4 aprile 2022

«Soggetto e masse e il Teatro di Oklahoma. Conversazione con Sergio Benvenuto» di Doriano Fasoli



Sergio Benvenuto, ricercatore senior al CNR, psicoanalista e filosofo, è presidente dell’Istituto Elvio Fachinelli – Studi Avanzati in Psicoanalisi (ISAP). Ha fondato e diretto la prestigiosa rivista European Journal of Psychoanalysis, ed è co-redattore di altre importanti riviste in inglese, come American Imago e Philosophy World Democracy. Insegna psicoanalisi al Mižnarodnyj Instytut hlybynnoji psycholohiji (Istituto Internazionale di Psicologia del Profondodi Kiev. La conversazione si incentra sui due ultimi libri di Sergio Benvenuto, Soggetto e masse. La psicologia delle folle di Freud e Il teatro di Oklahoma. Miti e illusioni della filosofia politica di oggi, editi da Castelvecchi nel 2021.

 

Doriano Fasoli: Due tuoi libri escono a distanza di poco tempo con la stessa casa editrice, e affrontano temi del tutto simili: si ha l’impressione che tu abbia scritto un solo libro, ma pubblicato in due puntate.

 

Sergio Benvenuto: È proprio così. Il tema comune ai due libri è una teoria generale del politico, ovvero in che cosa consiste l’impegno politico. Non mi occupo quindi della società in generale, ma delle organizzazioni e concezioni politiche.

 

Il primo volume, Soggetto e masse, prende le mosse dal saggio di Freud Psicologia delle masse e analisi dell’io. Cerco di spiegarne il senso profondo, precisando che non si tratta – come credono molti – di una teoria della società in generale, ma di quelle che Freud chiama Massen, ovvero gruppi mossi da una passione in senso lato politica. Si va dalla folla improvvisata che si costituisce per un fine preciso – ad esempio, compiere un pogromcontro ebrei – fino a Massen molto strutturate come le chiese e gli eserciti. Che cosa c’è in comune tra tutti questi gruppi? Il fatto di organizzarsi attorno a una figura che Max Weber chiamò capo carismatico. Freud non si interessa a gruppi burocratici o funzionali, dove ci possono essere capi, ma non c’è la partecipazione calda, direi, dei partecipanti. Freud descrive insomma i gruppi politici in senso lato, che includono le militanze religiose e militari. E psicoanalitiche.

 

Ma già in questo primo volume allargo l’analisi del saggio di Freud affrontando temi molto vasti, per esempio il populismo, il fascismo, e altri tipi di configurazioni politiche. 

 

Nel secondo volume, Il teatro di Oklahoma, articolo una critica delle principali filosofie politiche oggi prevalenti, che corrispondono agli indirizzi politici che oggi dominano nel mondo industrializzato: il marxismo, il liberalismo, le politiche su base religiosa, il populismo, il nazionalismo o fascismo. 


Cominciamo allora dal primo volume, quello che prende le mosse da Freud. Ha creato molte polemiche una delle tesi principali del libro, ovvero che, secondo Freud, ogni Masse, ogni gruppo politico, è fondamentalmente fascista.

 

Quando pubblicò il suo libro, nel 1921, il fascismo non si era ancora affermato. Ma, letto questo saggio col senno di poi, è evidente che con esso Freud descrive ogni collettivo di tipo politico come strutturalmente fascista. Non è la mia idea, non sono un freudiano di ferro, non sono vittima di un certo culto acritico di Freud, è l’idea di Freud. Secondo lui un gruppo che io chiamo caldo – ovvero, politico nel senso di partecipato, – si basa sull’identificazione tra i suoi membri in quanto amano uno stesso oggetto esterno, un Führer – scrive Freud, – un leader. Certo all’epoca il termine Führer non aveva gli echi sinistri che ha oggi per noi. In ogni caso, è evidente per Freud che la vita politica aveva sempre qualcosa di negativo, una sorta di alienazione, che oggi chiamiamo fascismo

 

È evidente che questa lettura del saggio di Freud dà molto fastidio ai tanti freudo-marxisti, e tanto più ai tanti freudo-marxisti lacaniani, perché il marxismo si basa invece su un’esaltazione della collettività politica. Anzi, il marxismo sogna una società che sia tutta collettivo politico, vuole politicizzare tutta la società. Da qui le critiche aspre che ho ricevuto da vari amici che da una vita perseguono una convergenza Marx-Freud (più Lacan) che invece io trovo del tutto problematica.

 

Del resto, sia Freud che Lacan non hanno mai creduto nel comunismo, e hanno detto perché. Ma i freudo-marxisti di questi ‘perché’ non hanno mai tenuto alcun conto.

 

Secondo me il freudo-marxismo lacaniano – malgrado lo spessore di certi suoi esponenti - si basa su un fraintendimento di fondo sia di Marx, che di Freud, che di Lacan.

 

Ma tu allora sei d’accordo con Freud che ogni collettivo caldo – politico, religioso, sindacale, ecc. – è fascista?

 

Non esattamente. Nel libro metto in evidenza anche i limiti della teoria di Freud, anche se non la scarto ma ne faccio il punto di partenza di una teoria più vasta. Freud manca quella che chiamerei la dimensione conflittuale del politico, il fatto che, come diceva Carl Schmitt, la politica è dividere gli altri in amici e nemici. Un gruppo è sempre in qualche modo un gruppo-contro qualcosa o qualcuno. È una dimensione che ha visto Bion, per esempio. E anche il maggior teorico del populismo, il filosofo anglo-argentino Ernesto Laclau, a cui dedico un capitolo. C’è una dimensione agonistica o addirittura bellica in ogni aggregazione politica in senso lato. Ce ne rendiamo ben poco proprio dal 24 febbraio 2022 in poi…

 

Inoltre, sulla scia di Lacan, evidenzio qualcosa che Freud non tematizza: la produzione dello scarto. Il nemico è lo scarto, la spazzatura del politico. Ogni idealizzazione politica in senso lato produce inevitabilmente un elemento degradato, svilito, diciamo disgustoso, insomma un anti-ideale, che va combattuto. L’idealizzazione religiosa del Cristo, per esempio, ha prodotto il suo rovescio fetido: Satana. 

 

Questo vale anche per culture politiche improntate alla tolleranza, dove tutte le idee, anche quelle raccapriccianti, sono ammesse. In effetti, per una cultura tollerante lo scarto, il deietto, è l’intollerante. Per quanto tollerante possa essere, una società politica produce sempre comunque atti e persone intollerabili: terroristi, criminali, aggressori, fascisti, razzisti, ecc. Anche se non lo diciamo pubblicamente, noi anti-razzisti e anti-fascisti (immagino che lo siamo sia tu che io) abbiamo un profondo disgusto, anche fisico, per il razzista, il fascista, lo xenofobo.

 

Il teatro di Oklahoma deve il suo titolo a un romanzo di Kafka. Ci spieghi perché?

 

È un capitolo del romanzo incompiuto Amerika. È la storia di un giovane praghese che, agli inizi del secolo scorso, emigra in America e ne passa di cotte e di crude. A un certo punto incontra un grandioso, sterminato, Teatro naturale di Oklahoma che assume chiunque. Tutti avranno un ruolo. Lo leggo come una sorta di allegoria ironica del socialismo, di un ideale di una società che accoglie tutti. L’ironia consiste nel fatto che una società deve sì accogliere tutti, ma non tutti saranno allo stesso livello. Ci saranno sempre sperequazioni sociali, è una realtà di cui dobbiamo farci una ragione.

 

In effetti credo che questo libro verrà aspramente criticato dalla sinistra politica, che punta alla maggiore eguaglianza economica nella società. Si dirà che il tuo è un libro di sostegno alle filosofie di destra.

 

Il mio libro non è di sinistra né di destra (anche se io, come cittadino, voto per la sinistra; come meno peggio). Per 30 anni sono stato ricercatore al CNR, e sono entrato molto nella missione che ho scelto, quella del ricercatore scientifico: ovvero, di uno che deve scoprire la verità e dirla pubblicamente. Non importa se questa verità detta è scomoda per molti, o deprimente, o deludente, o altro. Dire la verità, ovvero, quel che a me pare essere la verità. In effetti, credo che questo libro sarà alquanto impopolare, perché di fatto critico tutte le grandi ideologie che oggi dominano la scena politica, in quanto, come ho detto, non tengono conto di certe verità. Nel libro precedente avevo decostruito – come si dice in filosofia – il populismo e il fascismo. Nel Teatro di Oklahoma decostruisco la sinistra socialista e il liberalismo. Oggi i filosofi accademici di indirizzo socialista si contrappongono fieramente al neo-liberalismo, ma cerco di mostrare che in realtà sia il liberalismo che l’anti-liberalismo sono due facce della stessa moneta. 

 

Non temi che il tuo libro venga considerato disfattista? Se tutte le grandi ideologie in cui crediamo oggi sono criticabili, non è meglio allora abbandonare ogni impegno politico e vivere nel carpe diem?

 

Non credo che conoscere la verità sia sempre negativo per l’entusiasmo politico, per il voler riformare la propria società. È come conoscere la verità su un meteorite che sta collidendo con la terra, come si vede in tanti film catastrofisti oggi: ci si può rassegnare alla fine dell’umanità, oppure si può cercare di evitare in qualche modo la collisione. Ma prima di tutto occorre conoscere la verità. Io descrivo la traiettoria del meteorite, è poi compito di altri, più esperti di me, trovare una soluzione.

 

C’è una tesi forte ne Il teatro di Oklahoma?

 

Abbastanza forte direi. Mostro che sia il pensiero dominante di destra che quello dominante di sinistra concordano su un punto essenziale: che quel che conta nella politica e quindi nella storia è l’economia. È il peccato che i vecchi marxisti bollavano come economicismo. Per cui anche quando si invoca più eguaglianza, si invoca più eguaglianza economica. Certo l’economia è essenziale. Ma nel libro mostro che non è meno essenziale la dimensione simbolica della vita, il gioco dei significanti, ovvero la forza dell’inconscio nella società e nella storia. Agiscono valori che non sono solo economici.

 

Si prenda l’attuale aggressione di Putin all’Ucraina. Ha essa fondamentali moventi economici? Non credo proprio. L’Ucraina non ha gas né petrolio, ce l’ha la Russia… La politica di Putin è «paranoica», suol dirsi, ovvero riposa su opposizioni simboliche che per noi sono sciocche, e invece per lui – come per tanti russi – molto importanti. Il sogno della Terza Roma, la rinascita dell’Impero russo. Anche se Marx direbbe che l’imperialismo di Putin è un imperialismo degli straccioni.

 

Insistere quindi sull’eguaglianza economica lascia fuori tante altre ineguaglianze non meno essenziali per gli esseri umani: quella educativa per esempio, o di sex appeal, o di capacità creativa, ecc. Ora, si dà il caso che tutte queste ineguaglianze non siano eliminabili, per la semplice ragione biologica che gli individui umani, come quelli di ogni specie mammifera, sono tutti differenti. A cominciare dal loro codice genetico (a parte i gemelli veri, che però non hanno le stesse impronte digitali!). Non ci sono due esseri umani eguali, e quindi si tenderanno sempre a leggere le differenze tra individui come differenze ordinali, gerarchiche. Questa è una verità alla quale vogliamo sfuggire.

 

Il tuo libro sarà detestato dalla sinistra perché ridimensiona il progetto fondamentale di essa, quella di una maggiore eguaglianza. Perché l’eguaglianza economica è per te così poco importante?

 

Al contrario, nel libro dico che una maggiore eguaglianza economica è un segno di benessere e di grande qualità della vita. Ricordo che certi paesi del Nord Europa, in particolare scandinavi, sono tra i più egualitari al mondo (usando il famoso coefficiente di Gini, che misura il grado di eguaglianza economica di un paese), ma sono anche i migliori in molti altri sensi, come PIL alto, più eguaglianza di genere, più libertà di stampa, ecc. Diciamo sempre che l’Europa è in decadenza, ma per ora i paesi migliori sono certi paesi europei e il Canada. Questo però smentisce la narrativa della sinistra classica, secondo la quale il capitalismo porta più ineguaglianza. È vero per certi paesi, non per altri. All’inverso, i paesi più inegualitari al mondo sono per lo più africani, paesi poveri che consideriamo «arretrati» proprio perché è mancato uno sviluppo capitalistico. I paesi più poveri e più mal messi sono i meno egualitari, i paesi più ricchi e meglio messi sono i più egualitari.

 

Credo che la priorità dovrebbe andare non tanto a un’eguaglianza di principio, ideologica, ma alla lotta alla povertà. I poveri devono essere veramente aiutati, inclusi i paesi poveri. Non sono contrario a schiacciare le ineguaglianze in alto e in basso, ovvero, togliere soldi ai più ricchi e darli ai più poveri. Ma dobbiamo sapere che questa redistribuzione non cambierà la struttura delle ineguaglianze, e non solo economiche. Come il fatto che la terra sia schiacciata ai poli non le impedisce di essere rotonda, analogamente schiacciare le ineguaglianze ai due poli non eliminerà le ineguaglianze.

 

In un capitolo dal titolo strano, «Il capitalismo e i cani», ti occupi anche di economia, o meglio, di che cosa dobbiamo intendere per danaro e per moneta. Un capitolo molto denso, non facile da capire. Anche se la tua scrittura è molto chiara e scorrevole di solito.

 

Ti confesso che l’intero capitolo è una confutazione delle tesi di un famosissimo filosofo italiano, direi anzi il più famoso, quanto alla sua teoria del danaro. Una teoria molto diffusa tra i filosofi marxisti dice che il danaro sarebbe qualcosa di religioso, si basa su una fede… Rifacendomi all’abc dell’economia politica dell’ultimo secolo, mostro che si tratta di un profondo errore. In realtà, come tutti sappiamo, il danaro è una delle cose più reali che ci sia.

 

Un mio recensore ha detto che questo libro irriterà i filosofi in genere, intesi come categoria professionale. In effetti impressiona vedere quanti filosofi (non tutti, per fortuna) filosofeggino su cose che non conoscono affatto, l’economia per esempio. Abbiamo tanti filosofi della politica che non hanno mai fatto politica attiva in vita loro; filosofi dell’estetica che non vanno a vedere le mostre, né a cinema, né a teatro, non leggono poesia o romanzi; filosofi della psicoanalisi che discettano su Freud ma non hanno fatto nemmeno una seduta analitica; filosofi del linguaggio che non sanno nulla di linguistica, ecc. È la pretesa che chiamerei autarchica della filosofia, che si nutre di se stessa in modo autoreferenziale. 

 

I grandi non erano così. Marx, per esempio (non sono marxista, ma ammiro Marx), scriveva una critica filosofica dell’economia, ma era anche un grande economista. Scriveva filosoficamente di politica, ma ha fatto politica per tutta la vita… Insomma, vorrei richiamare i filosofi – tra i quali mi includo, anche se accademicamente non sono mai stato un filosofo, – a una maggiore modestia e a una maggiore apertura al mondo. Al mondo della Realpolitik, delle concrete opere d’arte, delle scienze come esse sono e non come si immagina che siano… Spero che molti giovani filosofi siano permeabili a questo mio auspicio.

 

Doriano Fasoli

 

(Aprile 2022)

 

 

 

 

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