12 ottobre 2017

«"Ulisse" polifonico. L'irriducibile dialogismo di James Joyce» di Nicola d'Ugo




Ulisse. James Joyce. Già pronunciare i due nomi mette paura! Ma poi diventa motivo di orgoglio. Un'opera letteraria cosí importante, cosí complessa… Complessa, sí: difficile da seguire forse non proprio. Difficile piuttosto da ultimarne la lettura. Ma a lettura finita... Non si ricomincia da capo: ciò che conclude illumina l'inizio, ci dice che Stephen Dedalus, giunto a pochi passi da Molly proprio a casa sua in Eccles Street, rinuncia ad incontrarla. Mentre forse era tutto lí quel che cercava: la poesia, il senso della vita, l'ombelico del mondo, il tempio d'Apollo a Delfi.

Strana poesia però, cosí sensuale, cosí carnale che, trattandosi di Molly, «[y]our head it simply swirls», «la testa te la fa proprio girar» (U 4.438), direbbe Bloom. Sí, ti fa proprio girar la testa: piú dionisiaca che apollinea, non fosse per quella casa che la ospita, punto fermo del lungo inconcludente andare a zonzo di Leopold. O forse non è cosí, sono solo impressioni che vengono a galla a me lettore, come nell'inizio di «Sirene»: frasi smozzicate, zampilli della memoria, rigurgiti della frase. I «frammenti […] puntellati contro le mie rovine» di T. S. Eliot, le «inutili macerie del tuo abisso» montaliane, le «cascatelle trattenute da un dito» di Zanzotto.

Che poi non è la stessa cosa. Parlare di correlativi oggettivi è troppo facile. È una nozione estetica, non una poetica e ancor meno un linguaggio. Se Montale lavora sull'esperienza individuale, Zanzotto fa giochi con gli oggetti, evocando scenari impraticabili ma suggestivi. Ed Eliot? Lui lavora con le voci, gli stili, le brusche interruzioni: almeno ne La terra desolata (1922). Testimonia di un soggetto frantumato: né soggetto sconsolato, né oggetto pervasivo.

Voci, stili, brusche interruzioni… sembra di essere nell'Ulisse. Ma l'Ulisse ha un sostrato comune, una storia che fa da sfondo, un filo continuo che porta da un luogo a un altro i personaggi. Di interruzioni ce ne son molte, ma i personaggi non si sognano di apparire dal nulla, di essere in due posti diversi allo stesso momento, di saltellare in avventure di tre secoli, salve le stramberie di «Circe», che sono tutto un altro paio di maniche. I personaggi stanno buoni buoni al posto loro: chi nella Torre, chi nell'Ormond Bar, chi a portare a spasso i bambini sulla spiaggia. La giornata è solo una, il 16 giugno 1904. Il luogo è Dublino e non un altro. Terra desolata? No, qui c'è un romanzo bell'e buono, fatto di fabula ed intreccio classici.

Quello che colpisce qualsiasi lettore di Ulisse sono tre caratteristiche: il velo d'oscurità che avvolge le situazioni, l'erudizione dell'autore e il cambiamento di stile in cui sono scritti gli episodi. Se c'è qualcosa che rende familiare un testo, nel prosieguo di una lettura lunga come l'Ulisse, è la chiave interpretativa. Incontrato uno stile, per quanto arduo sia, la buona volontà di chi legge può pacificarsi almeno in questo: di questo libro apprezzo il suono o le immagini o qualche idea sul mondo. Paul Valéry avrebbe seguito la serie: se il testo suona bene allora le immagini, se queste funzionano cerchiamone un senso. 

Ulisse mette alla prova questo schema. Prova dura, perché mentre ne apprezziamo la prosodia ecco che Stephen Dedalus si sofferma in meditazioni filosofiche: qualche pensiero, poi via, di nuovo la torre, il mare, gli scomodi coinquilini. Situazioni facili da capire, poi frasi un po' troppo ambigue:

Woodshadows floated silently by through the morning peace from the stairhead seaward where he gazed. Inshore and farther out the mirror of water whitened, spurned by lightshod hurrying feet. White breast of the dim sea. The twining stresses, two by two. A hand plucking the harpstrings, merging their twining chords. Wavewhite wedded words shimmering on the dim tide. (U 1.242-47)

Ombre boschive fluttuavano in silenzio nella pace mattutina dal sommo delle scale al mare, ove lui teneva fisso lo sguardo. Sulla spiaggia e piú al largo biancheggiava lo specchio d'acqua respinto da piedi frettolosi dai calzari leggeri. Il bianco seno del mare indistinto. Gli accenti accoppiati, due a due. Una mano che pizzica le corde dell'arpa, fondendo gli accordi accoppiati. Parole sposate dalle bianche onde che baluginano sulla marea indistinta.

Cosa c'è di naturalistico in questo fraseggio pieno di metafore? E son metafore suggestive o simboli che si riferiscono ad altro? Altra domanda che viene spontanea, col senno del poi: è qui riposto un subconscio del personaggio o l'inconscio si infiltra nelle parole, emerge subdolamente attraverso le metafore, i sinonimi, le metonimie, i suoni affini? Ecco, si potesse leggere l'Ulisse cosí avremmo una bella ricetta ermeneutica, magari applicando la psicoanalisi al testo e cercandone un senso esterno. L'effetto dell'erudizione sull'uomo contemporaneo, per esempio. O l'effetto dell'arte contemporanea sulla sua percezione. Carenza affettiva, madre morta e poi?

Il bello di Ulisse è che è un testo che non fa resistenza a queste interpretazioni. Non resiste a queste e ad altre. È come se Joyce si fosse divertito a togliere al linguaggio ogni potere forte. Istanze di verità, filosofie uscite dalla fucina del diavolo, voci divine incontrovertibili, monoteistiche, fondate, inesorabili? Nulla di tutto questo. Idee, suggestioni, impressioni. Voci che girano per la città, come gli strilloni di «Eolo», con tanto di errori nei giornali che vendono. Idee. Un universo di giudizi su uomini e donne, protestanti ed ebrei, su statue da sbirciare con occhio da satiro e libri regalati, sulla nascita e sulla morte, sulla pancia di questi e sul vestito di quell'altra. Su ciò che si fa oggi e ciò che si faceva un tempo.

Dublino, 16 giugno 1904. Sembrerebbe tutto lí. Una città amministrata male da un governo straniero, ai confini dell'Europa della Belle Époque. Ci si è divertito Raymond Queneau a prenderla in giro in Troppo buoni con le donne (1947): luogo di maschilisti un po' cialtroni, vigliacchi, altro che rivoluzionari dai chiari ideali e dal cervello magari subdolo come quello di Nečaev, ma per lo meno sottile. E non aveva fatto andare su tutte le furie gli irlandesi John Synge proprio per questa rappresentazione del popolo grossolano ne Il playboy del mondo occidentale (1907)? Città provinciale, appunto, ma non nell'Ulisse.

Dublino è sí Dublino, fatta dei suoi discorsi grossolani, ma quanto resta dei personaggi di Gente di Dublino (1914)? Fanciulle come Gerty, certo, e qualche altro personaggio del romanzo. Ma qui si respira un'aria diversa. L'andare a zonzo parigino, il plurilinguismo austro-ungarico. Gente indaffarata, che ha tante idee per la testa, che vuole migliorare la città ed essere al passo con i tempi: Trieste, Zurigo, Parigi appunto. Cosa c'entra Dublino con tutto questo? Joyce non è Barry Lyndon, per cui tutto quello che gli dia lustro, non ultima l'origine ibernica, è meglio di qualsiasi altra cosa. Amore e odio si direbbe, esser di lí, ma essere stato a Londra, nella grande città: questo fa la differenza e aiuta a ironizzare sul proprio paese. Non è questo un tema ricorrente di Dylan Thomas? Gallese sí, ma meglio essere stato a Londra, altro che la provincia: si vedano le Avventure nel commercio delle pelli (1955).

C'è senz'altro questo gioco ludico nell'Ulisse: rappresentare i propri concittadini in modo buffo. Ma c'è anche un distacco dalla quotidianità del luogo e del tempo. Scritto a Trieste, Zurigo e Parigi tra il 1914 e il 1922, città dove si parla per le strade italiano, tedesco e francese, non certo l'inglese dell'Ulisse; pubblicato nel 1922 racconta una vicenda di quindici, se non vent'anni prima. E quante cose sono cambiate? La guerra anglo-irlandese (1913-1921), la prima guerra mondiale (1914-1918), il voto alle donne (1918), l'indipendenza irlandese (1921). Non è poco.

E allora perché quella data? Si dirà: perché è il giorno in cui Joyce ha avuto il primo incontro d'amore con Nora, la sua donna. Joyce è Leopold e Nora è Molly, il romanzo celebra la loro unione. Romanzo autobiografico: Joyce è cresciuto e quindi addio romanzo di formazione, addio Stephen Dedalus e tutte sue inutili aspirazioni. Bisogna parlare di cose da grandi, della famiglia e dei suoi problemi. Ma Joyce non era grande dopo e ragazzo nel 1904? Non aveva piú o meno l'età di Stephen in quella data? E il 16 giugno 1904 non è anche il giorno intermedio del mese, seguito dal mese intermedio dell'anno e dall'anno intermedio del decennio? Bisogna dar fede al dato biografico, a certe coincidenze interne alla data o al caso fortunato della coincidenza dei due?

Dublino è un pretesto, uno sfondo, l'emblema di una città universale. In un giorno qualsiasi succedono tante di quelle cose… Ma cosa succede nell'Ulisse? Un giovane lascia la casa e il lavoro, vede gli amici e alla fine della giornata si ritrova ubriaco con un uomo che se ne è andato a un funerale, ha un po' lavoricchiato, ha fatto qualche spesuccia domestica e ha deciso di invitarlo a casa propria. Certo l'uomo è stato tradito dalla moglie quel giorno stesso, e però lei è sempre lí, in Eccles Street, rimasta sveglia ad aspettarlo: anche lei ha un bel guardarsi dalle gonnelle che ronzano attorno al marito.

Storia di un uomo banale, come ha scritto Ezra Pound: o non intendeva proprio questo per «homme moyen sensuel», uomo medio e sensuale? Non è ormai tutto banale ai giorni nostri? Già, ma forse di temi meno banali ce n'erano ancora: militanza politica per la causa irlandese, i giovani morti tra il 1914 e il 1918, l'epidemia di spagnola del 1918: drammi su cui c'era modo di scegliere personaggi eroici e nient'affatto banali. Perché l'eroismo non ha mai smesso di esserci: è solo che lo si incontra sempre piú di rado.

Raffigurare l'uomo. Bene. L'uomo medio allora, l'uomo della vita di tutti i giorni. È questo Bloom con le sue perversioni, manie, idiosincrasie? O vogliamo chiamarle interessi, passioni, peculiarità? No, Leopold sarà banale, ma non ha nulla dell'uomo medio che possa interessare un sociologo. Sulla curva di Gauss starebbe un po' al di qua o al di là, mai al centro. Non smettono mai di ricordarselo gli altri, nel male o nel bene:

—He's a cultured allroundman, Bloom is, he [Lenehan] said seriously. He's not one of your common or garden ... you know ... There's a touch of the artist about old Bloom. (U 10.581-83)

«È un uomo colto, che sa fare di tutto un po', quel Bloom,» disse [Lenehan] sul serio. «Non è il primo fesso arrivato... sa... Ha qualcosa dell'artista in sé, il vecchio Bloom.»

Se Molly è almeno idealmente la donna di tutti gli uomini, Leopold è un concentrato di tutti i vizi contemporanei. A partire dalla mancanza di ideali che diano senso alla vita. Concentrazione di vizi. Mutatis mutandis fa pensare a Pečorin, il protagonista di Un eroe del nostro tempo (1841) di Michail Lermontov, cosí come lo ha descritto l'autore nella sua «Prefazione». E non senza una seriosa ironia.

Nell'Ulisse non siamo nel Romanticismo, non ci sono i duelli, gli scontri campali, le insidie sublimi del Caucaso. Ma quali sfide, quali duelli?, dice Lermontov: non hanno alcun senso, come la vita non ha senso. È già qui un nobile che anticipa il Gustl di Schnitzler, vanitoso antieroe vigliacco d'estrazione nobiliare rimasto di sasso davanti alle minacce di un fornaio: e con lui l'ultimo spasimo di una classe che, vent'anni dopo, doveva dire addio all'Impero asburgico. Solo che Lermontov strizza l'occhio al suo eroe; Schnitzler mette alla gogna il suo codardo.

Il punto è che Leopold i suoi valori ce l'ha. Soffre per la relazione extraconiugale di Molly, s'intende, ma non si lamenta di nulla. Il suo valore è il passatempo, chiudere la giornata senza guadagni e senza perdite, tranne qualche piccola, velata speculazione. Guadagnarsi il proprio ozio, affidarsi alle proprie fantasticherie. Cose che si consumano, da buon consumatore. È banale? Forse è saggio con i tempi che corrono. Non prendersela troppo per le disgrazie familiari, il suicidio del padre, la morte prematura di un figlio, le scappatelle della moglie. Tutti temi che, presi da Pirandello o da Brecht, ne avrebbero fatto l'espediente di un capolavoro teatrale a tinte fosche.

Se non fosse che poi, anche Pirandello dice basta. C'è l'espediente, ma a volte mancano i personaggi, dei loro drammi non si riesce a farne una storia. E alla fine la storia esce fuori lo stesso: Sei personaggi in cerca d'autore (1921). Non rappresentabile il loro dramma? Davvero? Ma come ci si resta male nel finale quando la bimba annega, il giovinetto si spara e la figliastra lascia la scena, si ferma fra gli spettatori, ride e se ne va da dove di solito entra ed esce il pubblico. Il dramma, uscito da una parte, ecco che rientra dall'altra. Ma non nell'Ulisse, che è figlio piú di Gargantua e Pantagruele (1564), di Tom Jones (1749) e di Tristram Shandy (1767) che non delle tragedie shakespeariane.

Un protagonista cosí leggero un grande autore lo avrebbe abbandonato. Joyce no, lo ha cercato. Senza farci moralismi sopra, senza neppure esaltarlo. La storia in sé sarebbe valsa poco e allora cos'è che conta tanto da scriverci quasi mille pagine? Idee, impressioni, suggestioni. La vita è quello che è, ci dice Joyce, senza dover andare a pescare tanto lontano. Non Parigi, non Zurigo o Trieste. Basta Dublino. Non ora, ma un po' prima, come tutte le storie che, per essere credibili, hanno il paradossale bisogno di essere già passate. Non era un'idea di Aristotele questa? Va bene anche a Joyce, ma per screditarla.

Ed ecco che il linguaggio scredita il contenuto. Il messaggio, per essere credibile, ha bisogno di una voce monologica, senza incrinature, diretta, perché a chi lo riceve sembri che ciò che dice se lo sia detto da solo. Non è in questo il successo dei poeti, dei grandi narratori? «una poesia è una persona a nudo… c'è gente | che dice che sono un poeta», ha scritto una volta Bob Dylan. E gli uomini nudi sono piú o meno tutti uguali da dentro la propria pelle. La morte di Ivan Il'ič (1886) di Lev Tolstoj è un esempio in questo senso, come ci ricorda, rimbalzando da un testo all'altro, Philip Roth in Pastorale americana (1997); un altro esempio è Asja (1858) di Ivan Turgenev, ed altri ce ne sarebbero a caterve. Ancora oggi c'è chi si ripete tra sé e sé «Tanto gentile e tanto onesta pare» appena si innamora di una sconosciuta. E quante volte ci siamo sentiti stanchi e desiderosi di essere lasciati «cosí | come una | cosa | posata | in un | angolo | e dimenticata»? O incompresi come ne «Il viaggio dei Magi» (1927) di T. S. Eliot?

Ulisse non è cosí. Non ha un messaggio da dare, non è diretto, la prende molto alla larga. Ce lo dice lo stile, tutt'altro che ben selezionato e monologico. L'esempio di Turgenev non è un caso: attento fino al minimo dettaglio, tutto il contrario di Joyce che prende e inserisce frasi in un discorso, non per chiarirlo ma per passare di palo in frasca (e non fa questo il subconscio? Pensare senza coscienza. Cosa sarebbe un'intuizione se non l'affiorare di questo pensare senza saperlo?); oppure, come ha ricordato Piero Boitani, ecco che Joyce lascia che il testo copiato male resti nell'edizione finale. Leggende, voci metropolitane? Forse sí, ma questo è quanto fanno pensare certi passi dell'Ulisse. Questo è quanto ricaviamo dando una sbirciatina al Rosenbach Manuscript e al Buffalo Manuscript V.A. 22.

Psicologismo in Ulisse. Lo dicono György Lukács e Michail Bachtin. Ma quando mai: uno che scrive diciotto episodi tutti con stile diverso, neanche fosse una raccolta di racconti di uno schizofrenico! Senza parlare di generi diversi, il cui piú chiaro esempio è la forma drammaturgica di «Circe» (verrebbe da dire sceneggiatura, non fosse che nel 1922 il cinema di mercato era muto e non c'era una vasta gamma di effetti visivi). Certo l'espressionismo aiuta, carica d'intensità, permette dilatazioni irreali. Ma questa è solo una goccia nel mare espressivo dell'Ulisse.

È proprio che a Joyce lo stile non va giú, non ce n'è uno che gli vada per il verso giusto. Come ne L'uomo che amava le donne (1977) di François Truffaut, a Bertrand le donne piacciono tutte, ma non ce n'è una che prenderebbe per moglie. Troppo limitativo quello che è offerto dal mondo circostante, troppo parziale. Di lí nasce il work in progress. Insufficienza espressiva della lingua, bisogna inventarsela: come ha fatto Dante, si è subito affrettato a sottolineare, un po' troppo arditamente, Samuel Beckett.

Beh, Ulisse non è neppure il work in progress. Gli stili ci sono, ma basta con la pretesa realistica di trovare un linguaggio migliore dei precedenti comunque avvertito come inadeguato. Non è questo che intende George Levine nel suo excursus sul realismo ottocentesco? Joyce è realista e non realista (Dantes docet), e l'Ottocento se l'è lasciato alle spalle coi suoi critici. Rimandi simbolici:

[—]The poisoning and the beast with two backs that urged it King Hamlet's ghost could not know of were he not endowed with knowledge by his creator [, Stephen said]. (U 9.469-71)

L'avvelenamento e la bestia con due dorsi che ne fu causa, lo spettro del re Amleto certo non poteva conoscerli se non fosse stato dotato di conoscenza dal suo creatore [, disse Stephen].

Dettagli maniacali:

What occupied the position originally occupied by the sideboard?A vertical piano (Cadby) with exposed keyboard, its closed coffin supporting a pair of long yellow ladies' gloves and an emerald ashtray containing four consumed matches, a partly consumed cigarette and two discoloured ends of cigarettes, its musicrest supporting the music in the key of G natural for voice and piano of Love's Old Sweet Song (words by G. Clifton Bingham, composed by J. L. Molloy, sung by Madam Antoinette Sterling) open at the last page with the final indications ad libitum, forte, pedal, animato, sustained pedal, ritirando, close. (U 17.1311-19)

Cosa occupava la posizione originariamente occupata dalla credenza?Un pianoforte verticale (Cadby) con la tastiera scoperta, con sulla cassa chiusa un paio di lunghi guanti gialli da signora e un portacenere verde smeraldo contenente quattro fiammiferi usati, una sigaretta parzialmente fumata e due mozziconi scoloriti, con sul leggio la musica in chiave di sol naturale per voce e piano di Love's Old Sweet Song (testo di G. Clifton Bingham, musica di J. L. Molloy, repertorio della signora Antoniette Sterling) aperta all'ultima pagina con le indicazioni finali ad libitum, forte, pedale, animato, pedale sostenuto, ritirando, finale.

Descrizione realistica dell'azione:

Buck Mulligan sighed and, having filled his mouth with a crust thickly buttered on both sides, stretched forth his legs and began to search his trouser pockets. (U 1.446-48)

Buck Mulligan sospirò e, riempitosi la bocca d'una crosta di pane generosamente imburrata da ambo le parti, allungò le gambe e cominciò a frugarsi nelle tasche dei pantaloni.

Cambiamenti: di stili, di generi, di punti di vista. E dov'è la voce di Joyce se non dappertutto? Diceva che poteva fare di tutto con il linguaggio, va bene, tranne far risorgere Lazzaro dal sepolcro. Ma dov'è l'idea di Joyce in tutto questo? Dalla parte di Bloom? Davvero? Dalla parte di Stephen? Eccoli in «Itaca»:

Were their views on some points divergent?Stephen dissented openly from Bloom's views on the importance of dietary and civic selfhelp while Bloom dissented tacitly from Stephen's views on the eternal affirmation of the spirit of man in literature. […] The collapse which Bloom ascribed to gastric inanition and certain chemical compounds of varying degrees of adulteration and alcoholic strength, accelerated by mental exertion and the velocity of rapid circular motion in a relaxing atmosphere, Stephen attributed to the reapparition of a matutinal cloud (perceived by both from two different points of observation, Sandycove and Dublin) at first no bigger than a woman's hand. (U 17.27-42)

Divergevano le loro idee su qualche punto?Stephen dissentiva apertamente dalle idee di Bloom sull'importanza dell'autosufficienza alimentare e civica mentre Bloom dissentiva tacitamente dalle idee di Stephen sull'affermazione eterna dello spirito umano nella letteratura. […] Il collasso che Bloom ascriveva ad inanizione gastrica e a certi composti chimici di vario grado di adulterazione e forza alcolica, accelerata dallo sforzo mentale e dalla velocità di un rapido moto circolare in atmosfera distensiva, Stephen lo attribuiva invece alla ricomparsa di una nuvola mattutina (osservata da ambedue da differenti punti di vista, Sandycove e Dublino) dapprima non piú grande di una mano femminile.

O nella voce di Molly in «Penelope»?

nature it is as for them saying theres no God I wouldnt give a snap of my two fingers for all their learning why dont they go and create something I often asked him atheists or whatever they call themselves go and wash the cobbles off themselves first then they go howling for the priest and they dying and why why because theyre afraid of hell on account of their bad conscience ah yes I know them well who was the first person in the universe before there was anybody that made it all who ah that they dont know neither do I so there you are they might as well try to stop the sun from rising tomorrow (U 18.1563-71)

è la natura e a quelli che dicono che non c'è Dio non gli farei uno schiocco con due dita per tutto il loro studio perché non provano loro a creare qualcosa l'ho domandato spesso a lui gli atei o come si fanno chiamare se ne vadano un po' a scrollarsi di dosso i loro pesi prima poi gridano per avere il prete quando muoiono e come mai come mai perché hanno paura dell'inferno per via della loro cattiva coscienza ah sí li conosco bene io chi è stato il primo nell'universo prima che ci fosse qualcun altro che l'ha fatto chi ah non lo sanno e nemmeno io eccovi lí potrebbero altrettanto cercare di impedire al sole di sorgere domani

Joyce ateo o credente? In Criticare il critico (1965) T. S. Eliot confessò d'esser stato colpito, rileggendo un proprio testo d'anni addietro, da quanto ne sapesse molto di piú prima su Blaise Pascal. Un uomo non è sempre lo stesso, né sa sempre le stesse cose. Può darsi che le diverse opinioni di Stephen e Bloom siano quelle che Joyce aveva avuto da giovane e quelle di quando scrisse l'Ulisse. Le une e le altre. È una supposizione.

Il fatto è che, se possiamo dire di tutto sull'Ulisse tranne che è un libro di gastronomia, come osserva Umberto Eco ne I limiti dell'interpretazione (1990), dobbiamo anche ammettere che sono tanti i punti di vista da non uscirne una morale. Il mondo contemporaneo va come va, verso la X direbbe Nietzsche, alla deriva, come una montaliana «cellula di miele | d'una sfera lanciata nello spazio»; e se la scrittura è atto in sordina, depredazione del mondo (secondo Ted Hughes), beh, per Joyce non era cosí. Il linguaggio si prende gioco di se stesso, come nei passi citati da «Itaca» che, anziché essere realistici, sono sovraccarichi di comicità. Fa ridere quanto il linguaggio possa perder lustro agghindandosi, come uno che se ne sta sulla spiaggia vestito di tutto punto, magari un po' démodé, fra bagnanti nudi e seminudi.

Eppure questi linguaggi, con rumori di fondo continui, pieni di interferenze, intermittenze e interruzioni si infittiscono e infoltiscono gemmando in sottili rimandi dialogici, in punti di vista che si confrontano, anche se non necessari a risolvere i nodi dell'intreccio. L'inizio di «Nausicaa»:

The summer evening had begun to fold the world in its mysterious embrace. Far away in the west the sun was setting and the last glow of all too fleeting day lingered lovingly on sea and strand, on the proud promontory of dear old Howth guarding as ever the waters of the bay, on the weedgrown rocks along Sandymount shore and, last but not least, on the quiet church whence there streamed forth at times upon the stillness the voice of prayer to her who is in her pure radiance a beacon ever to the stormtossed heart of man, Mary, star of the sea. (U 13.1-8)

La sera estiva aveva preso ad avvolgere il mondo nel suo amplesso misterioso. Lontano, all'occaso, il sole calava e l'ultimo bagliore del dí che fugge troppo in fretta indugiava amorevolmente sul mare e sulla spiaggia, sul fiero promontorio del caro vecchio Howth che vigilava come sempre le acque della baia, sulle rocce ricoperte d'alghe del litorale di Sandymount e, ultima ma non di minor conto, sulla chiesa tranquilla da cui fluiva a tratti nella quiete la voce della preghiera per colei che nel suo fulgore immacolato è un faro perenne per il cuore tempestato dell'uomo, Maria, stella del mare.

Ecco una bella imitazione dei romanzi d'appendice ottocenteschi. O è una parodia? Mondo, amplesso misterioso, amorevolmente, fiero, caro, suo fulgore immacolato: ma come…! Rileggendo il passo a ritroso, non sono proprio queste le aspirazioni di Gerty nell'episodio? Di chi è la voce del narratore? Di Joyce? Sa di presa in giro, ma non è da escludere! Di Bloom? Sarà, ma non sembra. Di Gerty? Le piacerebbe potersi esprimere a quel modo, o che qualcuno lo facesse per lei! La sventurata fanciulla, benché bella, è forse il personaggio piú triste di tutto l'Ulisse, ed è qui presentata come la donna piú preziosa del mondo. Come si capisce dal finale dell'episodio, la poveretta è zoppa: altro che mancanza d'estrazione nobiliare!

Questo codice espressivo parodico (lo è davvero?) è intercalato da quelle che mi sembrano le piú simpatiche battute mimetiche di tutto il romanzo: le ragazze che parlano con i bambini e i pensieri di Gerty in discorso indiretto libero. Il fitto sostrato simbolico, per cui Gerty condivide in modo bizzarro tutta una serie di caratteristiche dell'iconografia mariana, rende l'intreccio dei significati dell'Ulisse qualcosa tra il suggestivo e l'elusivo. Sono metafore o simboli? E si tratta veramente di discorso indiretto libero? Chi può dirlo se Joyce, carnevalesco ordinatore della materia, si è divertito a rendere caotico il materiale, al punto che sembra scomparsa la sua voce?

Quello che resta sono i punti di vista, i discorsi, le idee che circolano nella metropoli che ha raffigurato. Senza giudizio esterno che si sovrapponga al punto di vista dei personaggi. Questo lo rende, in certo senso, polifonico. Michail Bachtin: «L'autocoscienza, come dominante artistica nella costruzione del personaggio, è già di per sé sufficiente a disgregare l'unità monologica del mondo artistico, a condizione però che il personaggio, come autocoscienza, sia effettivamente raffigurato, e non espresso, cioè non si confonda con l'autore, non divenga il suo portavoce, a condizione, quindi, che gli accenti dell'autocoscienza del personaggio siano effettivamente oggettivati e che nell'opera stessa sia data una distanza fra il personaggio e l'autore» (Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 1968, p. 70).

Beh, di passi di «autocoscienza del personaggio» e di «ultima parola su di sé» bachtiniane ne abbiamo a bizzeffe nell'Ulisse. Alla fin fine, che ne sappiamo se Stephen non ha fatto bene a non incontrare Molly? Quello che possiamo in parte capire è che Joyce ha raffigurato le idee del suo tempo e instaurato un dialogo con il passato attraverso i commenti dei personaggi, attraverso i modelli e i discorsi ereditati, attraverso un'opera d'arte da esser letta, riletta, interpretata, posta in relazione con le opere che l'hanno preceduta, presa come passe-partout di nuove modalità espressive per le generazioni future. Senza dirci cosa ne pensasse Joyce del singolo argomento.

La grandezza di questo romanzo è che l'autore ha dimostrato di poter dominare il linguaggio piú di chiunque altro, e ne ha messo a nudo i limiti: ha, per cosí dire, scollato la parola dalla cosa e viceversa e le ha riattaccate, per cui ne resta l'appiccicatura posticcia. Lasciando sempre l'impressione che la parola possa esser nuovamente scollata e appiccicata su qualch'altro oggetto, anche astratto o impalpabile come le nuvole. Ma senza l'inquietudine di Jorge Luis Borges, senza la maniacale purezza di Italo Calvino. Cosí, trasvolando come in uno Streben incessante di parole, azioni, idee. A misura del pazzo universo metropolitano di ieri, di oggi.




Nota

I riferimenti al testo originale seguono la numerazione dell'edizione critica di Ulysses condotta da Hans Walter Gabler e pubblicata nel 1984. Le traduzioni che accompagnano i passi citati, per motivi d'ordine interpretativo, si discostano sensibilmente dalla versione 'autorizzata' di Giulio de Angelis, edita per i tipi Mondadori e realizzata su un testo di Ulysses a tratti notevolmente diverso dall'edizione critica.



Bibliografia

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  •  –, «La parola nel romanzo», in Id., Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2001, pp. 67-230.
  • Beckett, Samuel, «Da Dante a Bruno, da Vico a Joyce», in Id., Le opere. Prosa, teatro, poesia, Utet, Torino 1973, pp. 465-491.
  • Boitani, Piero, «Liturgioco», in Moretti, Franco et al. (a cura di), Il romanzo 5. Lezioni, Einaudi, Torino 2003, pp. 439-451.
  • Cixous, Hélène, «'Mamãe, disse ele,' or Joyce's Second Hand», in Id., Stigmata: Escaping Texts, Routledge, London 2005, pp. 83-105.
  •  Eco, Umberto, I limiti dell'interpretazione, Bompiani, Milano 1990.
  • Eliot, T. S., «Amleto e i suoi problemi», in Id., Opere, Bompiani, Milano 1986, pp. 730-736.
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  • Gilbert, Stuart, James Joyce's Ulysses. A Study, Vintage Books, New York 1958.
  • Joyce, James, Gente di Dublino, Mondadori, Milano 1988.
  • –, Lettere, Mondadori, Milano 1974. A cura di Giorgio Melchiori.
  • –, Poesie e prose, Mondadori, Milano 1992. A cura di Franca Ruggieri.
  • –, Ulysses, Vintage Books, New York 1986. A cura di Hans Walter Gabler; trad. it. di Giulio de Angelis in Id., Ulisse, Mondadori, Milano 2008.
  • Jung, Carl Gustav, «L'Ulisse: un monologo», in Id., Opere. Vol. X. Tomo I. Civiltà in transizione: il periodo tra le due guerre, Bollati Boringhieri, Torino 1985, pp. 379-403.
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  • Lukács, György, Arte e società. Scritti scelti di estetica, Editori Riuniti, Roma 1972.
  • Melchiori, Giorgio, Joyce: il mestiere dello scrittore, Einaudi, Torino 1994.
  • Moretti, Franco, «Ulisse e il Novecento», in Id., Opere mondo, Einaudi, Torino 2003, pp. 113-216.
  • Pound, Ezra, Pound/Joyce: The Letters of Ezra Pound to James Joyce, New Directions, New York 1970. A cura di Forrest Read.
  • Praz, Mario, «Joyce e l'ossessione di Dublino», in Id., Cronache letterarie anglosassoni. Vol. IV, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1966, pp. 64-69.
  • Rodstein, Susan de Sola, «Back to 1904: Joyce, Ireland, and Nationalism», in Jones, Ellen Carol (a cura di), Joyce: Feminism/Post/Colonialism, Rodopi, Amsterdam 1998, pp. 145-185.



[Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta dal periodico Amnesia Vivace, n. 32, gennaio 2010.]


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