Ulisse. James Joyce. Già pronunciare i due nomi mette paura!
Ma poi diventa motivo di orgoglio. Un'opera letteraria cosí importante, cosí
complessa… Complessa, sí: difficile da seguire forse non proprio. Difficile
piuttosto da ultimarne la lettura. Ma a lettura finita... Non si ricomincia da
capo: ciò che conclude illumina l'inizio, ci dice che Stephen Dedalus, giunto a
pochi passi da Molly proprio a casa sua in Eccles Street, rinuncia ad
incontrarla. Mentre forse era tutto lí quel che cercava: la poesia, il senso
della vita, l'ombelico del mondo, il tempio d'Apollo a Delfi.
Strana poesia però, cosí sensuale, cosí carnale che, trattandosi di Molly,
«[y]our head it simply swirls», «la testa te la fa proprio girar» (U 4.438), direbbe Bloom. Sí, ti fa
proprio girar la testa: piú dionisiaca che apollinea, non fosse per quella casa
che la ospita, punto fermo del lungo inconcludente andare a zonzo di Leopold. O
forse non è cosí, sono solo impressioni che vengono a galla a me lettore, come
nell'inizio di «Sirene»: frasi smozzicate, zampilli della memoria, rigurgiti
della frase. I «frammenti […] puntellati contro le mie rovine» di T. S. Eliot,
le «inutili macerie del tuo abisso» montaliane, le «cascatelle trattenute da un
dito» di Zanzotto.
Che poi non è la stessa cosa. Parlare di correlativi oggettivi è
troppo facile. È una nozione estetica, non una poetica e ancor meno un
linguaggio. Se Montale lavora sull'esperienza individuale, Zanzotto fa giochi
con gli oggetti, evocando scenari impraticabili ma suggestivi. Ed Eliot? Lui
lavora con le voci, gli stili, le brusche interruzioni: almeno ne La terra
desolata (1922). Testimonia di un soggetto frantumato: né soggetto
sconsolato, né oggetto pervasivo.
Voci, stili, brusche interruzioni… sembra di essere nell'Ulisse. Ma
l'Ulisse ha un sostrato comune, una storia che fa da sfondo, un filo
continuo che porta da un luogo a un altro i personaggi. Di interruzioni ce ne
son molte, ma i personaggi non si sognano di apparire dal nulla, di essere in
due posti diversi allo stesso momento, di saltellare in avventure di tre
secoli, salve le stramberie di «Circe», che sono tutto un altro paio di
maniche. I personaggi stanno buoni buoni al posto loro: chi nella Torre, chi
nell'Ormond Bar, chi a portare a spasso i bambini sulla spiaggia. La giornata è
solo una, il 16 giugno 1904. Il luogo è Dublino e non un altro. Terra
desolata? No, qui c'è un romanzo bell'e buono, fatto di fabula ed intreccio
classici.
Quello che colpisce qualsiasi lettore di Ulisse sono tre caratteristiche:
il velo d'oscurità che avvolge le situazioni, l'erudizione dell'autore e il cambiamento
di stile in cui sono scritti gli episodi. Se c'è qualcosa che rende familiare
un testo, nel prosieguo di una lettura lunga come l'Ulisse, è la chiave
interpretativa. Incontrato uno stile, per quanto arduo sia, la buona volontà di
chi legge può pacificarsi almeno in questo: di questo libro apprezzo il suono o
le immagini o qualche idea sul mondo. Paul Valéry avrebbe seguito la serie: se
il testo suona bene allora le immagini, se queste funzionano cerchiamone un
senso.
Ulisse mette alla prova questo schema. Prova dura, perché
mentre ne apprezziamo la prosodia ecco che Stephen Dedalus si sofferma in
meditazioni filosofiche: qualche pensiero, poi via, di nuovo la torre, il mare,
gli scomodi coinquilini. Situazioni facili da capire, poi frasi un po' troppo
ambigue:
Woodshadows floated silently by through the morning peace from the stairhead seaward where he gazed. Inshore and farther out the mirror of water whitened, spurned by lightshod hurrying feet. White breast of the dim sea. The twining stresses, two by two. A hand plucking the harpstrings, merging their twining chords. Wavewhite wedded words shimmering on the dim tide. (U 1.242-47)
Ombre boschive fluttuavano in silenzio nella pace mattutina dal sommo delle scale al mare, ove lui teneva fisso lo sguardo. Sulla spiaggia e piú al largo biancheggiava lo specchio d'acqua respinto da piedi frettolosi dai calzari leggeri. Il bianco seno del mare indistinto. Gli accenti accoppiati, due a due. Una mano che pizzica le corde dell'arpa, fondendo gli accordi accoppiati. Parole sposate dalle bianche onde che baluginano sulla marea indistinta.
Cosa c'è di naturalistico in questo fraseggio pieno di metafore? E son
metafore suggestive o simboli che si riferiscono ad altro? Altra domanda che
viene spontanea, col senno del poi: è qui riposto un subconscio del personaggio
o l'inconscio si infiltra nelle parole, emerge subdolamente attraverso le
metafore, i sinonimi, le metonimie, i suoni affini? Ecco, si potesse leggere l'Ulisse
cosí avremmo una bella ricetta ermeneutica, magari applicando la psicoanalisi
al testo e cercandone un senso esterno. L'effetto dell'erudizione sull'uomo
contemporaneo, per esempio. O l'effetto dell'arte contemporanea sulla sua
percezione. Carenza affettiva, madre morta e poi?
Il bello di Ulisse è che è un testo che non fa resistenza a queste
interpretazioni. Non resiste a queste e ad altre. È come se Joyce si fosse
divertito a togliere al linguaggio ogni potere forte. Istanze di verità,
filosofie uscite dalla fucina del diavolo, voci divine incontrovertibili,
monoteistiche, fondate, inesorabili? Nulla di tutto questo. Idee, suggestioni,
impressioni. Voci che girano per la città, come gli strilloni di «Eolo», con
tanto di errori nei giornali che vendono. Idee. Un universo di giudizi su
uomini e donne, protestanti ed ebrei, su statue da sbirciare con occhio da
satiro e libri regalati, sulla nascita e sulla morte, sulla pancia di questi e
sul vestito di quell'altra. Su ciò che si fa oggi e ciò che si faceva un tempo.
Dublino, 16 giugno 1904. Sembrerebbe tutto lí. Una città amministrata male
da un governo straniero, ai confini dell'Europa della Belle Époque. Ci si è
divertito Raymond Queneau a prenderla in giro in Troppo buoni con le donne
(1947): luogo di maschilisti un po' cialtroni, vigliacchi, altro che
rivoluzionari dai chiari ideali e dal cervello magari subdolo come quello di
Nečaev, ma per lo meno sottile. E non aveva fatto andare su tutte le furie gli
irlandesi John Synge proprio per questa rappresentazione del popolo grossolano
ne Il playboy del mondo occidentale (1907)? Città provinciale, appunto,
ma non nell'Ulisse.
Dublino è sí Dublino, fatta dei suoi discorsi grossolani, ma quanto resta
dei personaggi di Gente di Dublino (1914)? Fanciulle come Gerty, certo,
e qualche altro personaggio del romanzo. Ma qui si respira un'aria diversa.
L'andare a zonzo parigino, il plurilinguismo austro-ungarico. Gente
indaffarata, che ha tante idee per la testa, che vuole migliorare la città ed
essere al passo con i tempi: Trieste, Zurigo, Parigi appunto. Cosa c'entra
Dublino con tutto questo? Joyce non è Barry Lyndon, per cui tutto quello che
gli dia lustro, non ultima l'origine ibernica, è meglio di qualsiasi altra
cosa. Amore e odio si direbbe, esser di lí, ma essere stato a Londra, nella
grande città: questo fa la differenza e aiuta a ironizzare sul proprio paese.
Non è questo un tema ricorrente di Dylan Thomas? Gallese sí, ma meglio essere
stato a Londra, altro che la provincia: si vedano le Avventure nel commercio
delle pelli (1955).
C'è senz'altro questo gioco ludico nell'Ulisse: rappresentare i
propri concittadini in modo buffo. Ma c'è anche un distacco dalla quotidianità
del luogo e del tempo. Scritto a Trieste, Zurigo e Parigi tra il 1914 e il 1922,
città dove si parla per le strade italiano, tedesco e francese, non certo
l'inglese dell'Ulisse; pubblicato nel 1922 racconta una vicenda di
quindici, se non vent'anni prima. E quante cose sono cambiate? La guerra anglo-irlandese
(1913-1921), la prima guerra mondiale (1914-1918), il voto alle donne (1918),
l'indipendenza irlandese (1921). Non è poco.
E allora perché quella data? Si dirà: perché è il giorno in cui Joyce ha avuto
il primo incontro d'amore con Nora, la sua donna. Joyce è Leopold e Nora è
Molly, il romanzo celebra la loro unione. Romanzo autobiografico: Joyce è
cresciuto e quindi addio romanzo di formazione, addio Stephen Dedalus e tutte
sue inutili aspirazioni. Bisogna parlare di cose da grandi, della famiglia e
dei suoi problemi. Ma Joyce non era grande dopo e ragazzo nel 1904? Non aveva
piú o meno l'età di Stephen in quella data? E il 16 giugno 1904 non è anche il
giorno intermedio del mese, seguito dal mese intermedio dell'anno e dall'anno
intermedio del decennio? Bisogna dar fede al dato biografico, a certe
coincidenze interne alla data o al caso fortunato della coincidenza dei due?
Dublino è un pretesto, uno sfondo, l'emblema di una città universale. In
un giorno qualsiasi succedono tante di quelle cose… Ma cosa succede nell'Ulisse?
Un giovane lascia la casa e il lavoro, vede gli amici e alla fine della
giornata si ritrova ubriaco con un uomo che se ne è andato a un funerale, ha un
po' lavoricchiato, ha fatto qualche spesuccia domestica e ha deciso di
invitarlo a casa propria. Certo l'uomo è stato tradito dalla moglie quel giorno
stesso, e però lei è sempre lí, in Eccles Street, rimasta sveglia ad aspettarlo:
anche lei ha un bel guardarsi dalle gonnelle che ronzano attorno al marito.
Storia di un uomo banale, come ha scritto Ezra Pound: o non intendeva proprio
questo per «homme moyen sensuel», uomo medio e sensuale? Non è ormai tutto
banale ai giorni nostri? Già, ma forse di temi meno banali ce n'erano ancora:
militanza politica per la causa irlandese, i giovani morti tra il 1914 e il
1918, l'epidemia di spagnola del 1918: drammi su cui c'era modo di scegliere
personaggi eroici e nient'affatto banali. Perché l'eroismo non ha mai smesso di
esserci: è solo che lo si incontra sempre piú di rado.
Raffigurare l'uomo. Bene. L'uomo medio allora, l'uomo della vita di tutti
i giorni. È questo Bloom con le sue perversioni, manie, idiosincrasie? O
vogliamo chiamarle interessi, passioni, peculiarità? No, Leopold sarà banale,
ma non ha nulla dell'uomo medio che possa interessare un sociologo. Sulla curva
di Gauss starebbe un po' al di qua o al di là, mai al centro. Non smettono mai
di ricordarselo gli altri, nel male o nel bene:
—He's a cultured allroundman, Bloom is, he [Lenehan] said seriously. He's not one of your common or garden ... you know ... There's a touch of the artist about old Bloom. (U 10.581-83)
«È un uomo colto, che sa fare di tutto un po', quel Bloom,» disse [Lenehan] sul serio. «Non è il primo fesso arrivato... sa... Ha qualcosa dell'artista in sé, il vecchio Bloom.»
Se Molly è almeno idealmente la donna di tutti gli uomini, Leopold è un
concentrato di tutti i vizi contemporanei. A partire dalla mancanza di ideali
che diano senso alla vita. Concentrazione di vizi. Mutatis mutandis fa
pensare a Pečorin, il protagonista di Un eroe del nostro tempo (1841) di
Michail Lermontov, cosí come lo ha descritto l'autore nella sua «Prefazione». E
non senza una seriosa ironia.
Nell'Ulisse non siamo nel Romanticismo, non ci sono i duelli, gli
scontri campali, le insidie sublimi del Caucaso. Ma quali sfide, quali duelli?,
dice Lermontov: non hanno alcun senso, come la vita non ha senso. È già qui un
nobile che anticipa il Gustl di Schnitzler, vanitoso antieroe vigliacco
d'estrazione nobiliare rimasto di sasso davanti alle minacce di un fornaio: e
con lui l'ultimo spasimo di una classe che, vent'anni dopo, doveva dire addio
all'Impero asburgico. Solo che Lermontov strizza l'occhio al suo eroe;
Schnitzler mette alla gogna il suo codardo.
Il punto è che Leopold i suoi valori ce l'ha. Soffre per la relazione
extraconiugale di Molly, s'intende, ma non si lamenta di nulla. Il suo valore è
il passatempo, chiudere la giornata senza guadagni e senza perdite, tranne
qualche piccola, velata speculazione. Guadagnarsi il proprio ozio, affidarsi
alle proprie fantasticherie. Cose che si consumano, da buon consumatore. È
banale? Forse è saggio con i tempi che corrono. Non prendersela troppo per le
disgrazie familiari, il suicidio del padre, la morte prematura di un figlio, le
scappatelle della moglie. Tutti temi che, presi da Pirandello o da Brecht, ne
avrebbero fatto l'espediente di un capolavoro teatrale a tinte fosche.
Se non fosse che poi, anche Pirandello dice basta. C'è l'espediente, ma a
volte mancano i personaggi, dei loro drammi non si riesce a farne una storia. E
alla fine la storia esce fuori lo stesso: Sei personaggi in cerca d'autore
(1921). Non rappresentabile il loro dramma? Davvero? Ma come ci si resta male
nel finale quando la bimba annega, il giovinetto si spara e la figliastra
lascia la scena, si ferma fra gli spettatori, ride e se ne va da dove di solito
entra ed esce il pubblico. Il dramma, uscito da una parte, ecco che rientra
dall'altra. Ma non nell'Ulisse, che è figlio piú di Gargantua e
Pantagruele (1564), di Tom Jones (1749) e di Tristram Shandy
(1767) che non delle tragedie shakespeariane.
Un protagonista cosí leggero un grande autore lo avrebbe abbandonato.
Joyce no, lo ha cercato. Senza farci moralismi sopra, senza neppure esaltarlo.
La storia in sé sarebbe valsa poco e allora cos'è che conta tanto da scriverci
quasi mille pagine? Idee, impressioni, suggestioni. La vita è quello che è, ci
dice Joyce, senza dover andare a pescare tanto lontano. Non Parigi, non Zurigo
o Trieste. Basta Dublino. Non ora, ma un po' prima, come tutte le storie che,
per essere credibili, hanno il paradossale bisogno di essere già passate. Non
era un'idea di Aristotele questa? Va bene anche a Joyce, ma per screditarla.
Ed ecco che il linguaggio scredita il contenuto. Il messaggio, per essere
credibile, ha bisogno di una voce monologica, senza incrinature, diretta,
perché a chi lo riceve sembri che ciò che dice se lo sia detto da solo. Non è
in questo il successo dei poeti, dei grandi narratori? «una poesia è una persona
a nudo… c'è gente | che dice che sono un poeta», ha scritto una volta Bob
Dylan. E gli uomini nudi sono piú o meno tutti uguali da dentro la propria
pelle. La morte di Ivan Il'ič (1886) di Lev Tolstoj è un esempio in
questo senso, come ci ricorda, rimbalzando da un testo all'altro, Philip Roth
in Pastorale americana (1997); un altro esempio è Asja (1858) di
Ivan Turgenev, ed altri ce ne sarebbero a caterve. Ancora oggi c'è chi si
ripete tra sé e sé «Tanto gentile e tanto onesta pare» appena si innamora di
una sconosciuta. E quante volte ci siamo sentiti stanchi e desiderosi di essere
lasciati «cosí | come una | cosa | posata | in un | angolo | e dimenticata»? O
incompresi come ne «Il viaggio dei Magi» (1927) di T. S. Eliot?
Ulisse non è cosí. Non ha un messaggio da dare, non è
diretto, la prende molto alla larga. Ce lo dice lo stile, tutt'altro che ben
selezionato e monologico. L'esempio di Turgenev non è un caso: attento fino al
minimo dettaglio, tutto il contrario di Joyce che prende e inserisce frasi in
un discorso, non per chiarirlo ma per passare di palo in frasca (e non fa
questo il subconscio? Pensare senza coscienza. Cosa sarebbe un'intuizione se
non l'affiorare di questo pensare senza saperlo?); oppure, come ha ricordato
Piero Boitani, ecco che Joyce lascia che il testo copiato male resti
nell'edizione finale. Leggende, voci metropolitane? Forse sí, ma questo è
quanto fanno pensare certi passi dell'Ulisse. Questo è quanto ricaviamo
dando una sbirciatina al Rosenbach
Manuscript e al Buffalo Manuscript
V.A. 22.
Psicologismo in Ulisse. Lo dicono György Lukács e Michail Bachtin. Ma quando mai: uno che
scrive diciotto episodi tutti con stile diverso, neanche fosse una raccolta di
racconti di uno schizofrenico! Senza parlare di generi diversi, il cui piú
chiaro esempio è la forma drammaturgica di «Circe» (verrebbe da dire
sceneggiatura, non fosse che nel 1922 il cinema di mercato era muto e non c'era
una vasta gamma di effetti visivi). Certo l'espressionismo aiuta, carica
d'intensità, permette dilatazioni irreali. Ma questa è solo una goccia nel mare
espressivo dell'Ulisse.
È proprio che a Joyce lo stile non va giú, non ce n'è uno che gli vada per
il verso giusto. Come ne L'uomo che amava le donne (1977) di François
Truffaut, a Bertrand le donne piacciono tutte, ma non ce n'è una che
prenderebbe per moglie. Troppo limitativo quello che è offerto dal mondo
circostante, troppo parziale. Di lí nasce il work in progress.
Insufficienza espressiva della lingua, bisogna inventarsela: come ha fatto
Dante, si è subito affrettato a sottolineare, un po' troppo arditamente, Samuel
Beckett.
Beh, Ulisse non è neppure il work in progress. Gli stili ci
sono, ma basta con la pretesa realistica di trovare un linguaggio migliore dei
precedenti comunque avvertito come inadeguato. Non è questo che intende George
Levine nel suo excursus sul realismo ottocentesco? Joyce è realista e
non realista (Dantes docet), e l'Ottocento
se l'è lasciato alle spalle coi suoi critici. Rimandi simbolici:
[—]The poisoning and the beast with two backs that urged it King Hamlet's ghost could not know of were he not endowed with knowledge by his creator [, Stephen said]. (U 9.469-71)
L'avvelenamento e la bestia con due dorsi che ne fu causa, lo spettro del re Amleto certo non poteva conoscerli se non fosse stato dotato di conoscenza dal suo creatore [, disse Stephen].
Dettagli maniacali:
What occupied the position originally occupied by the sideboard?A vertical piano (Cadby) with exposed keyboard, its closed coffin supporting a pair of long yellow ladies' gloves and an emerald ashtray containing four consumed matches, a partly consumed cigarette and two discoloured ends of cigarettes, its musicrest supporting the music in the key of G natural for voice and piano of Love's Old Sweet Song (words by G. Clifton Bingham, composed by J. L. Molloy, sung by Madam Antoinette Sterling) open at the last page with the final indications ad libitum, forte, pedal, animato, sustained pedal, ritirando, close. (U 17.1311-19)
Cosa occupava la posizione originariamente occupata dalla credenza?Un pianoforte verticale (Cadby) con la tastiera scoperta, con sulla cassa chiusa un paio di lunghi guanti gialli da signora e un portacenere verde smeraldo contenente quattro fiammiferi usati, una sigaretta parzialmente fumata e due mozziconi scoloriti, con sul leggio la musica in chiave di sol naturale per voce e piano di Love's Old Sweet Song (testo di G. Clifton Bingham, musica di J. L. Molloy, repertorio della signora Antoniette Sterling) aperta all'ultima pagina con le indicazioni finali ad libitum, forte, pedale, animato, pedale sostenuto, ritirando, finale.
Descrizione realistica dell'azione:
Buck Mulligan sighed and, having filled his mouth with a crust thickly buttered on both sides, stretched forth his legs and began to search his trouser pockets. (U 1.446-48)
Buck Mulligan sospirò e, riempitosi la bocca d'una crosta di pane generosamente imburrata da ambo le parti, allungò le gambe e cominciò a frugarsi nelle tasche dei pantaloni.
Cambiamenti: di stili, di generi, di punti di vista. E dov'è la voce di
Joyce se non dappertutto? Diceva che poteva fare di tutto con il linguaggio, va
bene, tranne far risorgere Lazzaro dal sepolcro. Ma dov'è l'idea di Joyce in
tutto questo? Dalla parte di Bloom? Davvero? Dalla parte di Stephen? Eccoli in «Itaca»:
Were their views on some points divergent?Stephen dissented openly from Bloom's views on the importance of dietary and civic selfhelp while Bloom dissented tacitly from Stephen's views on the eternal affirmation of the spirit of man in literature. […] The collapse which Bloom ascribed to gastric inanition and certain chemical compounds of varying degrees of adulteration and alcoholic strength, accelerated by mental exertion and the velocity of rapid circular motion in a relaxing atmosphere, Stephen attributed to the reapparition of a matutinal cloud (perceived by both from two different points of observation, Sandycove and Dublin) at first no bigger than a woman's hand. (U 17.27-42)
Divergevano le loro idee su qualche punto?Stephen dissentiva apertamente dalle idee di Bloom sull'importanza dell'autosufficienza alimentare e civica mentre Bloom dissentiva tacitamente dalle idee di Stephen sull'affermazione eterna dello spirito umano nella letteratura. […] Il collasso che Bloom ascriveva ad inanizione gastrica e a certi composti chimici di vario grado di adulterazione e forza alcolica, accelerata dallo sforzo mentale e dalla velocità di un rapido moto circolare in atmosfera distensiva, Stephen lo attribuiva invece alla ricomparsa di una nuvola mattutina (osservata da ambedue da differenti punti di vista, Sandycove e Dublino) dapprima non piú grande di una mano femminile.
O nella voce di Molly in «Penelope»?
nature it is as for them saying theres no God I wouldnt give a snap of my two fingers for all their learning why dont they go and create something I often asked him atheists or whatever they call themselves go and wash the cobbles off themselves first then they go howling for the priest and they dying and why why because theyre afraid of hell on account of their bad conscience ah yes I know them well who was the first person in the universe before there was anybody that made it all who ah that they dont know neither do I so there you are they might as well try to stop the sun from rising tomorrow (U 18.1563-71)
è la natura e a quelli che dicono che non c'è Dio non gli farei uno schiocco con due dita per tutto il loro studio perché non provano loro a creare qualcosa l'ho domandato spesso a lui gli atei o come si fanno chiamare se ne vadano un po' a scrollarsi di dosso i loro pesi prima poi gridano per avere il prete quando muoiono e come mai come mai perché hanno paura dell'inferno per via della loro cattiva coscienza ah sí li conosco bene io chi è stato il primo nell'universo prima che ci fosse qualcun altro che l'ha fatto chi ah non lo sanno e nemmeno io eccovi lí potrebbero altrettanto cercare di impedire al sole di sorgere domani
Joyce ateo o credente? In Criticare il critico (1965) T. S. Eliot
confessò d'esser stato colpito, rileggendo un proprio testo d'anni addietro, da
quanto ne sapesse molto di piú prima su Blaise Pascal. Un uomo non è sempre lo
stesso, né sa sempre le stesse cose. Può darsi che le diverse opinioni di
Stephen e Bloom siano quelle che Joyce aveva avuto da giovane e quelle di
quando scrisse l'Ulisse. Le une e le altre. È una supposizione.
Il fatto è che, se possiamo dire di tutto sull'Ulisse tranne che è
un libro di gastronomia, come osserva Umberto Eco ne I limiti
dell'interpretazione (1990), dobbiamo anche ammettere che sono tanti i
punti di vista da non uscirne una morale. Il mondo contemporaneo va come va,
verso la X direbbe Nietzsche, alla deriva, come una montaliana «cellula di
miele | d'una sfera lanciata nello spazio»; e se la scrittura è atto in
sordina, depredazione del mondo (secondo Ted Hughes), beh, per Joyce non era
cosí. Il linguaggio si prende gioco di se stesso, come nei passi citati da «Itaca»
che, anziché essere realistici, sono sovraccarichi di comicità. Fa ridere quanto
il linguaggio possa perder lustro agghindandosi, come uno che se ne sta sulla
spiaggia vestito di tutto punto, magari un po' démodé, fra bagnanti nudi
e seminudi.
Eppure questi linguaggi, con rumori di fondo continui, pieni di
interferenze, intermittenze e interruzioni si infittiscono e infoltiscono
gemmando in sottili rimandi dialogici, in punti di vista che si confrontano,
anche se non necessari a risolvere i nodi dell'intreccio. L'inizio di «Nausicaa»:
The summer evening had begun to fold the world in its mysterious embrace. Far away in the west the sun was setting and the last glow of all too fleeting day lingered lovingly on sea and strand, on the proud promontory of dear old Howth guarding as ever the waters of the bay, on the weedgrown rocks along Sandymount shore and, last but not least, on the quiet church whence there streamed forth at times upon the stillness the voice of prayer to her who is in her pure radiance a beacon ever to the stormtossed heart of man, Mary, star of the sea. (U 13.1-8)
La sera estiva aveva preso ad avvolgere il mondo nel suo amplesso misterioso. Lontano, all'occaso, il sole calava e l'ultimo bagliore del dí che fugge troppo in fretta indugiava amorevolmente sul mare e sulla spiaggia, sul fiero promontorio del caro vecchio Howth che vigilava come sempre le acque della baia, sulle rocce ricoperte d'alghe del litorale di Sandymount e, ultima ma non di minor conto, sulla chiesa tranquilla da cui fluiva a tratti nella quiete la voce della preghiera per colei che nel suo fulgore immacolato è un faro perenne per il cuore tempestato dell'uomo, Maria, stella del mare.
Ecco una bella imitazione dei romanzi d'appendice ottocenteschi. O è una
parodia? Mondo, amplesso misterioso, amorevolmente, fiero, caro, suo fulgore
immacolato: ma come…! Rileggendo il passo a ritroso, non sono proprio queste le
aspirazioni di Gerty nell'episodio? Di chi è la voce del narratore? Di Joyce?
Sa di presa in giro, ma non è da escludere! Di Bloom? Sarà, ma non sembra. Di
Gerty? Le piacerebbe potersi esprimere a quel modo, o che qualcuno lo facesse
per lei! La sventurata fanciulla, benché bella, è forse il personaggio piú
triste di tutto l'Ulisse, ed è qui presentata come la donna piú preziosa
del mondo. Come si capisce dal finale dell'episodio, la poveretta è zoppa:
altro che mancanza d'estrazione nobiliare!
Questo codice espressivo parodico (lo è davvero?) è intercalato da quelle
che mi sembrano le piú simpatiche battute mimetiche di tutto il romanzo: le
ragazze che parlano con i bambini e i pensieri di Gerty in discorso indiretto
libero. Il fitto sostrato simbolico, per cui Gerty condivide in modo bizzarro
tutta una serie di caratteristiche dell'iconografia mariana, rende l'intreccio
dei significati dell'Ulisse qualcosa tra il suggestivo e l'elusivo. Sono
metafore o simboli? E si tratta veramente di discorso indiretto libero? Chi può
dirlo se Joyce, carnevalesco ordinatore della materia, si è divertito a rendere
caotico il materiale, al punto che sembra scomparsa la sua voce?
Quello che resta sono i punti di vista, i discorsi, le idee che circolano
nella metropoli che ha raffigurato. Senza giudizio esterno che si sovrapponga
al punto di vista dei personaggi. Questo lo rende, in certo senso, polifonico.
Michail Bachtin: «L'autocoscienza, come dominante artistica nella costruzione
del personaggio, è già di per sé sufficiente a disgregare l'unità monologica
del mondo artistico, a condizione però che il personaggio, come autocoscienza,
sia effettivamente raffigurato, e non espresso, cioè non si confonda con
l'autore, non divenga il suo portavoce, a condizione, quindi, che gli accenti
dell'autocoscienza del personaggio siano effettivamente oggettivati e che
nell'opera stessa sia data una distanza fra il personaggio e l'autore» (Dostoevskij.
Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 1968, p. 70).
Beh, di passi di «autocoscienza del personaggio» e di «ultima parola su di
sé» bachtiniane ne abbiamo a bizzeffe nell'Ulisse. Alla fin fine, che ne
sappiamo se Stephen non ha fatto bene a non incontrare Molly? Quello che
possiamo in parte capire è che Joyce ha raffigurato le idee del suo tempo e
instaurato un dialogo con il passato attraverso i commenti dei personaggi,
attraverso i modelli e i discorsi ereditati, attraverso un'opera d'arte da
esser letta, riletta, interpretata, posta in relazione con le opere che l'hanno
preceduta, presa come passe-partout di nuove modalità espressive per le
generazioni future. Senza dirci cosa ne pensasse Joyce del singolo argomento.
La grandezza di questo romanzo è che l'autore ha dimostrato di poter
dominare il linguaggio piú di chiunque altro, e ne ha messo a nudo i limiti:
ha, per cosí dire, scollato la parola dalla cosa e viceversa e le ha
riattaccate, per cui ne resta l'appiccicatura posticcia. Lasciando sempre
l'impressione che la parola possa esser nuovamente scollata e appiccicata su
qualch'altro oggetto, anche astratto o impalpabile come le nuvole. Ma senza
l'inquietudine di Jorge Luis Borges, senza la maniacale purezza di Italo
Calvino. Cosí, trasvolando come in uno Streben incessante di parole,
azioni, idee. A misura del pazzo universo metropolitano di ieri, di oggi.
Nota
I riferimenti al testo originale seguono la numerazione dell'edizione
critica di Ulysses condotta da Hans
Walter Gabler e pubblicata nel 1984. Le traduzioni che accompagnano i passi
citati, per motivi d'ordine interpretativo, si discostano sensibilmente dalla
versione 'autorizzata' di Giulio de Angelis, edita per i tipi Mondadori e
realizzata su un testo di Ulysses a
tratti notevolmente diverso dall'edizione critica.
Bibliografia
- Bachtin, Michail, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 1968.
- –, «La parola nel romanzo», in Id., Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2001, pp. 67-230.
- Beckett, Samuel, «Da Dante a Bruno, da Vico a Joyce», in Id., Le opere. Prosa, teatro, poesia, Utet, Torino 1973, pp. 465-491.
- Boitani, Piero, «Liturgioco», in Moretti, Franco et al. (a cura di), Il romanzo 5. Lezioni, Einaudi, Torino 2003, pp. 439-451.
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[Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta dal periodico Amnesia Vivace, n. 32, gennaio 2010.]
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