Huīzōng, Piccione su ramo di pesco (1108). |
La legge morale nella pelle del serpente
Qualcosa dissolve, a ritroso, nelle profondità della storia, si disfa in fondo ad uno sguardo che, nel tentativo di fissarsi ad un oggetto remoto, finisce per confonderne i contorni al nebbioso paesaggio che, poco fa, quando lo sguardo si levava appena e desideroso di sensibile corrispondenza, lo delimitava ancora entro una forma nitida e tersa.
Sulle antiche pitture vascolari della dinastia Shāng (1766-1122 a.C.) uno dei soggetti rappresentati con maggior frequenza è il demone tāotiè, una figura assai complessa, costruita unendo parti anatomiche di tori, tigri, arieti e serpenti. Della parola tāotiè si era andata perdendo la conoscenza del significato preciso a partire dal periodo feudale degli Stati Combattenti (403-221 a.C.) ed il concetto da essa designato già svaniva inesorabilmente nella cognizione dei cinesi delle dinastie Qín (221-206 a.C.) e Hàn (206 a.C.-220 d.C.), sotto le quali si compì l’unificazione dell’impero, che raggiunse allora un’estensione territoriale paragonabile a quella della attuale Repubblica popolare. Alla luce delle categorie dell’antropologia culturale il tāotiè viene oggi concepito quale simbolo della divinità della Terra, mutevole e caotica espressione delle forze originarie in essa contenute. Una tale definizione del simbolo del tāotiè, del resto, non può che riuscire per noi insoddisfacente, giacché esclude tutta una modalità essenziale di percezioni che ne rendevano vivo il senso all’umanità che lo frequentò da vicino. Lo scorgiamo pertanto attraverso una cortina di nebbie, alla quale è confuso non meno che allo sfondo da cui affiora in minimo rilievo, non meno che al paesaggio cui è unito da un vincolo tanto inestricabile quanto lieve, dove si agita appena, assomiglia alla radice di uno strano albero che, d’altronde, non ravvisiamo meglio di esso, anche perché ecco che, ora, già ci pare che il tāotiè si scuota, voglia sgusciar fuori da quella sua primitiva pelle, ci sembra che frema e strisci: è una serpe avvolta alle rocce di un declivio montuoso, una lasca che sguscia nell’acqua limacciosa di un fiume.
Recipiente portatile cinese, bronzo (fine del II millennio a.C.), Musée Cernuschi, Parigi. |
Un tale tremore naturale, cui corrisponde uno speculare sentimento religioso, ad un tempo impetuoso ed evanescente, un tale riflesso incondizionato, che ha ogni ragione per lasciarsi avvertire come se emanasse dalla sorgente originaria dell’essere, percorre tutta la storia dell’etica e dell’estetica cinesi. Di esso l’insegnamento di Kong Zi, impartito nel VI sec. a.C. ai discepoli affinché lo raccogliessero nelle pagine che avrebbero costituito κατ’ εξοχήν il testo classico della letteratura cinese, il Lún Yǔ, compì l’innesto sul corpo della legge secolare, ne sancì l’incarnazione nei precetti di una morale concreta e nelle regole dell’amministrazione del potere, ponendo limiti rigorosi all’uso della violenza dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Tale incorporamento si realizzava sui lembi di una duplice sutura, una duplice serie di precetti: quelli alla cui osservanza era tenuto il letterato, saggio sapiente nonché funzionario della già evoluta burocrazia statale, e quelli cui era tenuto il Signore, modello di virtù ideale nella cui persona vivente trovano complemento il brivido originario di cui si è detto (il qì, o ki in giapponese) e l’azione umana deliberata. Grande enfasi la dottrina confuciana riservò all’oculata osservanza delle cerimonie e dei rituali, intesi a preservare l’unità spirituale con le generazioni passate e ad onorare il culto degli antenati. Il saggio confuciano affonda risolutamente il proprio sguardo nel passato e, dinanzi a tutto ciò che lo distragga da tale contemplazione, rimane, in sostanza, fermo e irremovibile.
Dell’architettura culturale confuciana, attraverso la quale l’uomo aveva introdotto la propria presenza nel paesaggio della natura, il daoismo, un paio di secoli più tardi, avrebbe esaltato alcuni aspetti prospettici: con il progredire dell’oblìo del simbolo originario, i maestri daoisti avrebbero messo a fuoco la nebbia che si infittiva davanti ad esso e, riflettendovi il proprio sguardo, avrebbero cominciato a intravedere ciò che stava loro alle spalle, il futuro. Non il futuro cronologico, quale convergenza ad un puntuale e replicato presente del fascio di infinite potenzialità che lo attraversano, ma proprio il contrario, il futuro come apertura del tempo dell’attesa, dispiegato ventaglio delle evenienze, luogo dell’illuminazione improvvisa. Scrisse Mencio (372-289 a.C.): «Si lede il Dao se ci si attiene all’uno, se si accoglie un principio e se ne trascurano cento.»
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Cenni storici sulla diffusione del buddismo nell’Asia orientale
All’imperatore Míng Dì, che regnò tra il 57 e il 75 d.C. sulla dinastia degli Hàn orientali o posteriori, nel corso di uno dei relativamente brevi periodi in cui l’Impero non fu unificato sotto un unico sovrano, la storiografia fa risalire la prima penetrazione del buddismo nella cultura cinese. Alla fine del II secolo esistevano già molte scuole e templi buddisti, soprattutto nella vasta e fertile regione tra lo Huang He e lo Yangzi, nonché attorno alla capitale di allora, Luòyáng. La prima forma conosciuta in Cina fu quella dell’amidismo, associata alla teologia della Terra Pura e ad un sentimento di religiosità popolare che favorì l’identificazione delle varie concezioni buddiste con le figure della religione tradizionale cinese, ad esempio del bodhisattva Avalokiteśvara con la dea cinese della misericordia, Guanyin. Anche la dottrina che è comunemente associata a caratteristiche spiccatamente autoctone, il buddismo Chán, proveniva dall’India, tramite l’insegnamento del monaco cingalese Bodhidharma, ospite alla corte dell’imperatore Wu agli inizi del VI secolo. In effetti esistono considerevoli affinità tra il daoismo, che era seguito con molta cura dalle dinastie regnanti del tempo, e questa forma buddista, la quale, al contrario dell’amidismo, pone enfasi sulla conoscenza del sé a scapito degli aspetti devozionali. Sotto tale forma il buddismo raggiunse il Giappone, quando la casata imperiale Yamato affermò il proprio potere, durante l’VIII secolo, e si aprì ad influssi emulativi nei confronti delle consuetudini culturali e delle tecniche di esercizio del potere tipiche della dinastia Táng che, a partire dal 618, aveva gloriosamente ricostituito l’unità dell’Impero cinese. Da allora, in Giappone, il buddismo Zen rimase una dottrina di esclusivo appannaggio delle caste nobiliari. Soltanto in seguito, altre sette diffusero precetti che fecero presa su strati più vasti della popolazione. La teologia Jōdo shū, che proveniva appunto dall’assimilazione dell’amidismo cinese, fece proseliti tra i contadini e i ceti più umili soltanto a partire dal XII secolo.
La disciplina, che ebbe invece non solo caratteristiche più spiccatamente nazionali ma che fu praticata trasversalmente in tutte le caste, prese origine dalla predicazione del monaco Nichiren, il quale visse tra il 1222 e il 1282. Il diffondersi del suo insegnamento presso il popolo fu dapprima vigorosamente osteggiato dagli shōgun del clan Hōjō, benché in seguito la storia nazionale abbia attribuito al Daishōnin Nichiren meriti addirittura patriottici, tra i quali quello di aver scongiurato, scatenando contro le loro flotte prodigiose tempeste, ben due tentativi d’invasione da parte dei Mongoli.
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Sviluppo economico durante la dinastia Sòng e germi del capitalismo
Fino, dunque, nelle modalità di assimilazione del buddismo, che pure fu elemento comune ad entrambe almeno dal VIII secolo in poi, le culture della Cina e del Giappone manifestano discordanze e specificità essenziali. All’inizio del X secolo nell’arcipelago era praticata un’economia di pura sussistenza, la sovranità era ripartita presso numerosi feudatari e la pur sfarzosa corte imperiale di Kyoto sviluppava un canone estetico e intellettuale totalmente avulso alle questioni concrete dell’organizzazione dello Stato nascente. Testimonianza di ciò è offerta nella compilazione della prima antologia di poesie giapponesi, il Kokinwakashū (Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne), che nel 905 d.C. l’imperatore Daigo commissionò al sovrintendente dell’Archivio di corte, il nobile Ki no Tsurayuki. In oltre mille liriche, caratterizzate dalla espressività epigrammatica e da uno stile colto e raffinato, incline all’intimismo sentimentale non meno che al distacco contemplativo di ascendenza Zen, tale silloge segna una compiuta evoluzione rispetto ai canoni della poesia continentale che, circa un secolo prima, impregnavano ancora il tono della precedente Man’yōshū (Raccolta di diecimila foglie): ne emerge una visione del mondo chiusa e, in definitiva, autoreferenziale.
Negli stessi anni, in Cina, la dinastia Sòng andava invece adottando un sagace politica di equilibrio verso le potenze che ne minacciavano i confini, in particolare nei confronti dello Stato di Liáo, abitato da popolazione di etnìa qidan, del ceppo tunguso-siberiano, il quale si estendeva nelle cosiddette sedici prefetture del nord-est, che avevano fatto parte integrante dell’impero sotto i Táng (618-907 d.C.). Tale situazione, relativamente stabile e pacifica, favorì un consistente progresso economico e, in concomitanza ai rilevanti sviluppi nelle tecniche di coltivazione, alla nascita di un forte commercio interno e al perfezionamento della burocrazia statale, rifondata sulla base del sistema degli esami e in osservanza dei principî confuciani, produsse un rapido incremento demografico e un’accresciuta prosperità. È stato calcolato che il volume del commercio nella capitale di Kāifēng, collegata tramite il Grande Canale ai bacini dello Huang He e dello Yangzi, ammontasse almeno al doppio di quello di Londra all’inizio del Settecento. A dispetto della congiuntura favorevole non si sviluppò un nucleo consistente della proprietà privata, tale da avviare una fase di capitalismo vero e proprio. Tra le cause cui gli storici attribuisco ciò, occupa un posto ragguardevole proprio la crescita della burocrazia statale, misurabile vuoi nei termini della proliferazione delle cariche vuoi in quelli di una maggiore complessità dei compiti e delle strutture organizzative. Tra i ruoli che la burocrazia non disattese ci fu, senza dubbio, quello economico. Oltre a rendere efficiente il sistema di riscossione delle imposte, l’amministrazione partecipò attivamente al commercio, acquistando eccedenze di prodotti, principalmente agricoli, per rivenderle in altre province così da calmierare il regime dei prezzi. Il celebre riformatore confuciano Wang Anshi (1021-1086 d.C.) promosse l’istituzione dell’Ente del tè e dei cavalli, che provvedeva ad esportare il tè del Sìchuān in Tibet e ad acquistare là cavalli da guerra per le truppe imperiali. Un primitivo esempio di capitalismo di stato, o quantomeno di mercantilismo di stato.
L’ultimo imperatore della dinastia Sòng, pittore e calligrafo, fu una personalità artistica di assoluto rilievo. Salito al trono nel 1101, Huīzōng non fu certo un pioniere nella pratica e nello studio delle discipline artistiche, giacché molti dei sovrani che lo avevano preceduto non le disdegnarono affatto. Cionondimeno a lui non soltanto va ascritta una delle prime attribuzioni certe di un’opera d’arte cinese al suo autore, poiché a partire da dipinti quali il Piccione su un ramo di pesco conservato al Museo Nazionale di Tokyo egli appose ad essi la propria firma, ma gli va riconosciuto pure il merito di aver fatto compilare un catalogo completo e ragionato della collezione personale, il quale avrebbe costituito, nei secoli a venire, un’autentica enciclopedia della pittura dell’Asia orientale. Nella classificazione molto accurata che lo contraddistingue, le categorie sotto le quali figurano il maggior numero di opere sono: fiori e uccelli, temi daoisti o buddisti, paesaggi. Sulla stregua della contemplazione della natura e ricorrendo alle affini sensibilità delle filosofie daoista e Chán, i paesaggisti cinesi fecero aleggiare la nube degli sguardi su una nuova visione, dove le opere del lavoro umano affiorano dallo sfondo nel medesimo momento in cui dissolvono in un’umida caligine, quasi la fatica e il sudore che sono costate evaporassero sotto ai raggi di un sole futuro. Dentro ad una grotta, di proporzioni invero umili rispetto alla montagna (shān) che la sovrasta, si riescono a scorgere a stento delle figure umane mentre si sporgono sull’acqua (shuĭ) di una sorgente scaturita dai recessi dell’ipogeo. Forse le persone che si intuiscono appena, avviluppate in fresche ombre, sono intente a risciacquare panni nel limpido flutto, forse affilano lame sulle pietre che il torrente ha a lungo levigato, questo non si riesce a distinguerlo con chiarezza. Shāne shuĭ, montagna e acqua, costituiscono in effetti il senso primo dell’opera, da cui discende e prende vita ogni particolare che vi sia rappresentato. E infatti la parola cinese che noi traduciamo con «pittura di paesaggio» è shān shuǐ.
Ma Yuan, Letterato che osserva una cascata (fine XII-inizio XIII sec.), inchiostro e colori su seta. The Metropolitan Museum Of Art, New York. |
La morte dell’imperatore Huīzōng, avvenuta nel 1135 in Siberia, dove egli era stato condotto in prigionìa dagli invasori jurchen tungusi, segnò la fine della dinastia e l’inizio di un periodo in cui lo slancio precapitalista caratterizzante l’epoca Sòng fu depresso da una lunga dominazione straniera. Solo nel 1368, rovesciando la dinastia Yuán insediata dai conquistatori mongoli, i Míng tornarono ad unificare il territorio dell’impero sotto una stirpe autoctona. Proprio in quel tempo, in alcuni luoghi della lontana Europa andavano prendendo corpo fenomeni di evoluzione della società in senso proto-capitalistico. Nelle Fiandre, che appartenevano ancora al vetusto e anacronistico regno di Borgogna ma già costituivano uno dei centri nevralgici del commercio continentale, Jan van Eyck non soltanto introdusse, come Huīzōngin Cina, la consuetudine di siglare le opere pittoriche, inibita fino ad allora dalla committenza pressoché esclusivamente religiosa, ma fece comparire il paesaggio quale elemento di rilievo nella composizione delle proprie tavole. Dopo aver abbattuto una delle pareti delle architetture ecclesiastiche desunte non senza fatica dai modelli classici della basilica romana al fine di costruirne gli scorci prospettici dove inserire i soggetti delle sue scene, egli riuscì a far emergere il paesaggio dietro ad archi a tutto sesto soffolti da capitelli corinzi ma pur sempre soffocato in una minuzie di particolari, quali ad esempio se ne ravvisano in abbondanza nella Madonna del cancelliere Rolin del Louvre, pur sempre sovrastato dalla imponente munificenza dei notabili che, in veste di nuovi committenti, non si facevano scrupolo di figurare a tutto tondo ed in enfatiche proporzioni al fianco delle immagini sacre.
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Astrazione e forme della libertà prefigurata
Fu proprio nei primi anni dell’epoca Muromachi (1333-1568 d.C.) che in Giappone si verificò una reviviscenza dello stile pittorico cinese. Gli shōgun Ashikaga, risolta la crisi politica e militare che aveva spaccato in due il paese, messa in dubbio la legittimità della linea dinastica imperiale e coinvolto tutti i clan feudali in una lotta senza quartiere, posero la sede del governo a Kyoto, nel quartiere di Muromachi, eponimo dell’epoca che ebbe allora inizio.
Sesshū Tōyō, Paesaggio a inchiostro spezzato, inchiostro su carta, 1495, dal rotolo Haboku sansui. Museo Nazionale di Tokyo. |
Sin dall’VIII sec. la pittura shān shuǐ aveva affinato il proprio canone nella polarità dialettica tra due opposte scuole: Bĕihuá, o pittura settentrionale, e Nánhuá, o pittura meridionale. La scuola Bĕihuá aveva eletto a proprio capostipite il monaco Yùquán Shénxiù, il quale nel VII sec. aveva fondato la setta «gradualista», che ricercava l’illuminazione attraverso il rispetto della regola monastica e l’attento studio dei Sutra. Nella composizione essa aveva privilegiato i soggetti cari alla corte imperiale e sviluppato una tecnica impeccabile e sofisticata. La scuola Nánhuá, o scuola dei letterati (wénrénhuà), faceva invece capo a Huìnéng, contemporaneo di Shénxiù e fondatore della setta del “wu nien”, del “senza pensiero”, che dalla meditazione dinanzi agli oggetti della natura si proponeva di far sorgere l’illuminazione improvvisa. Di tale seconda corrente si sentirono i prosecutori gli artisti di maggior talento dell’epoca Muromachi. Nell’opera del monaco Zen (traslitterazione della parola cinese chán, la quale lo è, a sua volta, di quella sanscrita dhyāna, «meditazione») Sesshū, di meno di trent’anni posteriore a quella di Jan van Eyck, la nebbia della reminiscenza, quel brivido creativo e spirituale nella cui ottica si dissolve l’oggetto della contemplazione, ha quasi del tutto cancellato ogni elemento accessorio. L’artista coglie l’essenza del paesaggio con un’espressione tanto libera e astratta quale in occidente si dovrà attendere per almeno un secolo, riconoscendola forse, prefigurata o latente, su alcune tele di Albrecht Dürer.
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Origini di una ferita
Tra i primi occidentali ad approdare nelle terre del Giappone si contano, fervidi e zelanti nel perseguire gli scopi evangelici, i missionari della Compagnia di Gesù. Fondata nel 1534 a Parigi, dove alcuni giovani di insigni casati aristocratici spagnoli e portoghesi avevano condotto studi in teologia presso la prestigiosa Università della Sorbonne, la Compagnia impugnò le armi di una fede appassionata e persuasissima al fine di evangelizzare i popoli dell’Oriente. Francesco Saverio, nobile basco di Xavier, appartenente allora al Regno di Navarra, ricevette il sostegno del Re del Portogallo João III per istruire dalla colonia di Goa, sulla costa occidentale dell’India, una serie di viaggi che lo condussero dapprima nella penisola di Malacca e in Indonesia, poi fino a Kagoshima, sull’isola di Kyūshū, la più a sud tra quelle che compongono l’arcipelago del Giappone, dove giunse nell’agosto del 1549. La letteratura agiografica sottolinea lo stato di ispirazione mistica pervaso dalla quale il Padre Santo compì la propria opera di proselitismo, perseguita con dedizione tale da non risparmiarlo alla morte, che lo colse sotto un’umile tenda, al solo cospetto dei servitori personali, tali Antonio e Cristóvão, mentre attendeva presso la città cinese di Shàngchuān, nella provincia meridionale del Guăngdōng, di essere raggiunto da una delegazione consolare portoghese, che in realtà non partì mai da Goa, e di essere condotto da alcuni mercanti nativi, i quali non fecero a tempo a dar seguito alle loro promesse, fino alla capitale, dove regnava l’imperatore Jiājìng della dinastia Míng. Mentre da Kagoshima faceva ritorno a Goa, la nave di Francesco Saverio era stata sospinta là da una tempesta, della cui natura provvidenziale egli restò convinto fino al suo ultimo giorno. Prima della fine dolorosa e conseguente alla imitatio Christi quale era stata concepita secondo le regole dell’ordine di Ignacio de Loyola, egli era però ampiamente riuscito nei propri intenti sull’isola di Kyūshū. Si narra che, soltanto nei primi mesi di predicazione, riuscisse a guadagnare alla fede cattolica centinaia di anime. E forse fu ancora su ispirazione divina se seppe ben destreggiarsi nei travagliosi frangenti in cui andava rompendosi l’equilibrio feudale del medioevo giapponese e fu capace di comprendere i reali rapporti di potere che legavano la figura dell’Imperatore, già allora relegata ad assolvere un ruolo esclusivamente simbolico, gli shōgun del clan Ashikaga e i vari daimyō locali. In Giappone il sistema delle missioni gesuite continuò a funzionare assai bene anche dopo aver perduto la propria guida spirituale, cosicché esse costituirono una efficace testa di ponte per i traffici mercantili portoghesi e spagnoli nell’arcipelago e nel resto dell’Asia sud-orientale.
Il messaggio cristiano si diffuse con grande rapidità soprattutto tra le caste dei contadini, ridotti in stato di totale indigenza dalle guerre del periodo Sengoku per l’unificazione politica e militare dell’Impero. Dopo che gli shōgun del clan Tokugawa furono riusciti nel loro intento ed ebbero prevalso sui rivali al prezzo di sanguinose stragi, durante l’opera di edificazione di uno Stato centralizzato essi dovettero fronteggiare la resistenza di un’ormai folta popolazione di convertiti alla fede cristiana. Non furono pochi i martirî, che soprattutto i frati francescani affrontarono levando al cielo gioiose lodi al Signore – celebre quello del 1597, quando 26 seguaci del Santo di Assisi furono crocifissi sulla collina di Nishizaka, sovrastante la città di Nagasaki –, le efferatezze furono crudeli e insensate, come nella repressione della rivolta contadina di Shimabara del 1637. Poco alla volta gli shōgun promulgarono una serie di restrizioni al commercio estero e finirono con l’espellere tutti i residenti stranieri dal territorio del Paese. Dal 1640 in poi fu consentito soltanto ad un gruppo di olandesi della Vereenigde Geoctroyeerde Oostindische Compagnie, la Compagnia Olandese delle Indie Orientali, di risiedere su un’isola artificiale nella baia di Nagasaki, l’isola di Dejima. Gli olandesi godettero di tale trattamento di favore poiché erano gli acerrimi rivali degli spagnoli nei traffici commerciali in Oriente, loro nemici giurati a motivo della confessione nazionale calvinista e in seguito alle cruente guerre di indipendenza che le Province Unite avevano sostenuto contro i sovrani Asburgo di Spagna. Nell’arcipelago giapponese la repressione del cristianesimo proseguì ancora a lungo, e gli shōgun si avvalsero dell’alleanza del clero buddista. Nel 1664 fu emanato un decreto in cui si prescriveva a tutti i sudditi dell’Impero l’obbligo di registrarsi presso un tempio buddista.
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Pittura di paesaggio e impatto dell’espansione mercantilista
Le traumatiche vicissitudini dell’epoca Muromachi e della prima parte di quella Tokugawa (1603-1867) lasciarono nell’arte del Giappone una traccia ben più tenue di quella che i preti della dominazione dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura non hanno mancato in ogni epoca di caldeggiare con ipocrita tiepidità.
L’abitazione tradizionale giapponese è costituita in moduli abitativi i cui volumi possono essere variati, a sentimento, riposizionando pannelli scorrevoli, sopra i quali era antica usanza dipingere scene di paesaggio. Sopra uno di tali pannelli, appartenente alla serie nota come Nanban-byôbu (Paravanti dei barbari del sud), un artista ignoto del XVII secolo raffigurò una delegazione di Gesuiti portoghesi mentre viene ricevuta al momento dello sbarco sulle rive dell’isola di Kyūshū. I padri missionari vi appaiono, non senza cura di dettagli, smarriti in un dedalo di bracci di mare e banchi di sabbia, frastornati e sospesi in un paesaggio di tanto imaginosa astrazione da galleggiarvi come sui lembi di una nube aurea, al di là dei quali, con sconcerto, essi non vedono occhieggiare i simboli del loro dio audace e vendicativo.
Sotto il governo dei Tokugawa, con l’avvento delle pesanti restrizioni al commercio estero, la pittura di paesaggio allentò i legami con i modelli storici cinesi. Sull’esempio della Accademia di Hànlin, le cui origini risalivano alla dinastiaTánge che al principio del XII secolo proprio Huīzōng aveva rifondato e condotto ai fasti che le avevano meritato il nome esaltante e significativo di “foresta dei pennelli”, su tale esempio illustre, nel Giappone della metà del XV sec, nel cuore del periodo Ashikaga, era nata una scuola pittorica di corte, la scuola Kanō. Essa aveva enfatizzato l’attenzione per l’elemento decorativo e, trascurando la ricerca interiore dei seguaci della pittura Zen e della Wénrénhuà, si era volta ad una figurazione naturalistica magniloquente, quale esigeva il gusto orgoglioso dei nuovi potenti.
Fu l’ascesa di una classe sociale borghese, quella dei chōnin, che dettero nerbo al commercio e si giovarono del declino economico dell’aristocrazia feudale, vessata dai gravami imposti dal governo di Edo, fu tale ascesa a creare il terreno fertile per il sorgere di una nuova sensibilità artistica. Il processo di riproduzione a stampa era stato praticato in Cina già dal IX secolo. Allora, migliaia di immagini del Buddha Amida venivano impresse su torchi lignei e distribuite ad un pubblico vasto, anche tra i ceti più umili, giacché il semplice possesso di tali oggetti devozionali valeva quale ottimo viatico per conquistare, oltre la morte, il Paradiso della Terra Pura. Nel Giappone del XVII secolo, invece, la stampa xilografica ebbe una diffusione di tutt’altro genere. L’arte ukiyo-e, la «pittura del mondo fluttuante», si strutturò secondo un sistema organizzativo del tutto nuovo, precorrendo addirittura le tecniche e la divisione del lavoro caratteristiche dell’editoria moderna. Un ricco imprenditore, esperto del gusto dei destinatari delle opere a stampa, commissionava agli artisti i disegni, i cui soggetti erano scelti nelle case di piacere dove la nascente borghesia amava consumare i frutti di prosperosi guadagni o tra le bellezze paesaggistiche dei luoghi dove i membri dell’aristocrazia feudale facevano tappa nel recarsi presso la capitale a rendere obbligatorio omaggio allo shōgun. Un intagliatore ricavava poi dal disegno la matrice lignea per la stampa. Uno stampatore, infine, realizzava un numero di copie adeguato a soddisfare le richieste degli acquirenti. Benché tale sistema risulti palesemente segnato dalle insorgenti logiche del profitto, nell’opera dei maestri che sospinsero il genere della stampa artistica fino ad un livello di assoluta eccellenza vediamo riemergere quel brivido che si propaga sin dalle origini, da quando l’arte aveva preso a indagare il mistero della presenza umana nella natura del mondo.
Utagawa Hiroshige, Le cinquantatre stazioni di posta del Tōkaidō: «Quarantacinquesima stazione: Shōno» (1833-34). |
Tale brivido estetico, che si lascia percepire nella sensibilità artistica di tutte le epoche, ha per sua natura una sostanza etica e cognitiva. E non è forse possibile riconoscere persino una sfumata lezione confuciana in uno degli episodi della serie di incisioni nota come Le cinquantatre stazioni di posta del Tōkaidō, dove Utagawa Hiroshige raffigurò alcuni portatori seminudi che, sotto una pioggia dirotta, trasportano un palanchino lungo uno scivoloso declivio? Non sorge forse spontanea la speranza che, in vetta a quel colle impervio, il gentiluomo condotto dagli affranti portatori andrà a compiere un qualche atto virtuoso, il quale ripaghi la loro ostinata solerzia ben al di là di quanto possa una pattuita equivalenza di valori di scambio? In ciò che si intuisce al di là della grigia cortina dei rovesci di pioggia non riecheggia forse un’esortazione luminosa, dove l’essere è congiunto all’espressione e il pensiero all’azione? Non può forse udire ciascuno, pronunciata da se stesso e a se stesso con voce finalmente umana, la massima di Kong Zi: «Il signore porta alla luce il bello degli uomini, non il male. Non è compito del giusto diffondere o preservare la civiltà con la violenza e l’ignoranza»?
La pittura ukiyo-e che, dal tempo del quasi mitico fondatore Iwasa Matabei, ebbe tanti maestri capaci di far risuonare in essa una musica di forme e colori essenzialmente umani, quali Kitagawa Utamaro (1753-1806) o Katsushika Hokusai (1760-1849), fu disprezzata con tenacia dai potenti del Giappone quale arte profana e irriverente. All’inizio dell’epoca Meiji (1868-1912), dopo la riapertura dei traffici commerciali imposta dalle potenze imperialiste, essa giunse in Europa sulle carte da imballaggio che avvolgevano principalmente prodotti di lusso. In virtù di un caso che non dovrebbe apparirci sorprendente né arbitrario, giacché manifesta un’astuzia della ragione che, senza remore o ottundimenti, dovremmo aver infine appreso ad amare, artisti di genio quali Édouard Manet, Edgar Degas, Henri de Toulouse-Lautrec e Vincent van Gogh vennero così a conoscere la pittura ukiyo-e e ne trassero ispirazione per alimentare la rivolta contro l’arte accademica ottocentesca, per dare vita ad una nuova stagione universale di sapienza e di bellezza.
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