9 gennaio 2022

«"Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologia." Conversazione con Alberto Angelini» di Doriano Fasoli

 

 

Alberto Angelini è membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana. Ha insegnato psicofisiologia nella Facoltà di Psicologia dell’Università «La Sapienza» di Roma. Ha svolto ricerche nell’Istituto di psicologia del CNR e nel Centro sperimentale di cinematografia di Roma, dove, precedentemente, aveva conseguito il diploma in regia. È stato consulente dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, docente di psicologia clinica presso l’United Nation Interregional Crime and Research Institute (UNICRI), partecipando a campagne internazionali per la prevenzione sanitaria. Direttore di Eidos: Rivista di Cinema, Psyche e Arti visive. Autore di oltre sessanta articoli scientifici e di diversi volumi, tradotti in più lingue. Tra gli altri: La psicoanalisi in Russia. Dai precursori agli anni Trenta (Liguori, Napoli 1988); Psicologia del cinema (Liguori, Napoli 1992); Otto Fenichel: psicoanalisi, politica e società (Cosmopoli, Bologna 1996); Pionieri dell’inconscio in Russia(Liguori, Napoli 2002); Un enciclopedista romantico. Psicoanalisi e metodo sociale nell’opera di Otto Fenichel (Liguori, Napoli 2009), Psicoanalisi e Arte teatrale (Alpes, Roma 2014); Otto Fenichel: psicoanalisi, metodo e storia (Alpes, Roma 2019).

 

La conversazione si incentra sui temi del recente volume di Alberto Angelini Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologiaedito in questi giorni da Alpes Italia.

 

Doriano Fasoli: Dottor Angelini, chi era Sergej Èjzenštejn?

 

Alberto Angelini: Sergej M. Èjzenštejn è stato il più importante regista della prima metà del Novecento. Egli spicca, nella storia del cinema, per i suoi lavori rivoluzionari, per l'uso innovativo del montaggio e per la composizione formale dell'immagine. 

 

Inizialmente Èjzenštejn si accostò al teatro, come allievo di Mejerchol'd, che fu ideatore della biomeccanica dell’attore, ispirata agli studi del grande fisiologo e psicologo russo Ivan Pavlov. Il regista, già dal periodo teatrale, si interessò molto alla psicologia e alla psicoanalisi. Pavlov, Freud e Mejerchol’d sono i primi nomi che ricorda nella sua ampia autobiografia; attraverso loro «combatté la sua prima lotta contro i mulini a vento della mistica». Èjzenštejn lesse Freud, per la prima volta, nella primavera del 1918 mentre prestava servizio come volontario nell’Armata rossa. In seguito, dal 1920 al 1923, lavorò a Gomel come funzionario locale per le iniziative culturali, viaggiando per tutta la Russia.

Fu grande amico di Lev Vygotskij, fondatore della scuola di psicologia storico culturale, e di Aleksandr Lurija, capostipite della neuropsicologia, i quali, nei primi anni venti, aderirono alla psicoanalisi, promuovendola in Russia. Lurija fu presidente della Società Psicoanalitica di Mosca che vedeva, tra i suoi ranghi, molti giovani rivoluzionari entusiasti. Negli scritti di Èjzenštejn sul linguaggio cinematografico troviamo concetti psicologici di Vygotskij come l’agglutinazione e il monologo interno, che il regista ripropone, in altra forma, nella teoria del montaggio filmico.

 

Noi conosciamo Èjzenštejn soprattutto per i suoi grandi film, come Ivan il Terribile (1944), Sciopero (1924), La corazzata Potëmkin (1925) e Ottobre (1928). In particolare, questi ultimi tre sono pieni di scene di panico e di violenza collettiva. Tali scene avrebbero potuto ben illustrare Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) di Freud, libro che Èjzenštejn conosceva sicuramente. A differenza di Freud, però, egli non provava alcuna prevenzione per la suggestione di massa. Al contrario, il regista era attratto dall’idea di potersi confondere nella folla e invitava i suoi spettatori a fare altrettanto.

 

Èjzenštejn fu amico di Hanns Sachs e conobbe Otto Rank, Sándor Ferenczi, Franz Alexander e Wilhelm Reich. Nel 1929 tenne una conferenza presso l’Istituto Psicoanalitico di Berlino, dove conobbe anche Kurt Lewin, uno dei fondatori della Gestalt. In URSS e negli USA ebbe due brevi esperienze di terapia a orientamento psicoanalitico. Purtroppo, con Stalin, la psicoanalisi fu accostata al trotskismo dai teorici del regime e, nella severa condanna che seguì, fu coinvolto anche Èjzenštejn.

 

La società sovietica si proponeva di formare un “uomo nuovo” in un “mondo nuovo”. Stalin, come già Lenin prima di lui, aveva pienamente compreso l’importanza sociale e politica del cinema e aveva inserito la cinematografia nel suo primo piano quinquennale. Egli, inoltre, aveva favorito la costruzione di molte centinaia di sale cinematografiche in tutto il paese e richiesto la realizzazione di pellicole e cineprese russe competitive con la tecnologia straniera. Tra il 1926 e il 1929, Èjzenštejn aveva lavorato a La linea generale e, nella primavera del 1929, la pellicola era stata esaminata da Stalin. In quell’anno, poco prima di partire per l’estero, Èjzenštejn fu convocato al Cremlino, assieme a Grigorij Aleksandrov e a Èduard Tissè. L’autocrate disquisì, con loro, su cinema e marxismo e cambiò il titolo del film, da La linea generale a Il vecchio e il nuovo. Infine, non pago, suggerì un diverso finale e organizzò per i tre un viaggio didattico nelle campagne russe. Nell’ideale società comunista, di marca staliniana, doveva regnare l’armonia e conseguentemente, se qualcosa non funzionava, la responsabilità era attribuita alle resistenze di ciò che era “vecchio”. Il regista aveva pensieri differenti; coltivava l’idea, coerente con il pensiero di Vygotskij e con la psicoanalisi, che il passato, per quanto superato, non dovesse essere rigettato. Egli riteneva che il mondo passato andasse rielaborato e ripensato in uno stadio ulteriore e più complesso dello sviluppo storico e sociale. Èjzenštejn pensava come a un adattamento dell’alto e del basso, in senso eracliteo.

 

Qual è l’attualità del suo pensiero?

 

Le idee che Èjzenštejn proponeva e su cui discuteva, in ambito artistico e psicologico, si dibattono tuttora e, certamente, ciò proseguirà nel futuro. Rispetto alla psicoanalisi, Èjzenštejn s’interessò a un concetto sempre attuale, sul piano esplicativo: ovvero alla regressione. Il fruitore dell’arte, anche cinematografica, deve regredire e contemporaneamente riuscire ad attivare la parte più matura della psiche. L’artista bravo è colui che, con la sua opera, riesce a evocare, nel pubblico che fruisce, questa miscela di emotività e razionalità.

 

L’impresa artistica e intellettuale di Èjzenštejn fu vasta e approfondita; maturò negli anni e si espresse, nell’ultima parte della vita del regista, in modo globale, nel lavoro rimasto incompiuto, il cui significativo titolo è Metod. Quest’ultima opera, inedita fino ad alcuni anni fa, raccoglie diverse riflessioni e tematiche portate avanti, per più di un decennio, dal 1932 al 1948, anno della scomparsa.

 

In realtà, Èjzenštejn pone il problema del metodo alla base della sua impresa teorica fin dall’inizio. In tale impresa sarebbero dovuti confluire anche i lavori sul montaggio, sulla regia e, infine, quello che può essere valutato come un saggio di estetica, portatore del suo modello concettuale, «La natura non indifferente», che fu scritto fra il 1945 e il 1947. Il progetto del regista appare molto impegnativo e teso a comprendere il significato di ogni intersezione fra il cinema e l’insieme delle discipline umane. Èjzenštejn emerge come teorico con vasti interessi interdisciplinari e, nella sua opera, tende a intervenire nelle aree che intercorrono tra le diverse scienze. L’aspirazione, di fondo, consiste nel ricollegarsi, contemporaneamente, a tutto ciò che possa far avanzare l’impresa intellettuale, nel rigoroso rispetto dei criteri metodologici; quindi contributi provenienti dall’antropologia e dalla linguistica, dalla psicologia e dalla storia dell’arte, dall’estetica e dalla biologia.

 

Questa sintesi superiore e organica non si ferma al sapere delle singole discipline, ma va dialetticamente ad occupare il territorio di quel pensiero speculativo che tiene distinte coppie di opposti come ragione e sentimento, arte e scienza, astrazione e attività concreta. Il cinema ricompone, non staticamente, ma nella forma dialettica e mobile del conflitto, queste opposizioni cristallizzate. Il cinema possiede questa facoltà, ideale e concreta, proprio per la sua capacità di acquisire il movimento. Andando oltre, nell’originale intuizione di Èjzenštejn, il “discorso del cinema” è simile al “discorso del pensiero”. In ciò egli si ricollega agli importanti concetti psicologici dell’amico Lev Vygotskij. Questa linea teorica consente allo strumento cinematografico d’intrecciare non solo i diversi campi del sapere, ma soprattutto, come avviene nella psiche, la dimensione affettiva con il pensiero astratto.

 

Sergej Èjzenštejn è una figura a tutt’oggi molto riconosciuta?

 

A mio parere, nel mondo della psicologia e della psicoanalisi, l’importante statura teorica e le interessanti intuizioni psicologiche di Èjzenštejn non sono state ancora riconosciute, come meriterebbero. Invece, in ambito artistico e soprattutto cinematografico, esiste un grande interesse contemporaneo per la poetica e per l’estetica filmica del grande regista. 

 

Tra gli studiosi di tutto il mondo, oltre ai canali ufficiali, è stato costituito perfino un gruppo Facebook, che consente di rimanere sempre in contatto e di scambiarsi opinioni e novità, in tempo reale, sulle tematiche teoriche e storiche relative al grande regista. I suoi contributi di tipo psicologico, utili nell’ambito dell’estetica, della percezione cinematografica e della psicologia in genere, sono stati presi in esame solo in tempi recenti. Il libro che presentiamo, Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologia, della Alpes editrice, è il primo che raccoglie e propone, in modo sistematico, le sue riflessioni di ordine psicoanalitico e psicologico.

 

Nel dibattito relativo ai temi dell’arte e dell’estetica, Sergej Michajlovič Èjzenštejn è stato tra i maggiori protagonisti. L’autonomia formale del cinema, rispetto al sistema complessivo delle arti, fu molto consolidata dal contributo dato dalla sua produzione filmica e teorica. L’attività creativa del regista, in ambito filmico, fin dagli inizi e in modo assolutamente distintivo, si svolse in stretto rapporto con una riflessione conoscitiva, sui problemi concettuali delle arti, di vasta ampiezza e notevole originalità. Egli affrontò il tema proprio dell’arte e del pensiero specifico che ad essa appartiene, avanzando idee nuove. Nello stesso tempo, Èjzenštejn mantenne un collegamento, creativo e consapevole, con diverse voci teoriche, anche eterogenee che, in quel periodo, si proponevano nel panorama europeo.

 

Prescindendo dalla prospettiva di una critica cinematografica o artistica, in senso lato, alle opere di Èjzenštejn, è tuttavia importante indicare l’idea che si manifesta nelle proposte del regista: l’arte è strutturalmente una impresa antropologica, che si evolve nel corso della storia umana. Contemporaneamente, viene espressa la convinzione che, nel suo itinerario evolutivo, l’arte possa essere investigata da molte discipline, non solo umanistiche. La psicologia e la psicoanalisi, per le loro competenze nell’indagine sui vari aspetti della psiche umana, rappresentano degli strumenti di ricerca e comprensione elettivi. Tutto ciò deve avvenire, nell’intento di Èjzenštejn, alla luce di una metodologia d’indagine rigorosa e filosoficamente credibile. Emerge sempre il problema del metodo, come presenza fondamentale nel patrimonio filosofico marxista, accolto dal regista e strumento auspicabilmente risolutivo. Nei fatti, la questione epistemologica si è intrecciata con la sostanza delle discipline scientifiche e umanistiche per tutto il Novecento. Tutt’oggi, in campo psicologico e psicoanalitico, a causa delle molte idee eccentriche e aleatorie che sono emerse ed emergono, il criterio del metodo resta lo strumento più importante per discernere la validità delle diverse proposte teoriche e cliniche.

 

Quali furono i suoi legami con la psicoanalisi e la psicologia?

 

Da quando si conobbero, negli anni venti, Vygotskij, Lurija ed Èjzenštejn condivisero un interesse comune per la psicologia dell’arte e per gli aspetti psicologici dell’espressività artistica. Alla fine degli anni venti, Lurija organizzò un’associazione internazionale di cinema scientifico e creò un laboratorio presso l’Istituto di Cinematografia, per eseguire vari tipi di riprese cinematografiche a fini scientifici. Negli anni trenta, Lurija ed Èjzenštejn si scambiarono diverse lettere. La loro corrispondenza continuò anche durante la guerra. Dopo la guerra e fino alla morte improvvisa di Èjzenštejn nel 1948, spesso si incontravano, condividevano libri e discutevano.

 

Èjzenštejn, come accennato, frequentò molti importanti psicologi del suo tempo, in patria e all’estero. Dai suoi scritti emerge una sintonia forte con gli studiosi che volevano sostenere l’esigenza di una base metodologica scientifica e realistica in psicologia. Si trattava di un grande movimento di psicologi e psicoanalisti che s’ispiravano al marxismo. Com’è ovvio, questo movimento si manifestava, primariamente, nell’ambito di quel grande calderone teorico presente nella repubblica dei soviet, ispirata quest’ultima al pensiero marxista e nata dalla Rivoluzione d’ottobre. Per inciso i molti contributi teorici, offerti dai grandi psicoanalisti e psicologi della Russia sovietica, sono tutt’oggi conosciuti pochissimo. Per quanto è stato possibile, ho cercato di renderli noti nel mio primo libro, ancora in catalogo, che fu poi tradotto in russo: La psicoanalisi in Russia (1988). 

 

Tra gli esponenti della psicoanalisi occidentale di questo grande movimento ispirato al pensiero marxista vi furono Otto Fenichel e Wilhelm Reich. Entrambi visitarono l’Unione Sovietica ed esiste un carteggio, relativo alla psicoanalisi, proprio fra Reich ed Èjzenštejn. Personaggi come Reich e Fenichel consideravano, come valori non solo scientifici ma addirittura etici, la razionalità e l’aspirazione al rigore metodologico. Costoro, già negli anni trenta, percepivano l’incombere, sul movimento psicoanalitico, d’idee antirazionaliste e antilluministe. In epoca contemporanea assistiamo ad un attacco alla razionalità, non solo in ambito psicoanalitico, ma in generale, su più fronti, socialmente e culturalmente. 

 

Fatta salva la casistica clinica, nella psicoanalisi, nell’ambito del pensiero bioniano, metodologicamente si è scivolati verso la metafisica, escludendo la dimensione di filosofica realtà che il pensiero psicoanalitico e ogni conoscenza realistica dovrebbero avere, per aspirare ad uno statuto scientifico. Per altri versi sono addirittura bizzarri, in certi casi, i criptolinguaggi di discendenza lacaniana, la cui sofisticata complicazione non trova motivi di sostegno. Anche lo scontato empirismo psicoanalitico, principalmente di estrazione statunitense, pur utile, non offre solidità di metodo.

 

Chi poi, opponendosi a tutto ciò, volesse cercare le fondamenta metodologiche della psicoanalisi appellandosi ai neuroni e al cervello andrebbe incontro ad analoghe difficoltà di principio, su altri versanti. Infatti la strada del meccanicismo materialista si è sempre scontrata con le enormi diversità degli esseri umani. Riecheggiando Vygotskij e Lurija, i cervelli, sul piano anatomico, sono fondamentalmente uguali in tutto il pianeta, ma le persone no. Gli esseri umani sono profondamente differenti, per tutto ciò che riguarda le funzioni psichiche superiori, come il linguaggio, l’attenzione, la memoria e altro. Ciò avviene anche per le regole di comportamento indicate dal Super Io, la cosiddetta morale comune.

 

Queste differenze non sono dovute a diversità morfologiche o neuronali; esse sono funzionali e provengono dalla storia e dalla cultura in cui gli individui crescono. Filosoficamente, si può cercare una base materiale per la psicoanalisi, anche senza appellarsi ai neuroni. Questo è il grande insegnamento di Lev Vygotskij, che fece parte del movimento psicoanalitico e, a suo tempo, dovette combattere contro la tendenza a spiegare i fenomeni psichici privilegiando i riflessi condizionati pavloviani. La storia umana è materiale, anche se non la tocchiamo con un dito. Tutta l’evoluzione della coscienza e, probabilmente, anche di certi aspetti del non conscio, sono determinati dall’ambiente storico e culturale in cui l’individuo nasce e cresce. È lì e nei percorsi educativi individuali che dobbiamo cercare l’origine di quel che si definisce personalità. Sul piano dei concetti, si fa appello non al materialismo, ma al realismo filosofico. Tutto ciò va visto come un ritorno, di cui si sente il bisogno, alla dimensione di razionalità e scientificità, nella psicoanalisi e nella psicologia in genere.

 

Per comprendere Èjzenštejn e la sua attualità bisogna tener presente che egli era immerso in queste posizioni teoriche, proposte e sostenute da un nutrito gruppo di intellettuali e scienziati, fra cui spiccavano proprio i suoi storici amici: Vygotskij e Lurija. L’attualità è intrinseca in queste posizioni, storicamente dibattute, ma poco emerse. La strada del ragionamento, non solo scientifico, non consente illusioni o scorciatoie e può non essere agevole. Ma beate siano le idee chiare e distinte, rispetto al caos contemporaneo.

 

Èjzenštejn divenne famoso nella Russia sovietica, poi fece un lungo viaggio negli USA e in Messico: che avvenne in tale occasione?

 

Nel dicembre 1930 Èjzenštejn partì per il Messico. Da tale momento in poi la sua produzione teorica e cinematografica si animò fortemente della dimensione “prelogica” che tanto lo affascinava. Nel viaggio messicano, egli rilevò concretamente, nei costumi di tale paese, tracce di culture precedenti a quella cattolica coloniale. I rituali, tuttora in atto, dalle pratiche della comunità dei danzantes ai pellegrini che si flagellano nelle processioni in onore della Vergine di Guadalupe, producono nei partecipanti degli stati di primitiva estasi. Nel capitolo di Metod intitolato «Slancio per librarsi», il Messico viene infatti descritto da Èjzenštejn come il luogo «most ecstatic della creazione». Il mondo messicano è un luogo geografico e mentale dove il regista, fantasticamente, si lascia andare alla sensualità libera e alla riscoperta dei desideri e delle pulsioni nella regressiva discesa verso gli strati più profondi della propria coscienza. «Già al primo contatto col Messico – scrisse Èjzenštejn – ero stato preso da un sentimento intensissimo, dovuto al fatto che tutta la realtà di fronte a me sembrava nata interamente dalle inclinazioni e dalle passioni che hanno sempre vagato e tuttora vagano in me». Questo appassionato amore del regista affondava le radici in stratificazioni che appartengono alla storia, all’antropologia e, contemporaneamente, alla psicologia e all’arte. I vari livelli coinvolti si collegano, simultaneamente, in una dimensione unitaria, filosoficamente dialettica.

 

Èjzenštejn recuperò e attualizzò, proprio durante il viaggio in Messico, il disegno; una pratica che aveva sospeso otto anni prima, nel momento della transizione dal teatro al cinema. Inoltre sperimentò uninedita forma di scrittura automatica, strumento associato alle modalità espressive del surrealismo, che gli consentì di riportare alla luce quel che di più intimo e disinibito gli aveva suggerito il contatto con la storia e la cultura messicane. Tutto ciò confermava ad Èjzenštejn l’idea, congrua con la psicoanalisi e alimentata dai contatti con Vygotskij e Lurija, che l’efficacia dell’arte sia legata alla regressione verso un pensiero prelogico.

 

Il periodo del viaggio negli USA e in Messico fu, per il regista, intenso e psicologicamente faticoso. Non a caso, anche negli Stati Uniti egli volle avere una limitata esperienza personale di tipo psicoanalitico, come era avvenuto precedentemente in Russia con Aron Zalkind. Negli USA, a Hollywood, egli cercò l’aiuto di uno psicoanalista. Su indicazione di Charlie Chaplin, venne contattato il dottor Cecil Reynolds. L’intento consisteva nel tentativo di superare le difficoltà sorte durante la progettazione di un film, a cui il regista lavorava da anni, ma che non fu mai portato a termine: La casa di vetro (Glass House).

 

Al ritorno dagli Stati Uniti, Èjzenštejn fu costretto a una sorta di autocritica, nel 1935, durante la Conferenza dei Lavoratori della Cinematografia Sovietica. In quella circostanza, sostanzialmente, si volevano estendere anche al cinema le direttive del realismo socialista. Nella sua relazione, «La forma cinematografica: problemi nuovi» (1935), Èjzenštejn avanzò un compromesso. Da una parte aderì, in senso generale, al realismo socialista e sottolineò la continuità fra le sue ricerche del passato e del presente, sempre tese a offrire «pienezza emotiva» a un cinema ideologicamente orientato; d’altra parte, volle indicare i «problemi nuovi» con cui si sarebbe dovuta confrontare la forma cinematografica. Con questa indicazione egli si riferiva alla psicologia sperimentale di Vygotskij e Lurija che, di fatto, introduceva nuovi argomenti. Solo un anno prima, Vygotskij aveva posto la questione del metodo all’inizio della sua opera fondamentale Pensiero e linguaggio (1934). Lo psicologo concentrava l’attenzione sul linguaggio perché in esso, a partire dalla parola, risiede la proprietà del significato.

 

Le idee di Èjzenštejn furono contestate; esse apparivano come una critica all’impianto teorico del regime, che proponeva un taglio netto con quanto considerato “vecchio” e la cancellazione del “passato borghese”. Anche i collegamenti indiretti con la teoria psicoanalitica erano problematici, poiché la psicoanalisi, come illustrato, era da tempo osteggiata in URSS.

 

Fu censurato anche il pensiero psicologico di Vygotskij. Una risoluzione del Comitato Centrale del PCUS condannò le “teorie pedologiche” dello psicologo. Per inciso, nella medesima circostanza, furono condannate la teoria della relatività e gli studi propedeutici alla biologia molecolare bloccando, in questi ambiti, la scienza sovietica per decenni. Per poter parlare di inconscio e teorie psicoanalitiche si sarebbero dovuti attendere gli anni settanta del Novecento. 

 

Com’è articolato questo volume Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologia, edito da Alpes?

 

Ho cercato d’illustrare, innanzi tutto, quali fossero i concetti più rilevanti, riguardo all’arte e alla psicologia, che interessavano gli intellettuali dell’epoca. Si tratta di idee sempre attuali, perché su tali questioni non è possibile dare un giudizio definitivo. Esse infatti, si modificano con l’evoluzione storica e culturale dei diversi mondi sociali. Èjzenštejn non aspirava a una teoria definitiva sull’estetica; cercava, piuttosto, sulle orme di Vygotskij, un criterio metodologico utile nelle differenti situazioni offerte dalla varietà del mondo sociale. In effetti questo era il sogno, per niente segreto, di tutti gli intellettuali dell’epoca, artisti e scienziati che si erano formati, filosoficamente, nel pensiero marxista. Nel primo capitolo di Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologia, denominato appunto «Il problema del metodo», si introducono questi concetti.

 

Viene poi proposto, nel secondo capitolo intitolato «La psicoanalisi in Russia», un ampio panorama sulla nascita e sullo sviluppo del pensiero psicoanalitico, prima e dopo la Rivoluzione d’ottobre. Purtroppo, dopo una stagione felice che coincise con i primi anni dell’esplosione rivoluzionaria, quando il socialismo sovietico sognava di creare un “uomo nuovo”, la psicoanalisi divenne bersaglio di feroci critiche. Ciò si verificò contemporaneamente all’ascesa al potere di Stalin. Gli psicoanalisti, che, fatto poco noto, nei primi anni della Russia sovietica erano numerosi e attivi, furono accusati di trotskismo e indotti, per evitare ritorsioni, a disperdersi. Tuttavia, per circa un decennio dopo la rivoluzione, fra il 1917 e il 1927, il movimento psicoanalitico fiorì rigogliosamente nella neonata repubblica sovietica russa. Furono fondate due società psicoanalitiche: a Kazan e a Mosca, dove già esisteva un nucleo di psicoanalisti, ancor prima della rivoluzione. Nel “decennio psicoanalitico” grandi personalità della psicologia russa aderirono alla psicoanalisi. Gli scritti di Lurija erano sicuramente noti ai colleghi tedeschi e anche Vygotskij, come accennato, fece parte della Società Psicoanalitica di Mosca occupandosi, non occasionalmente, di psicoanalisi. Purtroppo, in Occidente, si è iniziato a conoscere e a tradurre l’opera di Vygotskij solo nella seconda metà del secolo scorso. 

 

Il terzo capitolo, «Marxismo e psiche», riguarda l’influenza che, nel primo Novecento, il pensiero marxista ebbe sugli intellettuali e sugli studiosi russi ed europei impegnati nel campo artistico e nella psicologia. Come accennato, molti psicoanalisti, in Europa, erano attratti dal pensiero marxista. Giovani che, per una stagione della loro giovinezza, credettero di poter cambiare il mondo con gli strumenti offerti dalla scienza e dall’arte.

 

Nel movimento psicoanalitico di allora spiccano Wilhelm Reich e Otto Fenichel. Per quest’ultimo, in particolare, il rigore metodologico e l’esigenza di fondare realisticamente e scientificamente le idee psicoanalitiche corrispondevano largamente ai concetti e al tipo di ricerche che impegnavano, in quegli anni, gli psicologi sovietici. Molto probabilmente, Fenichel e Reich conoscevano, anche in modo diretto, alcuni lavori degli psicoanalisti russi, ma non avrebbero potuto mai citarli nei loro lavori editi in Germania, dove già imperversava il Nazismo.

 

Serpeggiava l’idea che, prescindendo dalla diversità delle varie discipline, un corretto approccio metodologico avrebbe potuto determinare grandi progressi, in ogni campo del sapere. Il comune denominatore, che avrebbe consentito questo cosmopolitismo concettuale, era identificato nella filosofia dialettica di provenienza marxista. Sia per Èjzenštejn, sia per Vygotskij, la dialettica rappresentava il modello più avanzato d’indagine e conoscenza, nell’arte come nella psicologia, in ambito teorico e pratico. Al pensiero dialettico fecero riferimento il regista e il gruppo multidisciplinare di giovani intellettuali che egli frequentò. 

 

Nel quarto capitolo, «Ejzenštejn e la psicoanalisi», si ricordano le prime letture freudiane del regista, la sua amicizia con Hans Sachs e l’attrazione che ebbe per le opere di Otto Rank e Sándor Ferenczi, in virtù del loro interesse verso gli stati mentali arcaici.

 

In occasione della conferenza tenuta nell’Istituto Psicoanalitico di Berlino, nel 1929, Èjzenštejn conobbe Kurt Lewin che, fin dal 1923, aveva iniziato a girare brevi documentari, per registrare le espressioni e i movimenti nei bambini. Sappiamo che Èjzenštejn partecipò a diverse giornate di ripresa dei film diretti da Lewin e che fu incuriosito anche dai concetti psicologici della Gestalt.

 

Nel pensiero maturo di Èjzenštejn si evidenzia, particolarmente, il tema della “memoria prenatale” o “intrauterina”. Si tratta di una idea proveniente dalle riflessioni di Otto Rank e Sándor Ferenczi, che concepisce addirittura il desiderio di un ritorno al grembo materno. Il regista vi si riferì utilizzando un acronimo MLB (Mutterleibversenkung), impiegato da Franz Alexander in un articolo psicoanalitico. Egli, in sintonia con i concetti avanzati dagli psicoanalisti, ipotizza che gli individui conservino memoria dell’attimo del loro concepimento; ovvero della anfimissi. Per Èjzenštejn il compito fondamentale (Grundproblem) dell’artista, sul piano estetico, dovrebbe essere quello di riattivare, con le opere d’arte, queste sensazioni regressive, rendendole capaci di produrre un coinvolgimento emotivo. Il prodotto artistico del cinema va accostato alle forme regressive del pensiero primitivo.

 

Nel montaggio cinematografico emerge l’idea di spostamento; ovvero il trasferimento dell’interesse e dell’intensità di una rappresentazione, da questa ad altre, meno intense. Il montaggio scompone e ricompone a un diverso e più elevato livello di senso emotivo. È un meccanismo analogo a quello che sperimentiamo nel sogno, a causa delle resistenze. Con questo viene richiamata la regressione; perché rispetto alla complessità, lo spostamento indica il passaggio a modi di espressione più semplici. Per Èjzenštejn, un concetto astratto può essere descritto attraverso lo spostamento su una immagine concreta. Per arrivare alla pensabilità certe emozioni ricorrono all’iconico come tappa verso la simbolizzazione.

 

Nel quinto capitolo, «Ejzenštejn e il pensiero di Vygotskij», si argomenta sulla relazione amicale e intellettuale fra questi due grandi personaggi. Fu una grande amicizia. Ha scritto Èjzenštejn: «Amavo molto, come scienziato e come persona, quell’uomo straordinario che portava uno stranissimo taglio di capelli. […] Sotto quei capelli dal taglio bizzarro scrutavano il mondo gli occhi di celeste chiarezza e trasparenza di uno dei più brillanti psicologi del nostro tempo». Vygotskij era uomo di immensa cultura che teneva il passo con gli sviluppi della letteratura, del teatro, delle arti e della musica. Egli conosceva personalmente i poeti Mandel'štam ed Èrenburg e aveva frequentato il teatro da camera di Tairov e il teatro dell’arte di Mejerchol’d e Stanislavskij.

 

Per il regista, la rappresentazione delle emozioni tirava in ballo la questione del “monologo interno” e gli studi di Vygotskij indicavano, nel “linguaggio interno”, uno strumento di comunicazione emotivamente più libero rispetto alle costrizioni del pensiero razionale. Per lo psicologo, come per Èjzenštejn, emozione e intelletto dovevano fondersi. La separazione tra gli affetti e la ragione costituiva una mancanza fondamentale di tutta la psicologia dell’epoca.

 

Vygotskij elaborò il concetto di “strumento”, materiale e psicologico, che opera rispettivamente all’esterno e all’interno della mente. Lo strumento, per quel che riguarda il cinema, va inteso come acquisizione tecnologica e, assieme, come strumento mentale capace di offrire nuove possibilità comunicative; ovvero strumento di mediazione sia tecnologica, sia psicologica.

 

Il montaggio cinematografico, considerato specificamente, appartiene a questa categoria di strumenti; è un linguaggio le cui caratteristiche si collegano e, contemporaneamente, contribuiscono alla formazione sociale della mente. Le riflessioni del regista sul “monologo interno” si mettono in relazione, in forma analogica e non meccanica, con i concetti vygotskiani riguardanti il “linguaggio interno”. Inoltre, non va mai dimenticato che tutto il monologo interno è modulato dal registro affettivo.

 

Sul piano complessivo dei concetti, il regista e lo psicologo credono, entrambi, che le leggi del materialismo dialettico, intese come metodo, possano cogliere le caratteristiche di ogni oggetto storicamente mutevole. L’opera d’arte cinematografica deve essere organica, ovvero adeguarsi alle leggi che regolano il divenire della natura e della storia, esse stesse dialettiche. Sono le affinità generali, di tipo filosofico e metodologico, ad unire il regista e lo psicologo. 

 

Nel sesto e ultimo capitolo, «Alcune considerazioni»si avanzano delle riflessioni sul rapporto fra il patrimonio teorico proprio del pensiero di Èjzenštejn e del mondo psicologico a lui contemporaneo con l’evoluzione del cinema. Vengono analizzate le motivazioni dello spettatore e le differenze percettive tra la situazione cinematografica e quella teatrale. 

 

Nel cinema, la forza suggestiva del film viene esaltata dalla situazione della sala, al buio, come durante il sonno, quando il contatto fisico con l’ambiente è limitato e la persona si trova in una situazione confortevole. Nella prospettiva psicoanalitica contemporanea però, mentre si sottolinea che il pensiero per immagini è più vicino alle sorgenti pulsionali dell’individuo, il paragone col sogno va inteso solo in senso analogico. Èjzenštejn s’interessò molto all’ipnosi e fu il primo a paragonare la situazione dello spettatore cinematografico ad uno stato ipnoide.

 

Le psicodinamiche dello spettatore cinematografico possono essere, fondamentalmente, riassunte in quattro tipi di fenomeni che la psicoanalisi ha ben descritto: la identificazione e la proiezione con i personaggi proposti sullo schermo. Da ciò, gli effetti emotivi nel pubblico sono essenzialmente due: la suggestione e la catarsi, con situazioni emozionali che variano secondo il tipo di film. Tutto avviene solo nella mente dello spettatore cinematografico, che ha di fronte null’altro che ombre colorate sullo schermo. 

 

Diversa è la situazione dello spettatore teatrale, che instaura un rapporto psicologico con l’attore. Vygotskij, peraltro, scrisse anche un articolo sulla psicologia dell’attore. A teatro si verifica la identificazione proiettiva, concetto proveniente dall’opera di più esponenti storici della psicologia e della psicoanalisi, come Kurt Lewin e Melanie Klein. Il teatro, che è allestito da persone vere, è percepito come finto, anche se permette una relazione interpsichica con l’attore. Il cinema che è finto, perché sullo schermo non c’è realmente nessuno, sembra vero e fornisce una illusione di realtà, anche se la dinamica dello spettatore è intrapsichica, perché non esiste nessuna relazione psicologica con altri. 

 

Inoltre, gli sviluppi storici del linguaggio cinematografico (ritmo, tipo di inquadrature, montaggio, colore, sonorizzazione, elettronica, ecc.) vanno a modificare, nel tempo, le abilità percettive dello spettatore. Nei fatti, seguendo Vygotskij, le funzioni cerebrali preposte alla percezione cinematografica si storicizzano. Gli spettatori contemporanei possiedono delle abilità percettive, alimentate anche dalla televisione e dalle nuove reti mediatiche, differenti dai loro predecessori. Al ritmo frenetico delle innovazioni tecnologiche, sembra che ogni generazione acquisisca abilità percettive diverse. In alcuni casi, come nei videogame, si tratta di abilità interattive.

 

Va aggiunto che le condizioni della fruizione cinematografica stanno cambiando. I servizi di streaming a pagamento consentono di visionare film, anche recenti, da remoto. Quindi la parte rituale dell’ingresso collettivo nella sala, che nel teatro necessariamente rimane e che ha una sua forte componente affettiva, nel cinema si dirada.

 

Èjzenštejn non poteva certo prevedere le caratteristiche delle nuove tecnologie e i loro effetti, ma offrì interessanti riflessioni sull’avvento del sonoro e, da molti indizi della sua opera, s’intuisce come la sua immaginazione andasse ben al di là di quel che decideva di scrivere.

 

Doriano Fasoli

 

(Gennaio 2022)

 

 

 

 

 

 

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