Cristiana Cimino, psichiatra e psicoanalista di formazione freudiana e lacaniana, esercita a Roma. Membro associato della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), ha scritto numerosi testi per riviste specializzate, sia italiane che straniere. È stata co-editor per anni dell’European Journal of Psychoanalysis. Si occupa da tempo del pensiero di Elvio Fachinelli. La presente conversazione prende spunto dall'uscita del suo recente studio Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile, pubblicato in questi giorni per i tipi manifestolibri.
Doriano Fasoli: Dottoressa Cimino, il titolo del suo libro Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile riecheggia quello assai noto di Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso… C’è un qualche collegamento?
Cristiana Cimino: Si tratta, evidentemente, di una citazione che in qualche modo vuole essere un omaggio al pensiero di un autore che ha accompagnato la mia storia e la mia formazione. Il suo Frammenti, sebbene sfortunatamente abusato, rimane un testo unico, che si colloca – o meglio, non si colloca – in un territorio di confine, e dunque fertile, tra letteratura, filosofia, semiotica, psicoanalisi: e potrei andare avanti, con la grazia disinvolta propria di Barthes. Il mio testo è costruito in modo molto differente, ma, egualmente, cerca di cogliere alcuni nuclei del discorso amoroso.
Su cosa poggia il discorso amoroso?
La mia ipotesi è che abitualmente il discorso amoroso, ossia la forma inconscia che prende il legame amoroso tra gli esseri umani, si fondi sulla ricerca dell’eguale, del già noto, di ciò che riporta a sé, al di là della scelta di genere. Questa esclusione del reale dell’Altro è il tentativo di non ingaggiarsi con i suoi aspetti estranei, dissonanti, che sempre sfuggono e provocano angoscia. Se si riesce a sostenerla si apre la possibilità di fare un legame in cui l’estraneità dell’Altro diventi una risorsa, forse l’unica, di entrare davvero in rapporto. Questa è l’altra forma di discorso amoroso ipotizzabile, se ci risolve ad abbandonarci all’Altro e al potenziale spaesante di cui è portatore.
«A letto c’è sempre calma piatta,» affermava Lacan… Cosa intendeva dire?
Il punto è che l’atto sessuale, il godimento in quanto tale, non è di per sé segno d’amore, per questo non c’è rapporto sessuale e dunque, dal lato dell’amore, a letto c’è calma piatta, c’è solo godimento dei corpi. Qui Lacan rimanda all’insufficienza del fallo che, incredibilmente, è proprio l’ostacolo all’amore. Esso concentra in sé tutto il godimento, godimento fallico, appunto, che, come dirà Lacan chiaro e forte nel Seminario XX, non ha a che vedere con l’amore. La scommessa è quella di andare oltre il registro fallico e attingere a un altro godimento, quello femminile, che ha più possibilità di sperimentare quell’assoluto che è l’amore. Il termine femminile non è riferito a un’appartenenza di genere ma a una posizione psichica e direi etica che anche un uomo può assumere.
Cosa l’ha spinta a pubblicare questo libro oggi?
In parte il semplice fatto che, lavorando sul tema da tempo, desideravo separarmi dal prodotto di questo lavoro. Ma soprattutto perché ho l’impressione che oggi ancora più che in altri momenti storici la questione del rapporto tra i sessi sia urgente. Il cambiamento su quel piano non è un lusso, come si potrebbe pensare, a fronte di altre priorità, è una priorità in sé. Persino Marx ne era convinto. Oltre la sua ‘impossibilità’ – il non c’è rapporto sessuale di Lacan – mi è sembrato di cogliere, nella mia pratica clinica, una domanda di novità, di apertura a possibilità di fare un legame d’amore che si collochino altrove rispetto al modello incestuoso, endogamico, così come ho cercato di riportarlo nel libro. Valeva la pena raccoglierla.
«Ognuno incontra nell’altro la traccia del proprio esilio»; «Amare significa dare ciò che non si ha a chi non lo vuole»: due altre affermazioni di Lacan… Può darne una spiegazione?
Gli enunciati lacaniani sono spesso decontestualizzati e fraintesi, diventano sentenze e si impoveriscono. I frammenti che lei cita sono molto esemplificativi della concezione lacaniana dei rapporti. Sperimentare nel legame d’amore che l’Altro con cui si ha a che fare è proprio un ‘altro’, nel senso che non è l’oggetto originario e definitivamente perduto che gli esseri umani si ostinano a voler ritrovare, può essere un’esperienza di esilio, talvolta di disperazione se essa si svolge all’insegna del rifiuto di ciò che manca, della mancanza, in questo caso dell’oggetto originario (e mitico, ma questo è un discorso complicato). La scommessa della cura è di chiudere il capitolo dell’illusione di ritrovamento di quell’oggetto per sempre per poter, finalmente, entrare in rapporto reale con oggetti sostitutivi, diciamo ‘normali’. Questa prospettiva lacaniana coincide in modo quasi esatto con quella freudiana. L’amore è un ‘niente’ per il quale ci si può ostinare a cercare misure e segni ma che sempre ripropone la sua inconsistenza, il suo non poter essere quantificato, posseduto e dunque né ‘dato’, né ‘preso’. L’amore non attiene al campo dell’avere, del possesso e delle sue garanzie, esso rimanda invece alla mancanza costitutiva dell’essere umano, da analista direi alla sua castrazione, e dunque richiede una disposizione a esporsi, a rischiare. È una posizione che lascia sguarniti, passiva nel senso migliore del termine, femminile.
Ci sono pagine dedicate a Elvio Fachinelli: lo ha conosciuto personalmente? Se sì, che ricordo ne conserva?
Non ho mai incontrato Fachinelli personalmente ma ricordo bene l’impatto che ha avuto su di me l’incontro con i suoi scritti ai tempi di Claustrofilia. Ero molto giovane ma non ero una lettrice ingenua e l’impressione fu quella di avere a che fare con un pensiero libero, che poco o nulla si prestava ad essere ridotto e collocato: scomodo. Sono convinta che tutt’ora Fachinelli sia un autore da lavorare e scoprire. In seguito ho avuto la fortuna di incontrare persone a lui molto vicine.
Si ha ancora oggi come l’impressione che la psicoanalisi si senta talvolta inadeguata rispetto alla filosofia… Fino a che punto il dialogo tra psicoanalisi e filosofia può davvero risultare fertile?
Credo che la filosofia consista essenzialmente in un esercizio di pensiero critico che, naturalmente, non può prescindere da un certo sapere. In questo senso non vedo come la psicoanalisi possa prescindere dalla filosofia, intendo dall’esercizio di un pensiero filosofico, nel suo interrogarsi su se stessa e sulle cose del mondo. A meno che non voglia ridursi, e questo è un rischio serio che corre la psicoanalisi istituzionale e in cui in parte è già caduta, a una pratica clinica di tipo medico. Cosa non disdicevole ma la psicoanalisi è un’altra cosa.
Quand’è che un atteggiamento di uno psicoanalista può diventare, suo malgrado, seduttivo e paralizzante?
Penso che ogni volta che l’assetto psicoanalitico tende a spostarsi verso una simmetria di posizioni tra paziente e analista questo rischio può concretizzarsi. Finisce la cura e inizia qualcosa d’altro. Intendo dire che quando l’analista tralascia di vigilare sulla dimensione relazionale della cura, quella che attiene largamente alla coscienza, rischia di cadere nelle trappole dell’Io e di tutti i suoi inganni: seduzione, aggressività, competizione, un uso malinteso del sentire e via dicendo. Non che questo registro psichico non abbia la sua importanza; anzi, esso va colto e utilizzato, non messo in atto. È la stessa differenza che c’è tra interpretare una parte e dimenticare che la si sta interpretando. Evidentemente questo comporta per l’analista una rinuncia che penalizza i suoi aspetti egoici, qualcuno parlerebbe di narcisismo, è per questo che l’analisi personale è così importante. Freud consigliava agli analisti di sottoporsi di tanto in tanto a delle nuove tranches.
Freud e Lacan: qual è il punto in cui si differenziano le loro concezioni dell’amore?
Mi sembra che il punto cospicuo di differenza sia quello relativo alle rispettive concezioni della castrazione, come ho cercato di chiarire nel libro. Mentre per Freud essa resta angoscia di castrazione, la roccia oltre la quale non si va, per Lacan, nel corso di un’analisi, è richiesto il suo attraversamento e la soggettivazione della castrazione, della mancanza potremmo dire. Solo questa operazione permetterebbe di trovare un posto nel mondo e di fare un legame con l’Altro, cosa che, tuttavia, non è affatto garantita. Tutti gli esseri umani tendono a sfuggire alla rinuncia a un’illusione di completezza e di ‘autonomia’ che esclude l’Altro: questa rinuncia, che prevede la necessità di entrare in contatto con quel vacillamento assoluto che è l’angoscia di castrazione, rende l’operazione spesso impraticabile, ma bisogna provarci, la cura deve tentare di arrivare a questo punto, intendo.
«Non tutto è sesso ma in Tutto c’è il sesso,» diceva lo psicoanalista argentino Mauricio Abadi: è d’accordo?
Direi che in origine tutto è sesso, o meglio, godimento, come affermava Freud ancora prima di Lacan. Godimento del corpo, godimento che tende ad essere sregolato con cui ce la dobbiamo vedere senza rinunciarci troppo – troppa sublimazione è pericolosa, ammoniva Freud – ma anche evitando di esserne sopraffatti come accade nelle psicosi e in una certa misura nelle nevrosi.
Il misticismo ha un ruolo importante nella sua professione di psicoanalista?
La ringrazio per questa domanda. Anziché di misticismo preferisco parlare di mistica perché è un termine depurato da aloni di irrazionalità che si prestano a equivoci. La mistica, sia come pensiero che come pratica, è una disciplina rigorosa e per nulla irrazionale o peggio, in odore di esoterismo, che può riservare sorprese. Per questo richiede un certo coraggio e una certa apertura mentale. Direi che è una posizione etica nella vita e naturalmente, visto che è ciò che faccio, nella professione di psicoanalista. Dal mio punto di vista essa va oltre la necessità, da parte dell’analista, di desoggettivarsi il più possibile, ossia diventare neutro, opaco, più strumento e meno persona. Si tratta, come ho cercato di dire nel libro, della disposizione ad essere atopici, erranti, pronti ad abbandonare le proprie coordinate per potersi disorientare, direi proprio che si tratta di una disposizione al disorientamento. Ma, soprattutto, di acquisire una posizione femminile.
Qual è la posizione femminile nella dimensione amorosa?
Direi che la posizione femminile è proprio ciò su cui si fonda la dimensione amorosa, nella prospettiva che ho cercato di delineare nel libro. Nell’amore, e questo gli analisti lo vedono nell’amore di transfert, è richiesta una condizione di passivizzazione, di abdicazione all’Altro che oltrepassi – almeno in parte – gli orpelli immaginari relativi alla dimensione fallica che sono di ostacolo all’amore se esso non è solo godimento, e non ci sarebbe nulla di male. In questo senso mistica e dimensione amorosa coincidono, nel loro desiderio di radicalità praticata: da qui la necessità, dal mio punto di vista, di introdurre l’elemento mistico nell’amore, di riuscire a rintracciarlo. Lacan affermava: «Io non cerco, trovo», ecco, si tratta di trovare quello che c’è, nel senso di averlo in mente, altrimenti non lo si può trovare. Ciò che definisce la posizione femminile è un sistema di coordinate necessario alla pratica psicoanalitica e direi alla vita stessa.
(Settembre 2015)
Nessun commento:
Posta un commento