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13 maggio 2023

«Luciano Albanese legge di Doriano Fasoli» di Luciano Albanese

 

Doriano Fasoli. Foto di Roberto Canò. Roma 2019.


Il nuovo libro di Doriano FasoliFinestre sulla memoria (Alpes, Roma 2022, pp. XII-157), è in parte, come il precedente Derive, costellato dal ricordo di molte esperienze personali, in cui l’ispirazione poetica – poesie in prosa anche queste – avvolge il lettore, specie quello coetaneo dell’autore – in una nube di malinconica nostalgia per un tempo irrimediabilmente perduto. A questo ordine tematico appartengono, ad esempio, i ritratti di Giovanni Macchia ed Enrico Guaraldo, l’addio a Gianni Celati, i «Frammenti di un dialogo amoroso», i ricordi del Filmstudio a Via degli Orti d’Alibert, dove andavamo tutti alla fine degli anni ’60 (nessuno dimenticherà mai il grido «americani a casa!» – uno degli slogan del Movimento studentesco – lanciato dal fondo della sala da Massimiliano Fuksas, durante la proiezione di Lonesome Cowboys di Andy Warhol, alla vista dell’ennesima fellatio), Jeanne, o la contadina del Caso fortuito. E ancora, il lirismo di Sempre più solo e vintoGiornata di soleBreve nota sull’imbecillitàDue donne, e di quasi tutta l’intera sezione «Impressioni di orizzonti», di cui segnalo, in particolare, Parigio cara (pochi soldi, i libri trafugati e nascosti nel giubbotto, e la lunga sfilata di mostri sacri, Henry Miller e Céline in testa, che aveva vissuto nella mitica Parigi dell’immaginario europeo) e Al mattino, in cui sembra riecheggiare il finale del monologo di Molly nell’Ulisse di Joyce.

 

Ma, oltre a questo, dal libro emerge un tema cruciale per tutta la modernità: che cosa succede quando il sapere fallisce completamente i suoi scopi, e diventa solo erudizione? «Ho studiato filosofia, – diceva il Faust di Goethe in apertura della sua tragedia – medicina, teologia, da cima a fondo, e con tenace ardore, e mi ritrovo a saperne quanto sapevo prima. Anzi, ho finito per accorgermi che non ci è dato di sapere nulla di nulla». Lo scetticismo di Fasoli sul valore conoscitivo della cultura filosofica e scientifica prese nel loro insieme è abbastanza simile a quello di Faust, e questo si avverte già dalle prime pagine del libro, «La valle dell’ombra» e «Essere o non essere» (il famoso dilemma di Amleto), in cui svaniscono tre pietre angolari della nostra esistenza, Io, Dio e l’Essere. Doriano è un uomo di ampie letture, perché è un individuo curioso, nel senso più nobile del termine, e la sua conoscenza della cultura sia antica che moderna è molto vasta. Cominciando dal cogito ergo sum di Cartesio, le pagine di Finestre sulla memoria offrono al lettore una galleria di temi e di personaggi che non ha nulla da invidiare a quanto possiamo apprendere da una enciclopedia del sapere. Bertrand Russell, Heidegger guardiano dell’Essere, il topo di Schrödinger, la lettura manichea della vagina, il suicidio di van Gogh, Carmelo Bene e Artaud, Foucault in California nella Valle della Morte, col Marchese de Sade ideale compagno, le Baccanti di Euripide, il Concilio di Nicea, Gadda e Roscellino – sintomatico questo accoppiamento –, la difficoltà di scrivere usando parole che non ci appartengono, perché hanno già una loro storia (ancora Foucault), le oscure radici del sacrificio – tema comune, per motivi diversi, al Burkert di Homo necans e a Bataille –, Libertà e Necessità, Alice attraverso lo specchio letta da Lacan,  il mistero del corpo, della sua nascita e della sua morte, e quindi la sua costante esposizione al pericolo, la Rivoluzione scientifica che ci ha tragicamente “spiazzati” (il tema centrale di John Donne e del Controrinascimento), le tragedie di Euripide, etica e scienza, Aristotele e la babele delle lingue, sull’anima, le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, le mosche, esseri tutt’altro che irrazionali (grazie ad esse è stato scoperto il principio di reafferenza), il Libro e la tela di Penelope, post coitum tristitiam, lo Stige e Caronte, l’ottuso moralismo del “politicamente corretto”, Deleuze, Spinoza e la tirannia, il daimon, fisici e filosofi, elogio dei sensi, la vecchiaia e il suo mistero, ultimo capitolo del più grande mistero di vivere. 

«L’oggetto d’amore in Pierre Bonnard» di Nicola D’Ugo


Pierre Bonnard. Nudo davanti a uno specchio. 1931.


Pierre Bonnard è stato uno dei maggiori pittori fra l’Otto e Novecento. Quello che vorrei raccontare in queste poche righe è il meccanismo con cui, nella sua pittura, rappresenta l’oggetto d’amore. I suoi dipinti memorabili, di quelli di cui, se ce ne s’innamora, è poi difficile che l’amore vada perduto con il tempo, sono talmente intrisi di luce che non si sa bene se sia la luce esterna al dipinto a illuminare la scena o quella interna. Dato che, se guardiamo un dipinto al buio, non vediamo che il buio, viene da sé che è la luce esterna, ossia quella in cui è collocato il dipinto, a illuminarne i colori. Eppure, guardando i suoi quadri, sembra che la luce venga dall’interno del quadro, da una finestra o altro; che, insomma, l’artista abbia riposto la luce nel dipinto come per magia. Tale effetto magico, nella storia dell’arte, si chiama impressionismo. Gli impressionisti dipingevano all’aria aperta e cercavano di cogliere gli effetti di luce come li percepivano, talvolta a sprazzi, e i colori che attraversano le loro tele sono talmente pervasi di luce da rendersi variegati e vividi come mai prima era apparso in pittura. Un libro che racconta la giornata tipo dell’impressionista Monet che si alzava la mattina presto per dipingere all’aria aperta si intitola Light (luce, appunto), un breve e intenso romanzo scritto da Eva Figes nel 1983 (non credo sia uscito in italiano).

 

Ma Bonnard non è un impressionista. La luce che diffondono i suoi quadri, anziché sorgere da esigenze di pura rappresentazione, è impiegata come una tecnica, come un elemento che serve una rappresentazione più intensa dell’uomo. L’intensità dell’impressionismo è, se vogliamo, esternamente musicale, rivolta a cogliere l’impressione della luce sull’occhio; quella di Bonnard è, come è stato già detto altrove, della pura memoria, ossia come elaborazione che la mente fa della luce e degli oggetti. Prendiamo un suo dipinto: Il nudo davanti a uno specchio (1931). Che cosa ci racconta Bonnard attraverso questo dipinto? L’oggetto d’amore, la sua donna colta dallo sguardo in un momento della sua esistenza, in un luogo intimo, in cui, cioè, non si preoccupa d’essere vista da occhi indiscreti. Se osserviamo il nudo della donna, ne cogliamo senz’altro la figura ben disegnata, dai calzari ai capelli. Ma se andiamo sul dettaglio, sulla schiena, per esempio, sui glutei o sul retro delle braccia, questa bella figura femminile perde qualsiasi compattezza della forma, può effettivamente essere una bella donna o una donna non proprio bella, e il suo viso è un profilo abbozzato di qualsiasi donna. Bonnard ha dipinto un nudo, ma non lo ha esposto. Avrebbe potuto indicarci dei dettagli, ma è riuscito a vestire una donna, a renderla solo una figura. Tutto quello che ci racconta è l’intimità di una donna in una stanza che si guarda allo specchio. Il resto della stanza c’è, ma è fuori scena: a destra, a sinistra della donna, dalla parte dell’osservatore. Nello specchio vengono riflessi vari oggetti, anzitutto un tavolinetto che vediamo due volte: nella stanza e nello specchio. Ma nello specchio non vediamo il viso della donna. La figura stessa, centrale nell’inquadratura del dipinto, non è centrale fra gli oggetti. Infatti le suppellettili sono riposte in un ordine piuttosto casuale. V’è addirittura una sedia dietro le gambe della donna che quasi la tocca. La sedia è rivolta verso di noi e non verso lei: non è lì perché sia impiegata dal personaggio.

24 luglio 2022

«“Rivelazioni dell’incompiuto. Leonardo da Vinci” di André Green. Conversazione con Valter Santilli» di Doriano Fasoli



Medico e psicoterapeuta, Valter Santilli è docente presso la Scuola di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana (S.I.I.P.E./Roma). Ha curato con Camillo Loriedo la pubblicazione del volume La relazione terapeutica (Franco Angeli, 2000). Le sue più recenti pubblicazioni sono: Il terapeuta in gioco. Tra arte, letteratura e psicoterapia(Carabba, 2013); con Antonello Carusi, Laing R.D., L’ombra del maestro (Alpes, 2015). Ha curato l’edizione italiana del libro di Gabrielle Rubin Il romanzo familiare di Freud (Alpes, 2018). Scrive periodicamente su questo blog, sul quale ha pubblicato «Le complesse oscurità dell’Edipo Re», un commento alla rappresentazione teatrale di Robert Wilson, 2018, e due brevi saggi su Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci di Sigmund Freud (Parte 1, 2019; Parte 2, 2020). 

 

Doriano FasoliÈ stata pubblicata dall’editore Alpes, nel maggio 2022, la traduzione italiana del libro di André Green Rivelazioni dell’incompiuto. Leonardo da Vinci. Chiedo al curatore dell’edizione italiana, Valter Santilli, non solo di introdurci ai temi principali del libro, ma anche di parlarci della genesi di questo progetto editoriale.

 

Valter SantilliGrazie Doriano, rispondo volentieri alle tue sollecitazioni. Il libro di André Green Révélations de l’inachèvement. Léonard de Vinci era uno dei pochi libri del famoso psicoanalista francese non ancora pubblicati in italiano. La pubblicazione italiana arriva nel decennale della scomparsa di Green e vuole essere anche un omaggio a questo grande psicoanalista, autore prolifico di saggi che hanno esplorato non solo nuovi territori della ‘cura’ ma anche nuove aree del ‘sapere interdisciplinare’.

 

Il progetto di traduzione di questo libro, bello e misconosciuto, nasce grazie alla virtuosa sintonia che nel 2020 si è creata con Lorena Preta, che ha scritto una intensa e densa prefazione a questa edizione italiana del libro, e con Andrea Baldassarro, che stava progettando una nuova collana editoriale, chiamata «Sconfinamenti». Venni a saper di questo libro quando lessi il contributo di Lorena Preta nel libro curato da Baldassarro La passione del negativo,omaggio al pensiero di André Green, pubblicato da Franco Angeli nel 2018. Mi incuriosirono molto le citazioni di Lorena Preta da questo testo di Green. Con qualche difficoltà riuscii poi ad averne una copia e quando lo lessi mi catturò talmente che proposi sia a Baldassarro che a Preta la pubblicazione in italiano. 

26 settembre 2018

«Paesaggi della cultura e trasmigrazione degli sguardi. Intrecci tra necessità rituale e libertà creatrice nell’arte dell’Estremo Oriente» di Giancarlo Micheli


Huīzōng, Piccione su ramo di pesco (1108).


La legge morale nella pelle del serpente


Qualcosa dissolve, a ritroso, nelle profondità della storia, si disfa in fondo ad uno sguardo che, nel tentativo di fissarsi ad un oggetto remoto, finisce per confonderne i contorni al nebbioso paesaggio che, poco fa, quando lo sguardo si levava appena e desideroso di sensibile corrispondenza, lo delimitava ancora entro una forma nitida e tersa.

Sulle antiche pitture vascolari della dinastia Shāng (1766-1122 a.C.) uno dei soggetti rappresentati con maggior frequenza è il demone tāotiè, una figura assai complessa, costruita unendo parti anatomiche di tori, tigri, arieti e serpenti. Della parola tāotiè si era andata perdendo la conoscenza del significato preciso a partire dal periodo feudale degli Stati Combattenti (403-221 a.C.) ed il concetto da essa designato già svaniva inesorabilmente nella cognizione dei cinesi delle dinastie Qín (221-206 a.C.) e Hàn (206 a.C.-220 d.C.), sotto le quali si compì l’unificazione dell’impero, che raggiunse allora un’estensione territoriale paragonabile a quella della attuale Repubblica popolare. Alla luce delle categorie dell’antropologia culturale il tāotiè viene oggi concepito quale simbolo della divinità della Terra, mutevole e caotica espressione delle forze originarie in essa contenute. Una tale definizione del simbolo del tāotiè, del resto, non può che riuscire per noi insoddisfacente, giacché esclude tutta una modalità essenziale di percezioni che ne rendevano vivo il senso all’umanità che lo frequentò da vicino. Lo scorgiamo pertanto attraverso una cortina di nebbie, alla quale è confuso non meno che allo sfondo da cui affiora in minimo rilievo, non meno che al paesaggio cui è unito da un vincolo tanto inestricabile quanto lieve, dove si agita appena, assomiglia alla radice di uno strano albero che, d’altronde, non ravvisiamo meglio di esso, anche perché ecco che, ora, già ci pare che il tāotiè si scuota, voglia sgusciar fuori da quella sua primitiva pelle, ci sembra che frema e strisci: è una serpe avvolta alle rocce di un declivio montuoso, una lasca che sguscia nell’acqua limacciosa di un fiume.

23 gennaio 2017

«Alcune considerazioni sul problema del realismo» di Luciano Albanese

Adesso dev'essere l'ora di pranzo di Francesca Woodman, 1979

Quando si parla di recupero del realismo bisogna stare attenti. Prendiamo ad es. una proposizione protocollare del tipo ‘alle ore x y Catone passeggia’. Questa sembrerebbe una descrizione adeguata alla realtà di quello che sta succedendo in un istante dato. Ma se riflettiamo meglio su ciò che sta realmente accadendo non tardiamo a capire che siamo di fronte ad un fenomeno più complesso, o addirittura a uno sciame di fenomeni concomitanti.

Catone, passeggiando, ha anche mosso l’aria circostante, aumentandone la temperatura, ha distrutto un formicaio sotto i suoi piedi, e soprattutto ha sparso germi letali intorno a sé – quelli che hanno sconfitto i marziani nella Guerra dei mondi di H. G. Wells. Ma può anche aver messo in moto una di quelle lunghe catene causali su cui si esercitava l’ironia di Voltaire. E questo, solo rimanendo al livello superficiale o fenomenico, senza scomodare la fisica atomica e le ‘due scrivanie’ di Eddington (quelle che hanno ispirato una scena di Scomodi omicidi, il dialogo tra Nick Nolte e John Malkovich).

Questa concomitanza di eventi, per cui non esiste mai un evento singolo e in totale isolamento dal contesto, è molto utile a chi indaga sugli omicidi. Le ‘tracce’ lasciate dall’assassino non sono altro, infatti, che eventi concomitanti e paralleli all’evento che ci interessa, il delitto. È quindi perfettamente giustificata la raccomandazione di non ‘intorbidare’ la scena del crimine (vedi le raccomandazioni di Denzel Washington ad Angelina Jolie nel Collezionista di ossa).

Conseguentemente, potremmo dire che qualsiasi descrizione di quello che sta facendo Catone in questo istante è totalmente inadeguata, e trova scarsa corrispondenza in quello che sta realmente accadendo. In effetti nessuna descrizione sarà mai adeguata alla miriade di eventi che accompagnano la passeggiata di Catone. In verità noi chiamiamo ‘descrizione realistica’ una proposizione che descrive – approssimativamente – solo un aspetto, trascelto fra mille altri, della realtà che si offre ai nostri sensi: esattamente quello che ci interessa, quello verso il quale siamo predisposti e orientati. Il punto di vista delle formiche vittime di Catone non viene preso in considerazione da noi, anche se sarebbe non meno legittimo.

Ma questo vuol dire anche che proposizioni del tipo ‘Catone distrugge un formicaio’ o ‘Catone distrugge i marziani’, oppure, allungando di qualche secolo la catena causale di Voltaire («Dialogo tra un bramano e un gesuita sul necessario concatenamento delle cose»), ‘Catone fa morire Enrico IV’, sarebbero descrizioni altrettanto realistiche di ciò che accade nell’istante dato.

La non univocità degli eventi non è l’unica difficoltà che incontra la riproposizione del realismo. Ad essa se ne accompagna un’altra – di cui già gli Stoici antichi, come vedremo, erano consapevoli. Essa è data dalla circostanza che, anche ammettendo l’esistenza di eventi isolati, i corpi non sono in grado, da soli, di esprimere chiaramente una ‘sintassi’ o un ordine propri. Tale difficoltà si manifesta in modo evidente nelle arti figurative.

Secondo il Laocoonte di Lessing le arti figurative descrivono azioni per mezzo di corpi, mentre le opere letterarie descrivono corpi per mezzo di azioni. In realtà né le une né le altre riescono a offrire di azioni e di corpi una descrizione incisiva e chiara. La descrizione delle azioni effettuate da un corpo ci parlerà al massimo del carattere del personaggio a cui il corpo appartiene, ma non potrà mai raggiungere l’evidenza della visione autoptica del corpo stesso. E tuttavia la letteratura ha un vantaggio sulle arti figurative. Essa ha già effettuato una selezione preventiva sullo sciame degli eventi, e ci costringe a guardare ciò che interessa allo scrittore. Ma nelle arti figurative la situazione è diversa.

Per citare solo il caso dell’arte mitriaca, che è quella di cui mi occupo da tempo, siamo letteralmente bombardati da immagini di corpi nei monumenti figurati, ma spaventosamente a secco di testi letterari che ci informino sul loro significato, a cominciare dall’evento centrale, la tauroctonia. La conseguenza è che ognuno vi legge quello che gli pare, e da Porfirio a oggi si può dire che ogni anno esce un nuovo libro sul ‘vero’ significato del culto di Mithra.

22 luglio 2016

«Perdutamente t’amo. Un dialogare con Gino D’Ugo» di Gioacchino Pontrelli


La presente conversazione tra due artisti contemporanei prende spunto dalla mostra Perdutamente t’amo, una singola scultura di Gino D’Ugo, in corso dal 9 al 21 luglio 2016 presso lo spazio espositivo Fourteen Artellaro di Piazza Figoli 14, nel borgo lericino di Tellaro, in provincia della Spezia.

Gioacchino Pontrelli: Perché hai usato unimmagine sacra, come il sacro cuore di Gesù per Perdutamente t’amo?

Gino D’Ugo: L’immagine del cuore è spesso inflazionata e usata con esagerati sentimentalismi. L’immagine sacra fa parte della nostra cultura, storia e memoria. Volenti o no, non possiamo non tenere conto delle nostre radici culturali pur definendoci atei o poco interessati alla religione. Ci sono comportamenti, attitudini e pensieri che vengono da molto lontano.

L’utilizzo di questa icona se pur con ironia vuole far pensare a che valore ognuno di noi dà alla propria sacralità. Poter riflettere sul concetto del sacro al di là della dottrina religiosa. Intendo rivolgere quest’opera tanto alla dimensione sacra quanto a quella profana. Dualismo che spesso nell’iconografia è rappresentato in soggetti disgiunti.

Gino D'Ugo e Gioacchino Pontrelli davanti allo studio romano di Pontrelli

OK, ma parliamo di te. Non credo che affermare «perdutamente t’amo» non contenga una parte di verità: la tua verità. Sono convinto che stai facendo il gioco delle tre carte… Togliamo l’iconografia, togliamo la cultura e poi la storia e la memoria. Prendiamo: «t’amo» e «perdutamente». Che significa per te?

Diciamo che il titolo è ciò che dona ironia all’immagine, il «perdutamente» fa parte della messa in scena che unita a quello che scaturisce dal cuore crea il pathos. Nel sentimento religioso o in quello di un innamoramento i propri equilibri individuali vacillano. Ci si trova in territori inesplorati dove ragione e sentimento cercano nuovi equilibri e l’incertezza che fomenta dubbi e paure scaturisce in conflitti interiori. Il tutto fa sì che si creino nuove forme di rispetto che al di là del senso comune ti mettono in contatto con la tua controparte.

21 giugno 2014

«La mente e il gesto. Conversazione con Giuseppe Ponzio, architetto e artista», di Doriano Fasoli

 

È da giovanissimo che Giuseppe Ponzio, in una terra che ne segna la nascita (una ex colonia italiana) ma che la drammaticità storica ne ha reso confusa l’appartenenza, si pone l’istanza fondamentale di come sia possibile tradurre in un oggetto lo spazio e il tempo. Il vissuto esistenziale e la formazione di una identità culturale ricca di sovrapposizioni ed intersecazioni, di confini e dispersioni, sono il territorio sul quale si dispiegano le costanti strutturali del suo lavoro. Sovrapposizioni o svolgimenti divengono il paradigma formale nelle opere di Ponzio, dove i segni traggono origine dalla fascinazione visiva e calligrafica per gli alfabeti, quello latino e quello amarico (sillabico) dell’adolescenza, e per gli ideogrammi cinesi della maturità.

Come presentare spazio e tempo è la domanda, come si diceva, che segna un percorso artistico costellato e al tempo stesso confortato da alcuni punti fissi, che personalità e movimenti artistici del Novecento (dal suprematismo russo al minimalismo americano) hanno avuto il potere di illuminare. L’amore per l’architettura (e la seguente formazione accademica) non è bastato ad arginare la pressione costante per la sperimentazione di altri mondi e modi espressivi. La pratica professionale si è poi intrecciata fortunatamente e forse non a caso, con quella artistica, attenuando nel tempo la conflittualità latente, – in alcuni momenti lacerante, – fra le due attività, sino a individuare e maturare una possibile sintesi.

Sintesi duttile sempre pronta a ricomporsi, facilitata anche dal realizzarsi, forse in modo ideologicamente ingenuo, dello sconfinamento auspicato, ma reso oggi drammaticamente ineluttabile, degli ambiti disciplinari (pittura, scultura e architettura) che la storia recente celebra. Di tutto ciò l’operare di Giuseppe Ponzio si fa discreto. Il suo linguaggio sembra in ultima analisi sfociare in un silenzio mistico, quel silenzio che è pienezza di ogni espressione e che conserva nel suo profondo spirito le tracce di un antico garbo. Il complesso dei segni preliminari per lo sviluppo di un progetto, volto a definire spazi e funzioni, si è mano a mano sovrapposto – e viceversa – a grafemi dalle potenzialità alfabetiche o a tracciati colti in modo automatico attingendo fra mente e gesto da un territorio arcaico, sempre presente, che spinge e si interroga su matrici e genealogie dell’universo oggettivizzante, perno di tutta la cultura occidentale.

L’avvertire come quest’ultima, saturante ogni residualità resistente, sia sempre pronta a collassare sui propri miti (razionalità e tecnica) e intravvedere, attraverso le crepe che necessariamente questo procedere totalizzante produce, corrispondenze fra i presupposti di alcune avanguardie artistiche novecentesche ed estetiche estremorientali (non esplicitate abbastanza da una storia corrente) hanno reso possibile una ricerca che pone come prioritaria ed eticamente necessaria l’esperienza, che non può essere altro che silenziosa, dello spazio e del tempo estranea, per quanto possibile, alla sedimentazione storica di un pensiero astratto e aprioristico.

16 giugno 2013

“Dance and Poetry” by Alfred Corn



Mirth by William Blake from
John Milton's “L'Allegro”








In George Balanchine’s great ballet Apollo, choreographed to one of Stravinsky’s most ravishing scores, we see the god summon three Muses to assist in the invention of dance. One of these is Calliope, Muse of epic poetry; her presence stands as a symbol of the fact that choreographers have many times drawn on poems for themes to be developed into dances. Without giving an exhaustive catalogue, I’ll begin by mentioning Le Corsaire, based on Byron’s narrative poem and choreographed by Petipa in 1899. There is Fokine’s Le Spectre de la rose, drawn from a lyric by Théophile Gautier, as well as Nijinsky’s L’Après-midi d’un faune from 1912, which was inspired by the Mallarmé poem. And that same theme was thoughtfully updated in the early 1950s by Jerome Robbins in a work for the New York City Ballet. A few years earlier, Robbins had choreographed The Age of Anxiety, a ballet based on a dialogic long poem by W. H. Auden. Stepping back a decade, recall Martha Graham’s Letter to the World of 1941, whose title comes from the first line of Dickinson’s poem, “This is my letter to the World/That never wrote to me,—”. The work has two characters, named simply “The One Who Dances” and “The One Who Speaks,” the latter reading passages from Dickinson in the course of the dance. From the same years is Graham’s Appalachian Spring, choreographed to one of Aaron Copland’s most vital scores and drawing part of its inspiration from a passage in Hart Crane’s “The Dance”:
O Appalachian Spring! I gained the ledge;
Steep, inaccessible smile that eastward bends
And northward reaches in that violet wedge
Of Adirondacks!
In the tradition of story ballets, there is John Cranko’s elegant Eugene Onegin, based on Pushkin’s masterpiece and choreographed to music by Tchaikovsky for the Stuttgart Ballet in 1965. And then, bringing the topic up to our own day, we have the splendid example of Mark Morris’s L’Allegro, il Penseroso ed il Moderato, to the Handel’s score, a work using verses from Milton’s paired pastoral poems “L’Allegro” and “Il Penseroso.” Mr. Morris incurs a second debt to poetry (or at least to a poet) by borrowing from the 1816 set of pen and watercolor drawings William Blake made to accompany the Milton poems. Blake’s drawings suggested not only costumes and color schemes but also dance steps as well, which sometimes resemble the poses of Blake’s exhilarated or pensive figures. The resulting work, based on several artistic sources from disparate eras, is described by dance critic Joan Acocella (in her book Mark Morris) as follows: “So everything is there together, and bound together—the universe, the human race, and also the arts, for L’Allegro is a hymn to the unity of poetry, music, and dance: a story of how each . . . can follow its own laws and still harmonize with the others. The piece is also a hymn to the unity of history, for the poetry, music, and dance that are wedded in this piece are from the seventeenth, eighteenth, and twentieth centuries.” To that cavalcade of earlier eras, Ms. Acocella also appends the nineteenth century (because of Blake’s drawings) and finally reaches back as far as the third century B.C.E., when the tradition of pastoral poetry was first inaugurated in Hellenistic Alexandria.

We’re also concerned here with the complementary question, how poetry has drawn on dance—as religious ritual, performance art, or a popular pastime—for subject matter and for aesthetic cues. A vast topic, because the association of the two arts is as old as the Western tradition. Only think of the Psalms, the Bible’s most ringing praise songs—for example, Psalm 149, which exclaims, “Let them praise his name in the dance: let them sing praises unto him with the timbrel and harp.” Or, to turn to Greek tradition, recall (from Book 18 of the Iliad) the description of the shield that Hephaistos makes for Achilles. Among the subjects sculpted on it is an elaborate scene of dancing, with young men and women engaged a choral performance described this way: “At whiles on their understanding feet they would run very lightly,/as when a potter crouching makes trial of his wheel, holding/it close in his hands, to see if it will run smooth. At another/time they would form rows, and run, rows crossing each other./And around the lovely chorus of dancers stood a great multitude/happily watching, while among the dancers two acrobats/led the measures of song and dance revolving among them.” [Richmond Lattimore, trans., ll. 570-72; and ll. 599-605]

2 febbraio 2010

«'Lazio insolito' di Alberto Crielesi. La recensione» di Nicola D'Ugo


Alberto Crielesi,
Lazio insolito.
Appunti di viaggio tra sacro e profano
,
Photo Club Controluce,
Montecompatri 1998.
224 pp. EUR 12.00
Non mancano certo copiosi volumi che illustrino le risorse storiche del Lazio. Ve ne sono di interi dedicati a città, villaggi, quartieri, singoli palazzi. E più se ne sente raccontare, più appare evidente l'enormità delle lacune conoscitive, l'adagiarsi d'enormi ombre fra le brevi luminarie del dettaglio, dell'episodio, del particolare.

Se si pensa ai dodici libri che compose l'antropologo ottocentesco James G. Frazer per spiegarsi il mito di Diana a Nemi e lo strano re che vi dimirava, si comprende perché Lazio insolito abbia cercato di narrarci in modo diverso territori su cui si è andata sedimentando l'opera di migliaia di studiosi. Del mito di Diana, salvo un vago accenno onomastico, l'autore non ci dice nulla, preferendo raccontarci quel luogo in modo "insolito", dal I sec. d.C. agli anni quaranta del presente.