Sergio Benvenuto è psicoanalista, filosofo e saggista. Ricercatore a Roma all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, al quale ha apportato un approccio filosofico e/o psicoanalitico, è presidente dell'ISAP (Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi) e direttore dell'European Journal of Psychoanalysis, da lui fondato nel 1995. Professore emerito, e uno dei maggiori maestri di studi psicoanalitici e filosofici italiani, ha collaborato e collabora a numerose riviste culturali internazionali, tra cui Telos, Lettre Internationale, Texte, Journal for Lacanian Studiese L'évolution psychiatrique. Tra le traduzioni per l’Italia, si ricorda Il seminario. Libro XX. Ancora 1972-1973 di Jacques Lacan, edito da Einaudi nel 1983. Tra le sue copiose pubblicazioni scientifiche e culturali, si vogliono qui ricordare in sintesi solo le recenti oggetto di questa conversazione: Godere senza limiti. Un italiano nel maggio 68 a Parigi, edito da Mimesis e Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi, edito da Orthotes. La seguente conversazione si incentra soprattutto, per la diretta esperienza di Benvenuto al Maggio 68 in Francia, sul volume edito in questi giorni da Mimesis.
Doriano Fasoli: Benvenuto, perché hai scritto un libro sul Maggio 68 in Francia?
Sergio Benvenuto: Pur essendo nato nel 1948, posso dire di aver vissuto il fascismo e la guerra, perché mio padre, straordinario affabulatore, ha passato molte ore nel raccontare a noi figli la sua esperienza sotto il fascismo e durante la guerra. Questo mi ha permesso di stabilire una continuità con la generazione precedente, nel capirne drammi e illusioni. Credo che la nostra generazione abbia lo stesso compito con le generazioni più giovani: testimoniare la propria esperienza. È quel che ho cercato di fare io con questo libro quasi-postumo. Lo sento come un dovere quasi biologico: trasmettere ai più giovani non tanto delle idee, delle teorie, delle convinzioni, quanto piuttosto, semplicemente, quel che si è vissuto. Saranno poi i nostri posteri a farne quel che vorranno.
Cosa significò per te, allora diciannovenne, studente italiano alla Sorbona di Parigi, trovarsi nella tempesta del Maggio ’68? E cosa ti spinse ad andare a Parigi?
Decisi di andare a studiare a Parigi nel 1967 perché ero straordinariamente attratto dalla cultura francese di allora, improntata a quello che si chiamava «strutturalismo» (Lévi-Strauss, Barthes, Lacan, Foucault, Althusser, Todorov) e che poi gli americani chiamarono, chissà perché, «post-strutturalismo». Prima dello strutturalismo, molti dei miei maestri dell’adolescenza erano francesi: i surrealisti, Sartre, Camus, Céline, Merleau-Ponty, Bataille… Inoltre, volendo iniziare un percorso di formazione come psicoanalista, intuivo che all’epoca in Francia bolliva molto nella pentola psicoanalitica. E non mi sbagliavo, dato che la psicoanalisi francese, all’epoca ancora alquanto ignota nel mondo, avrebbe poi preso una posizione di preminenza nel panorama mondiale. Non solo Lacan, ma la psicoanalisi francese in genere.
Il Maggio 68 fu per me entusiasmante perché ero in perfetta sintonia con molte delle esigenze che allora si espressero. E che non erano solo esigenze politiche, ma di rivoluzione del modo di vivere. Il Maggio sembrò realizzare, anche se in modo effimero, il sogno di varie generazioni di militanti dell’estrema sinistra. Non dimentichiamo che lo sciopero generale politico che paralizzò la Francia per settimane era stato teorizzato proprio da un francese, Georges Sorel, attraverso un libro del 1908 che fu bestseller della sinistra per decenni, Riflessioni sulla violenza. Col Maggio, un sogno a cui partecipavo da anni sembrava divenuto realtà. Il guaio è che poi un’intera generazione – di militanti, filosofi, saggisti, ecc. – ha continuato a pensare il 68, e il Maggio 68 in particolare, non come un’eccezione ma come ciò che poteva diventare regola. Ed è allora che sono cominciate le disillusioni amare, la tentazione masochista del terrorismo, il radicalismo sterile della sinistra, ecc.
All’epoca la lingua marxista aveva molti dialetti. Nel 1968 praticavo il dialetto trotzkista, e anche se ho poi cessato di esserlo, perché ho cessato di essere marxista, questa peculiarità non è irrilevante: a differenza di altri, non sono stato preda della Sirena maoista, del mito della Rivoluzione culturale cinese, a cui all’epoca si convertirono anche persone di talento, il famoso regista Godard ad esempio. Così come non ho mai amato i partiti comunisti italiano e francese – non ho mai amato Berlinguer, oggi santificato – proprio perché vedevo la loro sostanziale dipendenza dal modello sovietico. Diciamo che la fase trotzkista mi ha permesso di mantenere una sorta di equidistanza negativa nei confronti delle due grandi potenze «socialiste reali» all’epoca, l’URSS e la Cina. Il mio marxismo non si è mai ‘appoggiato’ quindi a una delle potenze comuniste all’epoca. La corrente marxista però, secondo me, più rappresentativa del 68, e non solo francese, è il situazionismo di Guy Debord. Il Maggio è stato soprattutto «situazionista». Perché ha legato strettamente assieme atto, politica e rivoluzione estetica.
Come militante di estrema sinistra, incontrasti serie difficoltà ad inserirti nella cultura parigina?
Direi piuttosto il contrario: avrei avuto serie difficoltà a inserirmi se nonfossi stato simpatizzante di estrema sinistra. In realtà ero stato militante in Italia, ma andando in Francia smisi, anche se partecipavo a molte manifestazioni anche a Parigi. Negli ambienti che frequentavo, e che sembravano lontani dalla politica detta allora gauchiste, radicale – ambienti di linguisti, semiologi, critici letterari, artisti, filosofi, psicoanalisti… – dovevi professare idee radicali di sinistra, altrimenti eri un outsider. E in effetti per me fu facile inserirmi proprio perché già ero per mio conto quello che si richiedeva che si fosse: uno che credeva in quella che chiamo la Trinità del pensiero modernista. Marx, Nietzsche, Freud. A cui bisognava aggiungere il linguista Ferdinand de Saussure. Ero marxista, nietzscheano, freudiano, saussuriano: perfettamente accettabile. Quando, nel 1994, parlai di questa Trinità a Jean-François Lyotard, il filosofo che inventò il concetto di post-moderno, lui si indignò… Lui si sentiva completamente all’interno della Trinità, io già allora non mi sentivo più un suo sacerdote. Anche se penso che Marx, Nietzsche, Freud e Saussure siano dei geni che vadano letti e analizzati, ma non li leggo e li analizzo più nell’orizzonte del sessantottismo, per dir così.
Con chi stabilisti dei contatti che ti segnarono profondamente?
Ho incontrato le persone che allora erano in Francia e che hanno avuto significato per me solo dopo il 68. Alcune non sono note in Italia, per cui non ne parlo. Una delle persone con cui ho stabilito il contatto più duraturo e amichevole è Élisabeth Roudinesco, una delle maggiori storiche della psicoanalisi, autrice di una monumentale biografia di Lacan. Anche René Major, psicoanalista e filosofo, grande amico di Derrida, è tuttora nel novero delle mie migliori amicizie. Una delle mie amicizie più solide è stata con Mario Perniola, venuto a mancare lo scorso gennaio; all’epoca anche lui era a Parigi, ma ci incontrammo solo anni dopo, in Italia.
Più burrascoso fu il mio rapporto con Jean Laplanche, psicoanalista di grande cultura, autore con Pontalis del famoso Dizionario della psicoanalisi. Con lui preparai un dottorato sulla malinconia, che non portai però a termine, proprio per divergenze teoriche sul tema. Vivendo parte in Francia e parte in Italia, ho potuto all’epoca diventare amico di alcuni italiani che facevano parte di quel clima: ho conosciuto Umberto Eco, sono tuttora amico di Paolo Fabbri. Tra i filosofi, ho un rapporto di collaborazione con Jean-Luc Nancy tuttora importante e proficuo. In Italia, ho seguito il lavoro di Franco Basaglia all’ospedale psichiatrico di Trieste, anche se il suo rigetto della psicoanalisi certo non favoriva una nostra intesa. Ma il mio stage a Trieste, nel 1971, fu per me fondamentale. All’epoca mi schieravo con l’anti-psichiatria (anche se Basaglia non era veramente un anti-psichiatra, piuttosto un anti-istituzione).
Ho avuto un rapporto personale intenso di amicizia e collaborazione con gli psicoanalisti Elvio Fachinelli e Diego Napolitani, entrambi di Milano. Fui impressionato da Mauro Rostagno, che frequentai per un solo giorno: ci conoscemmo, strano a dirsi, in uno studio televisivo di Berlusconi, allora agli inizi! Nel 1978 fecero un dibattito sul 68 per cui chiamarono Rostagno e, non so perché, me. Era stato il leader del movimento studentesco di Trento negli anni 60 e poi animatore di Lotta Continua, organizzazione e giornale. Ma allora si era già convertito alla religione di Osho, dopo di che sarebbe andato in Sicilia a creare una comunità per tossicodipendenti, dove sarebbe stato ucciso dalla mafia. Rostagno è una figura rimossa, direi, del 68 italiano, ma per molti versi è stata una delle più positive. Nessun film è stato fatto su di lui come vittima della cultura mafiosa.
Quali sono i maître à penserdi cui seguisti con interesse le lezioni?
Seguii stabilmente, per anni, i corsi di Barthes, Lacan, Greimas e Laplanche. Più saltuariamente i corsi di Althusser e Foucault, e di altri meno noti in Italia.
Per anni mi dedicai alla linguistica e alla semiotica. Mi laureai così poi a Urbino in collaborazione con il Centro Internazionale di Semiotica, sponsorizzato da Eco. Ho un po’ di vergogna nel confessare, quindi, che allora ero dedito a teorie alla moda. Anche la psicoanalisi era alla moda; anche se oggi essa mi sembra tornare in auge, secondo quei corsi e ricorsi storici di cui bisognerebbe fare la teoria. Del resto in psicoanalisi ero lacaniano, ovvero seguivo una corrente che metteva in primissimo piano il rapporto dell’essere umano con il linguaggio; «l’inconscio è strutturato come in linguaggio» era il motto di Lacan. Per anni coltivai poi le teorie sistemiche di Bateson e Watzlawick, che anch’esse mettevano al centro, in qualche modo, il linguaggio; anche se secondo queste teorie – che generarono le psicoterapie familiari sistemico-relazionali – il linguaggio veniva visto all’interno di quella che essi chiamavano «comunicazione». In effetti, il 68 – intendendo fino alla fine degli anni 70 – fu caratterizzato da una passione pervasiva per tutto ciò che aveva a che fare col linguistico: segni, messaggi, cibernetica, simbolico… Vissi fino in fondo quel che Rorty chiamò il «linguistic turn».
Quando si formò in te l’idea di diventare psicoanalista?
Molto presto, da adolescente. Di solito è nell’adolescenza che si scopre la psicoanalisi. E non solo perché la sessualità svolge una parte essenziale in essa (in realtà oggi gran parte delle correnti psicoanalitiche hanno stemperato, fino quasi a eliminare, il riferimento freudiano essenziale alla sessualità). In un certo senso, la psicoanalisi svela l’adolescente e poi il bambino che è in ognuno di noi. Mio padre, professore di filosofia a Napoli e noto uomo politico della sinistra, amava Jung, e grazie a lui potei leggere il primo libro di Jung. Ma subito, passando a leggere Freud, la mia preferenza andò a Freud. Una preferenza che dura tuttora, con tutto il rispetto dovuto a Jung. All’epoca, negli anni 60, chi aveva tendenze cattoliche (come mio padre) e non credeva nella liberazione sessuale era junghiano, chi era ateo (come me) o ebreo e credeva nella liberazione sessuale era per Freud. Poi, certo, la divaricazione si è fatta molto più sofisticata. All’epoca comunque sarebbe stato impensabile che un vescovo – come fece Bergoglio quando lo era a Buenos Aires – si facesse psicoanalizzare da un freudiano. Per cui la scelta per l’ebreo Freud aveva allora anche una connotazione anti-cattolica, che poi col tempo si è quasi annullata.
Oggi i nuovi junghiani sono i cosiddetti «relazionali». Essi criticano la centralità che hanno in Freud le pulsioni, e puntano piuttosto sull’intersoggettività, la relazione analista-cliente, l’empatia, l’interpersonalismo, ecc. Queste correnti si rifanno spesso alla fenomenologia filosofica e all’ermeneutica. Ma nel fondo esse vogliono prendere le distanze proprio dal concetto freudiano di «pulsione», ovvero, direi, dal radicamento carnale che Freud dà all’inconscio. In altri modi, continua la vecchia dicotomia: l’«anima» (ora descritta in termini intersoggettivisti) contro la «carne». La cultura occidentale non riesce a districarsi da questa opposizione di fondo, non riesce a emanciparsene.
Come rivedi a distanza di 50 anni quel periodo?
Credo in poche delle teorie in cui credevo all’epoca, eppure non rinnego – come hanno fatto altri – quell’epoca come un traviamento di gioventù da abiurare. Così come non mi trovo affatto in sintonia con pensatori, anche famosi e di talento, che credono oggi praticamente alle stesse cose in cui credevano 50 anni fa: tanto per non fare nomi, Slavoj Žižek, Alain Badiou, Gianni Vattimo, e altri. Devo ammettere, come un personaggio di un film di Scola, che volevo cambiare il mondo, ma il mondo ha cambiato me – e non è detto che questa sia cosa del tutto negativa. Del resto il 68 non è stato solo politico, direi che la politica è stata la punta dell’iceberg: il grosso dell’iceberg era una rivoluzione esistenziale, e anche estetica e sessuale. Non tutti, ma tanti di noi siamo figli del 68, anche se lo rinneghiamo.
All’epoca mi situavo tra le avanguardie estetiche, rappresentate allora dal Gruppo 63 in Italia, dal gruppo di Tel Quelin Francia, dalla pop art allora in auge, dal cinema Nouvelle vague, ecc. Ma soprattutto col 68 si è cominciato a mettere al centro quel che Foucault chiamò «biopolitica»: ovvero, il fatto che la politica è essenzialmente gestione della vita, sia biologica che mentale. Mentre le idee socialiste sono andate svanendo, sono le battaglie biopolitiche successive ad aver cambiato il mondo: in particolare, l’emancipazione delle donne (a cominciare dalla legalizzazione dell’aborto), la fine della discriminazione degli omosessuali, la libertà dei costumi sessuali, l’attenzione ecologista all’ambiente, i diritti civili. Tutti aspetti che la tradizione bolscevica – leninista, trotzkista, maoista – non capiva e che ha solo tollerato. Quando si identifica il 68 e post-68 a un semplice revival del marxismo si dice solo una fetta della verità: il 68 e post- è stato anche l’esplosione di esigenze del tutto estranee alla tradizione leninista. In questo senso direi che sono molto più «sessantotteschi» Pannella e Bonino di Capanna e Berlinguer.
In che cosa si differenziarono il Maggio francese da quello italiano?
In Italia non ci fu un Maggio, ci fu il 68. In Francia gran parte della cultura è concentrata a Parigi, in Italia invece contano le autonomie culturali regionali, per così dire. All’epoca ho vissuto a Napoli, a Roma, a Milano e a Firenze. Notai varietà anche cittadine. Bisogna dire che a Parigi si viveva in un’atmosfera decisamente internazionale: nei cinque anni che vi ho vissuto in modo continuo, forse ho conosciuto e frequentato più stranieri che francesi. Roma e Milano erano lungi dall’essere le città cosmopolitiche che solo in seguito, in parte, sono diventate.
Nell’insieme, avevo l’impressione che il 68 in Italia sia stato più severo e direi più cupo di quello francese. In Italia prevaleva l’impegno politico duro, un certo dogmatismo delle idee politiche, mentre a Parigi il sessantottismo fu più estetico, colorato, da ‘caffè’, con più senso dell’humour: insomma, prevaleva una certa nonchalance. Non a caso il sessantottismo in Francia non ha mai assunto forme cruente, mentre in Italia è sfociato nel terrorismo e nelle violenze, come del resto accadde anche in Germania e in Giappone. Diciamo che il 68 francese è stato più ludico, meno missionario di quello italiano. Poi conoscevo anche la Londra dell’epoca: qui la componente politica del 68 era meno forte e invasiva che nel continente, così la cultura alternativa là assunse la forma hippy, ovvero estetica e musicale. Stranamente in Inghilterra si parla del «69» non del «68». L’impatto politico del 68 in Gran Bretagna fu meno forte proprio perché mancava quel radicamento della tradizione marxista, soprattutto nelle università, che avevamo nel continente. Si dimentica che gli studenti rivoluzionari seguivano nel fondo le idee dei loro professori marxisti.
Nel tuo libro dedicato a Freud, Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi, che nuovo profilo dai del maestro viennese?
Cerco un approccio assolutamente laicoa Freud e alla psicoanalisi. Per laico intendo non ecclesiastico. Ora, molte scuole e istituzioni freudiane sono ecclesiastiche – anche quando sono di alto livello – nel senso che il testo freudiano è preso come Bibbia o Corano, come testo sacro che non viene mai messo in questione. Molti, disturbati da questa ecclesiafreudiana, diventano dei mangia-Freud, Freud-bashers, esagerando nel senso contrario. Io invece cerco di ricostruire il pensiero e la pratica di Freud senza accettare a priori delle griglie di scuola, anche se ovviamente tengo conto delle letture più importanti di Freud compiute in questo secolo: secondo me, le più importanti sono quelle di Wittgenstein, Lacan, Derrida. Cerco di isolare quel che mi sembra essenziale di Freud, mettendo da parte aspetti che ad alcuni appaiono fondamentali per dirsi freudiani, mentre per me non lo sono. Nel libro provo a dire che cosa è, secondo me, l’essenziale di Freud; ma non lo dico qui, perché sarebbe come dire, parlando di un giallo, chi è l’assassino.
Com’è costruito il libro?
Esamino vari aspetti dell’opera di Freud, sia clinica che teorica. Do ampio spazio al suo rapporto con le isteriche: dico bene «isteriche» e non «isteria», perché si tratta solo di donne. La nascita della psicoanalisi è inestricabile dalla «questione femminile» che ci travaglia da oltre un secolo, e che a tutt’oggi ci perturba (basti pensare a #MeToo e alla campagna contro le molestie sessuali). L’ascolto che Freud ha dato al disagio femminile, si concordi o meno con questo ascolto, è un fatto storicamente cruciale: la sua è la prima vera teoria moderna della femminilità. Dedico poi studi particolari ad aspetti che mi sembrano salienti nella psicoanalisi freudiana: il narcisismo, l’Al di là del principio di piacere, la teoria dei gruppi sociali, la sublimazione, la fine (e il fine) dell’analisi. Come dire, che vado dall’inizio alla fine del percorso freudiano.
Hai conosciuto personalmente Jacques Lacan?
L’ho conosciuto, anche se non ho mai fatto un’analisi con lui. Ho fatto però un’analisi lacaniana a Parigi. Ho seguito per anni i suoi seminari, e ne ho tradotto anche uno per Einaudi, Il Seminario XX, Ancora. Lo seguii negli anni della sua massima celebrità, quando al seminario del mercoledì potevano venire anche tremila persone. Seguire Lacan era uno spettacolo che colpiva.
Il mio rapporto con Lacan è analogo a quello che ho con Freud: lo assumo laicamente, non come testo sacro. Non gli suppongo a priori il sapere. In questo penso di essere veramente lacaniano, dato che lui diceva: «Fate come me: non imitatemi». Faccio come lui. Si tratta di un double bind, di un paradosso pragmatico: più si è lacaniani, meno lo si è. E viceversa. Forse la mia generazione, che ha avuto alcuni grandi maestri, in vari campi, è rimasta troppo abbarbicata alla fedeltà nei confronti di questi maestri, cosa che le ha tarpato le ali. Spero che le generazioni più nuove, meno reverenti nei confronti dei Grandi Maestri del 900, sappiano spiccare altri voli.
(Aprile 2018)
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