Massimo Recalcati, tra i più noti psicoanalisti in Italia, è membro analista dell’Associazione
lacaniana italiana di psicoanalisi e direttore dell’IRPA (Istituto di ricerca
di psicoanalisi applicata). Insegna alle Università di Pavia e di Verona. Le
sue numerose pubblicazioni sono tradotte in diverse lingue. Nelle edizioni Raffaello
Cortina ha pubblicato con successo L’uomo senza inconscio (2010), Cosa resta del padre? (2011), Ritratti del desiderio (2012), Non è più comeprima (2014), oltre a due volumi su Jacques Lacan (2012 e 2016).
Doriano Fasoli: Perché
hai deciso oggi di dare alle stampe (presso Raffaello Cortina) questo libro che
raccoglie scritti giovanili: La pratica del colloquio clinico?
Massimo
Recalcati: In realtà non si tratta di scritti ma di lezioni orali. Questo libro
raccoglie un intero corso universitario che tenni ad Urbino nel 1999 presso la
Facoltà di Psicologia. Il fatto che mi sia deciso solo oggi a pubblicarne una
versione scritta, risultato di una operazione di sbobinatura fatta allora dai
alcuni miei allievi, dipende da una piccola fortuna che non ha smesso di
circondare quel corso. Era in quella Università il primo corso clinico che
veniva dedicato a Lacan. Fu per me l’occasione – insegnando Teoria del
colloquio clinico – di mettere alla prova della pratica la dottrina di Lacan.
Di offrire agli studenti non tanto l’immagine di un Lacan teorico della struttura,
del linguaggio, del soggetto, eccetera, ma quella di un Lacan clinico. Il
successo immediato e imprevisto delle prime dispense del corso continuò stranamente
negli anni. Non avevano la forma di un libro ma quella fatta in proprio tipica,
appunto, delle dispense universitarie. La
loro piccola fortuna è che per tutti questi anni non hanno mai smesso di
circolare di mano in mano. Al punto che mi sono deciso a trasformarle in un
libro che omaggia quei formidabili anni… Il lettore troverà la mia voce che
commenta la voce di Lacan. Si tratta di lezioni ricche di clinica, di
esperienza, di casi che la passione di quegli anni riversava in aula come fosse
un vento di primavera o un vino prelibato… Sarebbe davvero difficile raccontare
quella atmosfera che si creava spontaneamente in ogni lezione. L’aula magna dei
Collegi strapiena, gli studenti seduti ovunque, un silenzio assoluto, una fame collettiva
di psicoanalisi… È stato per me molto emozionante essere per questi giovani
studenti un ponte che li portava verso lo studio di Lacan. In fondo è per me,
per quello che sono stato in quegli anni e anche per loro, per quei volti che
non dimentico, che mi sono deciso dopo tutto questo tempo a non disperdere quella
esperienza e di tradurla in un libro.
Quando avvenne il tuo
incontro con il pensiero di Lacan e in che senso ti ha cambiato la vita?
Dopo
la discussione della mia prima laurea in filosofia. Passai l’estate a Milano a
leggere Lacan nella grande aula semideserta della Biblioteca Sormani. Lessi per
primi gli Scritti. Una lettura
difficile, direi impossibile. Ma sufficiente per causare il mio desiderio di
sapere e il mio amore per Lacan. Gli Scritti
sono un condensato densissimo del lavoro in miniatura che egli compie di anno
in anno nei suoi Seminari. Imparai
abbastanza presto che senza la conoscenza dei Seminari gli Scritti sono,
se non proprio inaccessibili, almeno mutilati di una parte sotterranea che dà
loro linfa. Ho già detto da qualche parte che la mia prima impressione leggendo Lacan fu quella di imbattermi in un muro. Solo più tardi ritrovai – nel Seminario XX – il suo neologismo che
accosta il muro all’amore: amur. Di
questo in effetti si trattò: il mio incontro con il testo di Lacan fu un
incontro d’amore; dunque, come tale, destinato a lasciare un segno, a durare, a
restare nel tempo. L’amore non è infatti, come ricorda Lacan stesso, attraverso
Paul Éluard, il «duro desiderio di durare»? «Ancora» – encore – non è forse la sua parola fondamentale? Sono rimasto
fedele a Lacan, al mio amore per Lacan in tutti questi anni, ma a mio modo. La
fedeltà nell’amore non è mai la ripetizione monocorde di un’abitudine, di un
linguaggio che diventa codice dispotico, dogmatico, autoritario, privo di
pensiero. Uno dei grandi insegnamenti di Lacan è l’incoraggiamento all’eresia
come forma radicale dell’eredità. «Fate come me, non imitatemi», usava dire ai
suoi allievi più scolasticamente fedeli. Nel rapporto con l’insegnamento di
Lacan era ed è in gioco per me il grande tema dell’eredità. Innanzitutto di quella
freudiana. Lacan ne ha dato testimonianza: ereditare non significa vivere di
rendita ma rischiare il proprio, riconquistare, fare nostra quella che è stata
l’impresa di Freud. Per questo ai miei occhi nulla tradisce più il messaggio di
Lacan della necrofilia dogmatica di alcune scuole che si rifanno al suo
pensiero. Essere lacaniano per me non è una dichiarazione settaria di fede, ma
l’esperienza, sempre rinnovata, di una fedeltà amorosa che sa durare nel tempo.
Anche quando, come mi è accaduto negli ultimi anni, il mio lavoro mi ha portato
su strade che Lacan non ha mai frequentato.
Cosa ne pensi delle
analisi via Skype?
Come
analista mi rifiuto di fare non solo sedute analitiche ma anche supervisioni
via Skype. L’analisi non è una esperienza sterilmente intellettuale perché
implica sempre la presenza dei corpi; del corpo dell’analista e di quello
dell’analizzante. Non c’è esperienza del corpo più radicale di quella che si
può fare in un’analisi. Il fatto che il corpo dell’analista sia costretto ad una
presenza silenziosa non annulla affatto l’alterità di questa presenza. Per l’analizzante
questa presenza è indice dell’ingovernabile. È indice dell’ingovernabilità del
corpo pulsionale. In questo senso il silenzio del corpo dell’analista è un
segno del reale. È indice di quella alterità interna che realizza la presenza
stessa dell’inconscio. Se invece – come accade nelle analisi via Skype – si cancella
il corpo dell’analista (il reale della sua presenza), diventa molto difficile
restituire l’impatto «traumatico» di questo incontro. L’alterità dell’analista
– la sua ingovernabilità – rischierebbe di venire filtrata, schermata,
neutralizzata dal mezzo tecnologico. Il rumore del respiro, le interpunzioni,
il taglio della seduta, l’incontro vivo e irripetibile con il paziente, il
suono materiale della lingua, l’esperienza fisica del silenzio e del suo peso… Tutto
questo rischierebbe di evaporare nella superficie astratta di uno schermo…
Perché il pensiero di
Lacan appare a molti ancora così oscuro?
Esiste
un’oscurità voluta, programmata, decisa nel testo di Lacan. Soprattutto nel
testo scritto. Si tratta, come ha spiegato, dello sforzo di rendere la sua
parola omologa all’oggetto verso la quale essa si dirige, ovvero l’inconscio.
La tortuosità dello scritto mima la tortuosità del suo oggetto, dell’inconscio.
La scrittura di Lacan pulsa, riflette, vive di questa mimesi. Si tratta di
rompere ancora una volta lo schermo difensivo di una lingua già codificata,
imbalsamata in concetti reificati, morta, fascista, come direbbe Barthes. La
scrittura e la parola di Lacan reagiscono contro la psicoanalisi post-freudiana
colpevole di allontanare la teoria dall’esperienza dell’analisi. Anche per
Lacan, come accade per il suo più importante allievo italiano, Elvio
Fachinelli, la psicoanalisi dopo Freud ha assunto le forme difensive di una
vera e propria nevrosi ossessiva. Si trattava di scongiurare l’aleatoria e
l’alterità del reale, quel centro esterno al linguaggio che rende ogni mossa
della teoria e della lingua una attività di fuga solo difensiva dalla sua
asperità. Lacan vuole invece inventare una nuova lingua per la psicoanalisi.
Una lingua che sappia tenere conto del reale. Ma cosa può essere una lingua
ustionata dal reale? È la lingua stessa di Lacan. Una lingua che non esce
semplicemente dal corpo, ma che è fatta di corpo. Lingua erotica, pulsionale,
impastata con il reale. Una lingua al
tempo stesso rigorosa, matemica, che trova nella logica e persino nella
matematica e nella topologia, il suo modello, e profondamente poetica, lirica,
capace di invenzioni e creazioni sorprendenti che si struttura sulla condensazione
metaforica e sulla fuga metonimica del senso e che trova i suoi
modelli nella grande letteratura e nella
poesia e nella tragedia: in
Proust, Sofocle, Shakespeare, Apollinaire, Rimbaud, i surrealisti, Beckett…
Come lo ‘giudicheresti’
da un punto di vista clinico?
Chi?
Lacan? Io non amo il giudizio clinico spostato fuori dalla seduta. Chi mi
conosce sa bene l’irritazione che provo quando si usa la psicoanalisi
selvaggiamente al di fuori della seduta. Alcuni miei severi critici mi
rimproverano di farlo, quando, per esempio, si riferiscono all’uso che ho
effettivamente fatto di alcune categorie cliniche per leggere il nostro tempo e
alcuni suoi buoni o cattivi protagonisti. Hai presente? Berlusconi come «perverso»,
la sinistra come «masochista», il grillismo come «fenomeno paranoico», ecc. Ma
in questi casi si trattava di cogliere un movimento di insieme, una inclinazione
del collettivo, una tendenza del nostro tempo. È il caso della perversione di
Berlusconi, per esempio, che non sarebbe interessante, né degna di nota se non
si configurasse come una tendenza dello spirito dei nostri tempi: denegazione,
rifiuto, rigetto della Legge, spinta anti-istituzionale, anomia, esaltazione
del principio di prestazione e del godimento come unico senso del mondo, ecc.
In questo il mio uso, per usare un lemma di Lacan, in «estensione» delle
categorie cliniche si voleva idealmente collegare ad una ricca tradizione.
Quella già presente in Freud e nello stesso Lacan che, per fare solo qualche
nome, passa da Reich, Fromm, Deleuze e Guattari, Formari, Fachinelli sino ad arrivare ai nostri giorni a Charles Melman e
Lebrun.
Permettimi
dunque di non giudicare clinicamente Lacan. Di se stesso egli diceva che aveva
lo stesso rigore della psicosi. Ed è indubbio che il suo pensiero compia uno sforzo
di matematizzazione dell’esperienza analitica che possiamo paragonare solo a
quello presente in un certo Bion. Dall’altra parte non si può non notare che il
suo discorso sia anche caratterizzato da un’inclinazione isterica, ovvero la
tendenza a togliere le garanzie, le certezze, le convinzioni condivise, a
sovvertire continuamente il sapere acquisito, a desiderare il sapere non ancora
saputo, non ancora visto, non ancora conosciuto…
Godimento fallico e
godimento dell’Altro: qual è la distinzione?
È
quella che ci ha insegnato Lacan in uno degli snodi per me più interessanti del
suo pensiero che rischia di perdersi nella recente lettura neo-lacaniana che
enfatizza il godimento come fosse l’Uno in opposizione al desiderio come
desiderio dell’Altro. La prospettiva di Lacan sul godimento non è – tranne
forse l’ultimo brano del suo insegnamento, quello che inizia con il Seminario XIX – una prospettiva
monologica. Non esiste un solo modo di godere, non esiste una sola declinazione
del godimento. Piuttosto, se seguiamo, almeno a mio giudizio, l’insegnamento
più vivo di Lacan, dovremmo sempre pluralizzarne l’uso. Dunque, per esempio,
distinguere tra il godimento fallico e il
godimento dell’Altro. Ma non è la sola
distinzione possibile. Esiste anche, sempre per Lacan, un «godimento
dell’essere», un «desiderio di godere», un «godimento del desiderio», un «Altro
godimento»…
La
distinzione sulla quale mi inviti a riflettere è quella che ripatisce la
struttura differenziale della clinica lacaniana. Da una parte il godimento
segnato dall’esperienza del limite, dell’impossibile, marcato dal trauma
positivo della Legge della castrazione che contrassegna la clinica della
nevrosi. Dall’altra parte il godimento dell’Altro che è «senza Legge», che
forclude il fondamento della Legge della castrazione che è il Nome del Padre,
che deborda dal corpo frammentandolo, come nella schizofrenia, o che perseguita
il soggetto come avviene nella paranoia. Questo secondo godimento non deve
essere confuso con il concetto di Altro godimento che è invece quello che trova
il suo paradigma non nella schizofrenia, né nella paranoia, ma nel femminile.
Un godimento che eccede la Legge della castrazione pur supponendola. In esso
non è in primo piano la distruzione, la frammentazione, l’invasione
persecutoria del godimento dell’Altro ma l’infinito del mistico, l’apertura
anarchica della vita al miracolo della vita.
Cosa vuol dire, per te,
teorizzare?
Tradurre
quello di cui faccio esperienza in una lingua accessibile. Rendere
trasmissibile l’inaccessibile dell’esperienza. Innanzitutto per me stesso. Io
posso scrivere solo quando sento l’urgenza di scrivere. Non su temi a
commissione ma solo sui temi che mi pungono, che mi inseguono. Dare voce all’inesprimibile dell’esperienza,
all’irraffigurabile della vita e della morte. In realtà io non penso ad altro.
Non penso se non all’assoluto della vita e della morte. La teoria per me, se
vuoi, è una specie di preghiera, di invocazione. In questo assai simile alla
pratica dell’arte.
Hai seguito con
attenzione anche il pensiero di Bion?
Ho
studiato negli anni seriamente Bion e alcuni suoi grandi interpreti ed eredi
come Neri, Ferro o Ogden, soprattutto nel tempo in cui praticavo la
psicoanalisi di gruppo con pazienti anoressiche-bulimiche. Ma anche in seguito
Bion è rimasto per me un riferimento importante, seppure nella differenza per
certi versi radicale che lo separa da Lacan. Ma trovo che vi siano alcuni punti
teorici che potrebbero invece stabilire delle convergenze interessanti con
l’itinerario di Lacan. Voglio citare, per fare solo un esempio, l’idea bioniana
dell’inconscio come emancipato dalla topica della rimozione, l’idea che quello che
conta in un’analisi non sia tanto la simbolizzazione di quello che si ripete,
ma l’inoltrarsi verso il non ancora visto, il non ancora pensato, il non ancora
saputo. È quello che, a suo modo, Lacan indica quando pensa nel Seminario XI all’inconscio come qualcosa
che deve ancora venire alla luce, come ad un non-ancora-realizzato, non ancora
compiuto.
Quali sono stati i tuoi
imprescindibili punti di riferimento, non solo nell’ambito psicoanalitico?
Mia
moglie Valentina e i miei figli Tommaso e Camilla. I miei amici.
Quali altri culture,
oltre il sapere psicoanalitico, entravano in gioco nel pensiero di Lacan?
Lacan
era onnivoro ma non eclettico. Leggeva moltissimo ma sempre seguendo un filo. La
cosa che a me personalmente impressiona di più è la sua competenza filosofica.
Da Platone ad Aristotele, passando per Spinoza, Kant e Hegel, sino a Heidegger
e Sartre, quando parla dei filosofi Lacan sa innanzitutto quello che dice.
Mostra una conoscenza dei testi notevole. Non solo. Ogni volta che il testo
filosofico passa attraverso la sua lente critica non resta più lo stesso di
prima. È l’effetto maggiore anche della sua lettura di Freud: chi oggi potrebbe
leggere l’uomo dei lupi senza considerare il concetto di «retroazione»? Chi
potrebbe leggere il commento di Freud a Memorie
di un malato di nervi di Schreber senza contemplare il concetto di
forclusione del Nome del Padre? Chi potrebbe leggere il Progetto di una psicologia senza considerare la parentela tra il
concetto freudiano di traccia e quello lacaniano di significante? Chi potrebbe
leggere oggi L’interpretazione dei sogni
facendo a meno dei concetti lacaniani di metafora e metonimia? Ecco, coi filosofi accade lo stesso.
Lacan opera dei prelievi sul testo che conferiscono a quel testo un senso nuovo
e inatteso. Pensa, per fare solo un esempio, al prelievo del concetto di agalma dal testo di Platone. Non solo
Lacan lascia per sempre una traccia indelebile su quel testo, ma la sua lettura
comporta anche una nuova significazione del testo di Platone in quanto tale che
viene, contro l’idealismo di Platone stesso, rivisitato alla luce inedita della
passione erotica del desiderio di sapere, della pulsione di sapere…
Nel 1955, a Pasqua,
Lacan si recò a Friburgo in compagnia di Beaufret per incontrare Heidegger.
Costui, riferisce Beaufret, sembrò abbastanza turbato dalla questione del
transfert come relazione affettiva del paziente con l’analista e, rivolto a
Lacan, gli chiese: «Ma il transfert?» Al che Lacan rispose: «Il transfert non è
ciò che comunemente si dice, ma incomincia con la decisione di rivolgersi a uno
psicoanalista». Il transfert, tradusse in buon tedesco Beaufret, non è che un
episodio interno alla psicoanalisi, la sua condizione a priori. Condividi la risposta di
Lacan?
In
parte. Senza transfert sulla psicoanalisi è difficile che inizi un’analisi
personale. Si deve operare una prima supposizione di sapere su di una scienza –
la psicoanalisi appunto – eletta a scienza supposta sapere intorno al mio segreto, al mio male, al mio desiderio, alle mie pene, al mio
delirio… In questo senso, come dichiara giustamente Lacan, il transfert esiste innanzitutto
fuori dalla seduta dell’analista. Ma quello che nella sua risposta a Heidegger
Lacan omette di dire è che questa è solo una prima faccia del transfert. Come
lui stesso ci ha insegnato il transfert analitico vero e proprio implica
l’incontro con l’analista, con un particolare analista, in carne ed ossa. È il
punto dove il transfert ancora generico sulla scienza della psicoanalisi è
obbligato a particolarizzarsi. Questo incontro ha l’effetto di rianimare il
desiderio del soggetto. L’esperienza concreta del transfert è l’esperienza di
qualcosa che trasporta, della vita che si rimette in moto, che riparte. Non
bisogna avere orrore del transfert come probabilmente ne aveva Heidegger. Solo
se non se ne ha orrore si evita di rispondere alla sua lusinga immaginaria o di
evitarlo fobicamente. Sono i due errori tecnici isolati da Freud: acconsentire
o evitare il transfert. Piuttosto si tratta di farne il motore dell’analisi. In
gioco è un vero e proprio incontro. Per questo Lacan ha insistito nel
differenziare concettualmente il transfert dalla ripetizione. L’analista non è
né il papà, né la mamma, né il primo perduto amore. L’analista è l’occasione
che consente alla vita che si è smarrita, che non sopporta più la vita, di ritornare
a vivere.
L’attività clinica era
ritenuta fondamentale da Lacan?
Senza
clinica non esiste psicoanalisi. Anche la psicoanalisi cosiddetta applicata sarebbe impensabile senza il
suo fondamento clinico. Lacan lavorava da mattina a sera coi pazienti. Tutta la
sua dottrina scaturisce dal suo lavoro clinico. La sua attenzione teorica al
tema del soggetto e alla sua singolarità assoluta scaturisce direttamente dalla
sua pratica: la psicoanalisi non insegna forse che ogni paziente è diverso
dall’altro, che la nostra clinica è una clinica dell’uno per uno? L’uno per uno
è il ritmo della giornata di ogni analista. Ogni volta un discorso, un sintomo,
un fantasma singolare che esclude generalizzazioni, standardizzazioni,
comparazioni… Solo uno per uno.
In cosa consiste la
distanza che Lacan prende da Freud, al quale tuttavia si richiamerà
esplicitamente sino alla fine dei suoi giorni?
Lacan
è un vero erede, un giusto erede di Freud. Ne abbiamo parlato all’inizio della
nostra conversazione. Torno sul punto. Cosa significa essere un giusto erede? È
un problema, come vedi, che mi appassiona. Sicuramente non significa per Lacan fare
il verso a Freud, ripetere Freud, sacralizzare Freud, considerare il suo testo
un testo religioso, immodificabile, immutabile. Lacan non fa di Freud un busto,
un monumento. Ma per rendere possibile questo movimento di risalita all’origine
della psicoanalisi finalizzato a rinvigorire e rilanciare la psicoanalisi
stessa oltre Freud bisogna, come Lacan è stato in grado di fare, essere eredi giusti, ovvero interpretare l’eredità non come una
acquisizione passiva ma come una riconquista attiva. Di qui l’inevitabile
oltrepassamento di Freud. Ma Lacan – occorre ricordarlo bene – oltrepassa Freud
solo perché è stato freudiano sino in fondo. Questa è l’impresa dell’ereditare
che non è tanto un movimento rivolto al passato ma aperto sull’avvenire. Non a
caso il punto di maggior rottura con Freud avviene proprio sul concetto di
inconscio. Per Lacan l’inconscio è tendenzialmente un deposito di tracce – un «sistema
di segni», dirà Lacan, – il luogo di un passato che non passa, dei ricordi
ancora attivi – fuori dalla coscienza – della nostra infanzia, mentre per Lacan
l’inconscio è nell’ordine di una chiamata, di un appello, di una Legge, di una spinta
che esige di essere accolta e prolungata… Per Freud l’inconscio è al passato,
per Lacan, come per ogni erede, all’avvenire.
Alla morte di Lacan, ci
sono state delle lacerazioni, delle lotte intestine: secondo te, chi ne ha
raccolto «legittimamente» l’eredità?
Vedo
pochi eredi giusti in giro. L’eredità non è sacralizzazione, clonazione,
ripetizione di quello che abbiamo ricevuto. Il movimento dell’ereditare esclude
ogni spinta appropriativa. Quello che è accaduto dopo la morte di Lacan, e
immagino anche con Lacan in vita tra i suoi maggiori allievi, è stata una lotta
fratricida per appropriarsi di Lacan, per rivendicare i propri titoli di eredi
legittimi. In realtà il più autentico movimento dell’ereditare esclude per
principio ogni forma di garanzia e,
dunque, di legittimità. Si situa fuori da qualunque rivendicazione legalistica.
Da qualunque rinvio a diritti acquisiti. Il movimento dell’ereditare è un
movimento di filiazione. Io mi sento simbolicamente un figlio di Lacan ma non
spenderei un attimo del mio tempo per mostrare di essere più lacaniano di un
altro o di mostrare di aver inteso quello che ha veramente detto Lacan… Non mi
interessa questo genere di dispute. Le trovo tristi come sono – solitamente – i
personaggi che vi si appassionano. Non mi interessa tirare Lacan per la
giacchetta. Cosa significa essere lacaniani? Per me significa essere sulla scia
di un movimento reso possibile da Lacan, ma assumere la responsabilità di
avanzare, di rendere possibile un post-Lacan. Che non significa affatto
considerare superato il suo straordinario lavoro. Piuttosto il contrario:
significa assumere quel lavoro come base per iniziare una nuova piccola ma
inedita costruzione. In questo senso l’ereditare è un movimento che impegna più
l’avvenire che non la fedeltà al passato. Derrida è probabilmente stato l’erede
più giusto di Lacan.
Quale era l’identikit
politico di Lacan?
Per
un verso Lacan si definiva come un liberale conservatore. Ma questa è la
definizione in senso stretto che egli dava della sua visione politica. In
realtà tutto il suo insegnamento sfida la conservazione, è anarchico,
sovversivo. Pensa solo alla sua critica aperta alle istituzioni psicoanalitiche cosiddette ortodosse. Egli le costringe a
rinnovarsi attaccando ogni forma di potere consolidato. Mostra loro che la
psicoanalisi non può istituire gerarchie, diplomi, didatti, carriere universitarie…
Esige che lo psicoanalista non cessi mai di reinventare il proprio rapporto con
la psicoanalisi. Esige che il sapere saputo sia costantemente messo in
discussione. Impedisce che l’analista possa installarsi nella sua pratica,
possa identificarsi al suo titolo, per esempio a quello di didatta, possa
credersi di essere un’analista. Con Lacan la formazione riacquista il suo
statuto permanente e interminabile.
È utile lo studio della
medicina per uno psicoanalista?
Penso
che sia una delle cose più inutili possibili. Salvo per gli studi di
psichiatria. E salvo per l’esperienza clinica del male che la pratica medica
impone. Per il resto il sapere della medicina diventa fatalmente, per chi si
forma alla psicoanalisi, un ostacolo da superare, un peso ingombrante di cui
liberarsi.
(Ottobre 2017)
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