Entrare nel lavoro saggistico di Paolo Lagazzi è sempre un'esperienza particolare dati i non comuni interessi e le molteplici sfaccettature culturali, mentali e umane che stanno a monte di questo lavoro. Dopo aver prodotto sul poeta Attilio Bertolucci un'imponente quantità di studi e di scritti (monografie, saggi, antologie, l'edizione delle opere in un «Meridiano» Mondadori, perfino un’indimenticabile narrazione biografica, La casa del poeta, edita da Garzanti nel 2008, introdotta da Bernardo Bertolucci), Lagazzi è tornato da poco a pubblicare un volume che aggiunge una serie di tasselli importanti alle tante pagine da lui già dedicate al poeta. Lo incontro a Milano nel suo studio gremito non solo di migliaia di libri (moltissimi su argomenti magici, esoterici e orientali) ma anche ricco degli oggetti più disparati (statuette e maschere buddhiste, icone ortodosse, calligrafie giapponesi, attrezzi da prestigiatore, chitarre, flauti, spartiti di canti gregoriani…) per parlare anzitutto di questo libro che s'intitola Come ascoltassi il battito d'un cuore e che è pubblicato da Moretti & Vitali.
Doriano Fasoli: Da cosa viene questo titolo così musicale?
Paolo Lagazzi: Come ascoltassi il battito d'un cuore è un endecasillabo appartenente a una poesia di Bertolucci molto intensa e commovente, «Ringraziamento per un quadro». È una poesia di Viaggio d’inverno dedicata a un pittore dilettante di Parma, Fiorello Poli, che un giorno d’estate del 1944 dipinse una veduta di quei campi di Baccanelli, a pochi chilometri dalla città, che appartenevano alla famiglia Bertolucci. Mentre lo guarda dipingere, il poeta sente la naturalezza, la verità del suo gesto artistico: per quanto umili, quei tratti di pennello sono come il battito d'un cuore che pulsa all'unisono con la vita, con la luce estiva che si sposta lentamente sulle cose… La Storia, appena evocata in quell’accenno al fatto che Poli era lì, in campagna, perché «sfollato», cioè fuggito dalla città (Parma ha subìto pesanti bombardamenti nella seconda guerra mondiale), sembra svaporare di fronte a quel piccolo quadro.
Il battito del cuore ha sempre avuto un'importanza primaria per Bertolucci e per la sua poesia…
Sì, tutti i suoi lettori sanno che soffriva di extrasistoli e che ha spesso affermato di comporre i propri versi seguendo il ritmo incerto del proprio cuore. Anche nella poesia dedicata a Fiorello Poli il ritmo dei versi appare dapprima sottilmente irregolare, ma, attraverso piccole crepe o sconnessioni, finiscono per prevalere gli endecasillabi, mentre il cuore del poeta, liberandosi via via della propria angoscia, si fonde col tranquillo battito cardiaco del piccolo pittore, un battito nutrito dalla bellezza semplice e immensa del mondo.
Ciò che avviene in questa poesia è accaduto anche nel suo lungo incontro, sia sul piano critico che umano, con Bertolucci? Anche lei, cioè, esplorando il mondo del poeta ha dovuto in primo luogo fare i conti con la sua ansia, riuscendo però, alla fine, a trarre dalla sua opera soprattutto un senso diffuso di bellezza, una specie di musica pacificante?
Sì, forse potrei dire qualcosa del genere. Leggere e rileggere Bertolucci per tanti anni, ma anche frequentarlo in tutti i luoghi in cui abitava o in cui trascorreva le vacanze, è stato molto gratificante ma anche molto impegnativo per me perché, sebbene il suo spirito fosse in apparenza quieto, illuminato da una pazienza di natura contadina, era in realtà attraversato da innumerevoli increspature d'ansia, un'ansia che diventava facilmente contagiosa e che infatti mi ha segnato a fondo. Ma dopo tutti questi anni (quasi mezzo secolo!) di comunicazione reale e ideale, fisica e spirituale con lui e la sua poesia, posso dire che ciò che colgo oggi pensando al suo mondo è in primo luogo l'aspetto vitale, la forza di opporsi al nulla, alla morte e al male: malgrado i lati dolorosi, contraddittori e amari della sua anima, Bertolucci ci aiuta soprattutto a riconoscere tutto quanto la vita ha in sé di bellezza, di luce, d'incanto. La sua lezione (uso il termine «lezione» intendendo ciò che solo i grandi maestri sanno offrire) è tanto più preziosa perché sorta in un momento storico in cui quasi tutto sembrava (e sembra) portare il mondo verso lo sfacelo, verso la perdita d’ogni speranza, verso il nichilismo.
Mi pare che il sottotitolo del suo libro, Incontri nel cammino di Attilio, alluda al suo lungo incontro personale, direi intimo, col poeta…
Certo, per me lui non era «Bertolucci» ma semplicemente «Attilio». Gli ho sempre dato del «lei» mentre lui mi dava del «tu», ma non lo avrei mai chiamato se non col suo nome: «professore» o «maestro» mi avrebbero, ci avrebbero fatto ridere entrambi, anche se in realtà lui è stato il più grande maestro che io abbia avuto nella mia vita.
E l'immagine del «cammino» che ruolo ha in questo sottotitolo? Non credo che lei la usi come una generica metafora…
Come ho già detto più volte, e come torno a ripetere in questo libro, Bertolucci è stato, contrariamente a quanto ancora molti credono, il meno sedentario tra i poeti italiani del Novecento. Molti suoi componimenti sono segnati da immagini di cammino, di flânerie, di viaggio, di transito: nella sua vita Attilio non ha mai affrontato lunghi percorsi (i luoghi più lontani a cui è giunto sono Parigi e Londra), ma amava molto passeggiare (io l’ho spesso accompagnato nelle sue passeggiate a Casarola, a Parma, a Tellaro e a Roma) ed era, in nuce, un viandante del mondo, un pellegrino, un vagabondo, un sognatore dell’altrove. Anche se ogni suo spostamento lontano dai confini domestici poteva procurargli ansia, disagio e un fortissimo desiderio di rientrare al più presto entro quei confini, altrettanto forte era in lui, almeno potenzialmente, il desiderio di fuggire chissà dove, di esplorare l'ignoto, di perdersi, come gli uccelli di passo di una sua lirica, in «paesi distanti». Da questo contrasto segreto, generato, credo, dal coesistere in lui di due diversi temperamenti (uno innamorato di cose piccole e votato alla pace, alla quiete, al “qui e ora”, l'altro inquieto, impaziente, assetato di sogni e d’infinito) nasce molto del pathos delle sue poesie, ma anche la sua intensa attività giornalistica si è nutrita di spostamenti, di viaggi su e giù per l’Italia, di spedizioni per vedere mostre, visitare luoghi d’arte, incontrare persone… Anch'io ho in parte condiviso questi viaggi guidando l'automobile su cui si muoveva con sua moglie Ninetta (lui non aveva mai preso la patente: di solito era lei a guidare, ma a volte, quando si sentiva stanca, affidava a me il compito dell'autista). In questo mio nuovo libro, che sarà anche il mio ultimo su di lui e sulla sua poesia, cercando di mettere in luce alcuni momenti, alcuni episodi cruciali mi è venuto spontaneo considerarli come incontri avvenuti lungo un cammino insieme reale e simbolico – un cammino che, dopo essere stato il suo, è stato e continua a essere il mio.
Quali sono questi incontri di cui lei si occupa nel suo testo?
Come ascoltassi il battito d'un cuore riprende diversi saggi e articoli da me pubblicati negli anni su riviste e giornali, in atti di convegni o come prefazioni ad altri libri. In questi scritti esamino i rapporti di Attilio con i mondi dell'arte, dell'editoria e del giornalismo; quelli con le opere di Proust, Eliot, Montale, Silvio D’Arzo; quello col cinema di suo figlio Bernardo. In un capitolo a sé, inoltre, ripercorro alcune occasioni in cui mi è stato possibile contribuire a far conoscere l'opera di Attilio negli Stati Uniti: l'ho intitolato «Bertolucci a New York». Se nella sua vita ha potuto vedere la Grande Mela solo da lontano, attraverso i tanti scrittori e registi che ne hanno parlato, è bello che poi Attilio abbia raggiunto quel luogo mitico grazie alla sua poesia.
C'è fra tutti questi incontri qualcuno che le è particolarmente caro?
Tutti mi sembrano assai significativi, ma mi è particolarmente caro quello tra il mondo appenninico di Attilio, giunto alle sue espressioni poetiche più alte in Viaggio d’inverno e nella Camera da letto, e l'Appennino fantastico, ruvido e struggente di Casa d’altri di D’Arzo, una delle più indimenticabili short stories del Novecento. Qui ancora più che di un incontro parlerei di un'affinità elettiva. Sia nel breve, folgorante testo di D’Arzo che nelle più intense poesie appenniniche di Bertolucci (come «Presso la Maestà B» o come il capitolo della Camera da letto sulla morte di don Attilio) vibra un sentimento di religiosità sui generis, un'acuta percezione del carattere fragile e coriaceo, sacro e misterioso del mondo. Se non riusciamo a cogliere questo aspetto della poesia di Bertolucci, per troppo tempo sfuggito ai suoi interpreti, non possiamo entrare davvero in sintonia con il suo pathos creaturale, con la forza spirituale e visionaria delle sue immagini solo in apparenza semplici.
Il dialogo tra la poesia di Attilio e il cinema di Bernardo: può riassumerlo in breve?
Bernardo stesso ha riconosciuto, rispondendo di recente a un'intervista filmica, che il suo cinema è racchiuso in potenza nel «Meridiano» che raccoglie le poesie di suo padre. Nel mio saggio io indago l'articolarsi di questo legame sul piano delle strutture profonde dell'immaginario. Come Attilio, Bertolucci junior ha cercato in vari modi, fantasticando, una terra della libertà per i suoi personaggi, un luogo in cui essi possano respirare davvero, in cui possano abitare affrancati dai pesi della Storia e della nevrosi, ma, proprio come suo padre, anch'egli ha sentito giusto sottoporre le sue fantasticherie alle prove del tempo, della realtà, del destino, della morte. Questa comunanza su un piano d’intuizioni profonde non fa certo di Bernardo il classico figlio-epigono: sul piano narrativo e stilistico il suo cinema è molto lontano dalla poesia di Attilio, per certi versi addirittura opposto ad essa (buona parte delle scelte estetiche e ideologiche di Bernardo sono nate da un bisogno di ribellarsi alla figura paterna).
Due parole sul rapporto del poeta col mondo di Proust.
Anche questo è un tema che mi ha sempre affascinato e che ha sempre intrigato i tanti lettori e interpreti di Attilio. Nessuno prima di me, però, gli aveva dedicato un saggio specifico. Nelle mie pagine mostro come la poesia di Bertolucci abbia avuto bisogno di un lungo scavo nelle proprie ragioni intime per mettere a fuoco l'immensa lezione proustiana: l'idea che la vita acquista un senso quando diventa, nel corso degli anni o nel bagliore degli attimi, una ricerca di verità. Solo facendosi impregnare totalmente dal fluire del tempo Bertolucci ho potuto attraversare la parte d’incertezza e d'ansia, il timore e il tremore di fronte all'ombra della morte annidati nella sua anima arrivando a esprimere nella Camera da letto un sentimento, per così dire, salvifico dell'esistenza, sentimento che si nutre di un abbandono fiducioso, totale alla «luce vera» del mondo. La Camera da letto è davvero, in questo senso, il Tempo ritrovato di Bertolucci: libero da ogni forma di manierismo proustiano, qui il poeta riesce a essere completamente se stesso e insieme a comporre, fra le righe, il più grande omaggio alla Recherche che sia stato concepito nel secondo Novecento non solo italiano.
Cosa si aspetta da questo suo ultimo libro su Bertolucci? Troverà nuovi lettori dopo tante altre pagine da lei già scritte sul poeta di Parma?
Non lo so… Non è un periodo facile per la critica. Troppe voci negative si sono alzate negli ultimi anni contro il lavoro critico – credo a ragione, data l'aridità prevalente nella maggior parte dei critici – perché un libro come il mio, anche se scritto in modo piuttosto diverso sia dai saggi dei professori universitari sia da quelli di giornalisti, personaggi televisivi o star di varia natura, possa facilmente trovare un ascolto. Credo, però, che se qualcuno lo leggerà potrà scoprirvi molte ragioni per tornare a percorrere il mondo di Attilio Bertolucci. Soprattutto oggi, in un periodo storico in cui tutto viene rapidamente trangugiato ed espulso, l'oblio minaccia ogni cosa, ogni persona, ogni evento, ogni destino, ogni libro. Anche i grandi poeti corrono di continuo il rischio di essere cancellati, perciò uno dei compiti primari della critica dovrebbe essere quello di rileggerli, di riscoprirli, di rilanciarne con passione la voce verso gli uomini ancora sensibili al linguaggio della poesia.
Quanti uomini, secondo lei, sono ancora sensibili a questo linguaggio?
Da un lato credo siano molti, da un altro vedo una situazione piuttosto preoccupante… Le racconterò una piccola storia. Di recente una persona che conosco e che apprezzo sul piano umano e professionale (fa il commercialista) mi ha chiesto in prestito uno dei miei libri, lasciandomi la scelta: io gli ho dato La casa del poeta, testo a metà fra il saggio e il romanzo in cui racconto la mia lunga amicizia con Attilio, le tante estati da me trascorse con lui nel suo Appennino e l'intreccio inestricabile tra la sua poesia e i luoghi che l'hanno ispirata. Dopo alcuni mesi dal momento del prestito, mi è venuta voglia di chiedere al mio conoscente se avesse letto il libro e cosa ne pensasse: lui mi ha risposto di averlo apprezzato sul piano della scrittura ma non su quello dei contenuti. «Vede, Lagazzi,» mi ha detto, «io non amo la poesia: credo sia una cosa del tutto inutile, una cosa che forse poteva avere un ruolo nelle società del passato ma che oggi non significa più niente». Proprio per il carattere mite, quasi candido del mio interlocutore, questa rivelazione mi ha colpito come un pugno allo stomaco. Dopo queste parole mi sono posto la stessa domanda che mi ha fatto lei: quanti uomini, oggi, sono ancora capaci di sentire la poesia come una voce necessaria alla nostra umanità, come la sola forza, come il solo linguaggio ancora in grado di opporsi al nonsenso, di ricordarci davvero che il mondo è un mistero e un miracolo di bellezza?
Anche le religioni lottano per salvare gli uomini dal nonsenso…
Senza dubbio, ma a volte le religioni sono soggette alle derive dell'ideologia, per questo rischiano di creare tensioni fra gli uomini proprio mentre inneggiano alla pace, al dialogo, alla fraternità. La poesia, invece, è per definizione un linguaggio non ideologico. Devo però aggiungere che, se risaliamo al nocciolo primo, originale dei Vangeli, non possiamo non riconoscere in essi dei meravigliosi testi poetici, dei testi stupendamente liberi da tutte le strettoie ideologiche. Nella poesia di Bertolucci c'è molto di cristiano, sebbene egli non ami troppo dichiararlo. L'espressione «un po' di luce vera», da lui usata in un suo notissimo scritto per indicare l'obiettivo della propria poesia, nasce dalla «luce vera» del Vangelo di Giovanni.
Non vorrei ancora staccarmi da Come ascoltassi il battito d'un cuore, sebbene desideri parlare con lei anche di un altro suo libro, Il mago della critica. La letteratura secondo Pietro Citati, che sta apparendo in questi giorni presso le edizioni Alpes. C'è qualche aspetto o elemento del primo che ci può transitare verso il secondo?
Credo che la magia che il titolo del secondo libro evoca colleghi il mondo di Citati a quello di Bertolucci.
Perché? In che senso?
Bertolucci e Citati sono stati molto amici fra loro: da quando si sono conosciuti fino alla morte del primo si sono sempre, ogni giorno, scambiati una telefonata. L’amicizia nasceva da un feeling molto speciale sul piano della sensibilità umana e delle passioni letterarie e artistiche. Questo feeling si nutriva anche dell'intuizione, condivisa da entrambi, che la parola di chi scrive, sia egli poeta o prosatore, non può comunicare nulla ai lettori se non contiene almeno una scintilla, un riverbero, un seme di magia.
In un certo senso, dunque, sia Bertolucci che Citati sono, ciascuno a suo modo, dei maghi?
Direi di sì, purché, appunto, sottolineiamo che lo sono in modi diversi. Per quanto riguarda il poeta, molte volte ha detto che ciò che gli interessava più di tutto era cogliere con i suoi versi delle «epifanie», cioè dei momenti magici, quei momenti in cui la realtà manifesta qualcosa d’ineffabile, di miracoloso, qualcosa che, in termini proustiani, si potrebbe forse definire un punto d'intersezione fra il tempo e l'eternità. La «luce vera» di cui la poesia di Bertolucci vibra non è mai nudo realismo: nei suoi versi la verità quotidiana si nutre di magia, cioè lievita, si decanta, si trasfigura, si apre sottilmente al fantastico, al sogno, alla rêverie, all'altrove. Citati è stato ed è un mago in un altro senso: la sua pratica saggistica è lontana dalle tendenze critiche dominanti nel Novecento, ispirate ai principi della psicanalisi o alle idee "scientifiche" dello strutturalismo. Il lavoro critico di Citati ha le sue fonti anzitutto nel pensiero e nell'opera di Goethe, e attraverso Goethe risale alle fonti della grande tradizione ermetica del Medioevo e del Rinascimento: l'alchimia, l'astrologia, la gnosi, la Qabbalah. Per Citati, come per Goethe, tutto è legato a tutto attraverso un'infinita rete di relazioni, fili, analogie, «corrispondenze»: interpretare un testo significa esplorare questa rete, coglierne le risonanze e gli armonici, percepirne gli echi fluttuanti fra la terra e il cielo. I saggi di Citati hanno un vasto respiro, e ci comunicano ampie visioni dei testi di cui si occupano, perché non sono mai compressi negli spazi angusti dello scientismo critico contemporaneo, perché ci conducono a riscoprire la letteratura come una grande magia.
Mi pare che anche lei, Lagazzi, si sia interessato alla magia, e non solo in un senso strettamente letterario…
Sì, è vero. In diversi miei libri (soprattutto in Per un ritratto dello scrittore da mago, e ora in questo dedicato a Citati) ho raccontato che per alcuni anni, quando ero molto giovane, io e mio fratello gemello Corrado ci siamo esibiti come prestigiatori in diversi teatri. La passione per i giochi di prestigio ha segnato in modo non marginale la mia vita, tanto che, sebbene non troppo spesso, ho continuato a farli agli amici, anche ad amici molto speciali come, appunto, Bertolucci e Citati. Sia il primo che il secondo mi hanno colmato di gioia come spettatori dei miei trucchi: se lo spettatore perfetto, quello che ogni prestigiatore si augura, è chi sa stare al gioco, loro sono stati degli spettatori perfetti, capaci di gustare lo scintillio delle apparenze, la varietà e il movimento degli effetti senza desiderare mai di smascherarli, d’interromperli, di violarne i congegni.
La magia ludica da lei praticata sembra, a un primo sguardo, lontana dalla magia “alta”, d’impronta goethiana, praticata da Citati… Forse, invece, c’è un rapporto tra queste due forme di magia?
Credo proprio di sì. Citati non è solo un mago nel senso esoterico da me prima ricordato; parecchie sue pagine sottolineano il legame tra la magia "alta", di respiro cosmico, e quella "bassa", di natura illusionistica, di carattere teatrale: egli ci aiuta a capire che questo legame è un leitmotiv decisivo nella storia delle arti e della letteratura. Ad esempio in Mozart la profondità dei significati esoterici (astrali, massonici, alchemici) è raggiunta attraverso effetti scenici, giochi teatrali, invenzioni capricciose, bolle di sapone iridescenti e leggere, e molti fra gli scrittori più amati e indagati da Citati, come Apuleio, Stevenson, Borges o Manganelli, sono insieme dei geniali istrioni e dei conoscitori di segreti sapienziali, dei prestigiatori della scrittura e dei custodi di tesori iniziatici. Qualcosa del genere si può dire per lo stesso Citati: pur essendo da un lato un sapiente, uno sciamano, un esploratore dell'ombra, dell'invisibile, dei segreti primi e ultimi dello spirito e dell'universo annidati nella grande letteratura, dall'altro lato anche lui ha quel gusto dell'esibizione scenica concepita per stupire il pubblico che possiedono i prestigiatori. Certe sue pagine, capaci di creare cortocircuiti d'immagini o effetti lievi e variopinti, sembrano scritte per suscitare l'applauso dei lettori.
Ci può illustrare com’è strutturato questo suo Mago della critica?
Il libro è diviso in quattro parti. Nella prima («Incontrare Citati») cerco di ritrarre il saggista come persona isolando un episodio fra le tante occasioni in cui ci siamo incontrati: tre giorni da me trascorsi (nell'agosto 2002) nella sua mitica villa di Giuncarico presso Grosseto, quando, avendomi scelto come curatore del «Meridiano» delle sue opere, mi invitò là per parlare insieme, per confrontarci, per mettere a fuoco l'architettura del volume, anzitutto la sezione biografica. Nella seconda parte del mio testo («Libri Magie Mondo») affronto la poetica critica di Citati – il suo rapporto con la grande tradizione ermetica, le forme del suo pensiero, la vastità dei suoi interessi, lo stile della sua scrittura – attraverso i libri da lui pubblicati fino al 2005, cioè fino al «Meridiano». Nella terza parte («Altri libri») ripercorro le sue opere più recenti, posteriori al «Meridiano». Infine nell'ultima parte («Le pieghe del velo») tento una lettura trasversale della sua intera parabola critica seguendo il leitmotiv del velo, una delle immagini o delle metafore più pregnanti, e più ricche di sensi simbolici, di questa parabola.
In che senso l'immagine del velo, così attuale oggi a causa dei frequenti dibattiti su quello islamico, è importante per Citati?
L'esercizio dell'interpretazione è stato quasi sempre inteso, nella modernità occidentale, come una pratica dello svelamento. Citati non si muove in questa logica di matrice illuministica: per lui interpretare non significa svelare o scomporre, tranciare, dissezionare i testi letterari ma mostrare i settantamila veli (per usare una metafora della tradizione mistica islamica) che li avvolgono, significa manipolare questi veli, giocare con essi, farli scorrere tra le dita, riconoscerne la consistenza liscia o ruvida, granulosa o frusciante… Come, osservando un prestigiatore, Citati non cerca di smontarne i trucchi ma si abbandona al piacere delle apparenze, così, leggendo i grandi testi letterari e rilanciandone a noi le forme, i colori, le vibrazioni, egli ne rispetta il mistero, non li disseziona ma ce ne addita i ritmi, i contrappunti, le volute testuali, consapevole, come Nietzsche, che nelle superfici si annida la profondità dei significati. Tutto ciò, però, è solo il punto di partenza del mio saggio, che si dirama poi in molte direzioni difficili da riassumere.
Posso chiederle, per concludere, a cosa sta lavorando dopo aver realizzato i due libri di cui abbiamo parlato?
Ho quasi finito di sistemare in un volume alcuni dei tanti testi da me dedicati alla poesia giapponese antica e moderna, allo spirito giapponese, all'arte, alla cultura e alla vita giapponese, allo Zen. Quest'altro volume uscirà l'anno prossimo, perciò parlarne adesso è prematuro. Mi permetta solo, per chiudere questa nostra chiacchierata, di dirle che, oltre alla passione per la poesia e la magia, quella per l'Oriente (anzitutto il Giappone, ma non solo) è stata una delle mie passioni fondamentali fin da quando ero piccolo. Ho avuto due genitori davvero speciali: a mio padre devo l'interesse per i giochi di prestigio, a mia madre l'amore per l'Oriente…
Il cammino, dunque, continua… Grazie.
(Ottobre 2018)
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