10 dicembre 2018

«Sessantotto visionario. Conversazione con Renzo Paris» di Doriano Fasoli



Renzo Paris (Celano, 1944), poeta, romanziere e critico, ha tradotto le poesie di Tristan Corbière e di Guillaume Apollinaire. Tra le sue opere ricordiamo le raccolte di poesie Album di famiglia Il fumo bianco (Elliot, 2013), i romanzi Frecce avvelenateLa casa in comuneLa croce tatuataLa vita personaleCani sciolti (Elliot, 2016), Bambole e schiavi (Elliot, 2018) e le biografie romanzate La banda Apollinaire (2011), Alberto Moravia. Una vita controvoglia (Castelvecchi, 2013), Il fenicottero. Vita segreta di Ignazio Silone (Elliot, 2014) e Pasolini. Ragazzo a vita (Elliot, 2015). Ha insegnato letteratura francese in diverse università. Collabora con Il Venerdì di Repubblica. Da poco è uscito, sempre per Castelvecchi, Sessantotto visionario, che ci ha fornito il pretesto per incontrarlo.

Doriano Fasoli: «Sono uno di coloro che hanno vissuto gli anni Sessanta come una primavera che prometteva di essere interminabile. Per questo, mi risulta difficile dovermi abituare a questo lungo inverno.» Paris, sei d’accordo con queste parole pronunciate dal filosofo Félix Guattari?

Renzo Paris: La primavera di cui parla Guattari, che conobbi a Sabaudia, nella villa affittata da Laura Betti, è stata anche la mia. Andavo per mostre ogni pomeriggio e la sera mi vedevo un film. Leggevo libri di ogni tipo, soprattutto di critica, ma anche romanzi e ne parlavo con gli amici di allora, che li recensivano per il giornale dei socialisti, la cui pagina culturale era diretta da Walter Pedullà. Ero un cane sciolto fin d'allora e non volli scrivere per quel giornale, che vedeva le prime prove di Alfonso Berardinelli, Franco Cordelli e altri. L'inverno era quello del settarismo e dell'ideologia, che spense la bellezza dell'arte. Io però in quell'inverno non dimenticai la luce.

Chi era Paolo Rossi, il diciannovenne assassinato dai fascisti?

Paolo Rossi era un giovane universitario socialista che mi morì accanto. Eravamo in piedi sul muretto del pianerottolo della Facoltà di Lettere della Sapienza. Reagivamo a parole contro i fascisti che salivano quei gradini armati di bastoni con punteruoli di ferro. La polizia non interveniva. Vidi Paolo cadere come corpo morto fin sul pavimento, rompendosi la testa. Quella mattina era stato picchiato con un pugno di ferro dai fascisti che odiavano quel venticinque aprile di Resistenza. Fu il primo caduto della mia generazione. Avevano poco più di vent'anni quelli che dimostravano contro l'aumento delle tasse universitarie voluto dal ministro Gui. E fu l'inizio di quello che sarà, due anni dopo, il Sessantotto. Ho raccontato tutto nel mio Sessantotto visionario.

Sei stato spesso a Parigi in quegli anni? Eri molto attratto dalla cultura francese di allora?

Fin da ragazzo mi sono nutrito di cultura francese, traducendo Apollinaire, Corbière, Crevel. Mi affascinarono i surrealisti minori e naturalmente l'esistenzialismo, che gli strutturalisti avrebbero distrutto. Son andato negli anni Sessanta diverse volte a Parigi, dove mi ero innamorato di una ragazza che invece mi regalava libri di psicoanalisi. Fiutavo vecchie edizioni nei bukinisti del lungo Senna. Quella ragazza mi ragguagliò minuto dopo minuto del Maggio francese, che lei vedeva con una certa insofferenza. Non era una pétroleuse. Mi piacevano certi slogan del Sessantotto francese, tra cui quello di chiedere l'impossibile. Naturalmente non ero d'accordo con l'engagement distruttivo nei confronti degli scrittori, dei cineasti come Godard, che amavo molto.

Ti consideravi un critico militante? Avevi un ruolo attivo?

Cominciai a scrivere nei primi numeri de il manifesto, parlando di romanzi e di poesia. Era l'unico gruppo che me lo permetteva. E ho continuato per tutti gli anni Settanta. Venivo percepito come il critico militante di quel giornale e dunque inviso dagli altri giornalisti. Certo mi servivo anch'io dell'ideologia ma sempre raccontando la bellezza dei libri di cui mi occupavo. Colpì quello che scrissi su La storia di Elsa Morante e dei romanzi di Tony Duvert. La Rossanda mi ringraziò quando pubblicai sul suo giornale una pagina intera di versi inediti di Pasolini.

Quale sogno sembrava realizzare il ’68 per molti giovani?

Il sogno dei sessantottini di quell'anno maledetto non si è mai realizzato. Era nato per un bisogno di vicinanza. I giovani allora non avevano le discoteche di oggi e i social. Le università erano le nostre discoteche, dove parlavamo anche della nostra rivoluzione sessuale. Ho intitolato Sessantotto visionario il mio libro su quell'anno perché mi accorsi da subito che quei giovani da piccoli avevano bevuto il decotto di papavero, quello dell'oppio, che i contadini italiani coltivavano fino alla fine degli anni Cinquanta quando fu proibito dai democristiani. Era tutta gente che aveva trafficato con le visioni, che si coniugarono presto con quelle della gioventù americana. Fu una rivoluzione a metà, che presto, negli anni successivi, divenne terrorismo. Era come dare pugni al muro di gomma del potere.

Come è costruito il tuo libro Sessantotto visionario?

Come ho già accennato, il mio libro riguarda solo quell'anno, è un memoir dettagliato sulle occupazioni romane, sulle dimostrazioni violente tipo Valle Giulia e sulla repressione feroce di un potere cieco. Racconto quello che ho visto, anche la mia laurea, che discussi all'inizio dell'estate. E termina con la prima supplenza in una scuola media di Castello di Godego, in Veneto. Ci sono i miei amici di allora, con i quali, dopo le dimostrazioni, ci riunivamo in un caveau di via Ripetta a leggere i nostri versi. Era l'inizio di una seconda scuola romana, che andava all'unisono con quella di pittura e di musica.

Con chi stabilisti dei profondi legami, intellettuali e affettivi?

Parlo anche dei miei amori sessantotteschi, compreso quello con la poetessa che sposai. I legami intellettuali erano comunque segnati da una forte affettività, che raccontai in un romanzo La casa in comune. La comunità allora sembrava possibile. Passione e ideologia era un titolo di Pasolini.

In che cosa si differenziarono il Maggio francese da quello italiano?

Il Maggio francese fu come lo specchietto delle allodole per il nostro maggio. Noi, che credevamo di essere finalmente fuori dalla dialettica fascismo-antifascismo, ci cademmo dentro del tutto e addio a Marcuse e al suo «uomo a una dimensione», addio all'«eros della civiltà». In Francia de Gaulle stava per dimettersi dopo l'ondata di scontri degli studenti contro la polizia. Da noi non ci pensava nessuno a mollare il potere. Ci governava la borghesia più gretta e ignorante d'Europa. Noi siamo rimasti il paese che non ha mai fatto alcuna rivoluzione. E non a caso, no?

Come rivedi a distanza di 50 anni quel periodo?

Il Sessantotto fu la giovinezza di tanti italiani, che hanno portato nel cuore quell'anno. Era il tempo in cui le ragazze non vestivano più come le mamme e volevano vivere una vita felice. Gli anni Sessanta ci avevano abituato a comperare e noi non volevamo più, il consumismo ci faceva schifo. Quelle compere però non erano voluttuarie. La mia è una nostalgia del futuro, se vedo nei gilets jaunes la stessa voglia di cambiamento totale. Ma da noi ci sono i grillini che pensano di essere i gilets al potere. A ben vedere la globalizzazione ce l'hanno venduta come l'internazionalizzazione agognata. E il bisogno di stare insieme di allora è stato venduto come stare nei social, cioè consegnandoci ad una solitudine lucente. Sono ancora in attesa, se è questo che mi hai chiesto.


(Dicembre 2018)






Nessun commento:

Posta un commento