fare nostra quella che è stata l’impresa di Freud. Per questo ai miei occhi nulla tradisce più il messaggio di Lacan della necrofilia dogmatica di alcune scuole che si rifanno al suo pensiero. Essere lacaniano per me non è una dichiarazione settaria di fede, ma l’esperienza, sempre rinnovata, di una fedeltà amorosa che sa durare nel tempo. Anche quando, come mi è accaduto negli ultimi anni, il mio lavoro mi ha portato su strade che Lacan non ha mai frequentato.