Literature by James Koehnline (2007) |
In un articolo intitolato «Non tutto è perduto» uscito sul suo blog lo scorso
13 maggio,
Roberto Cotroneo, riferendosi al calo di vendite annunciato al Salone del Libro
di Torino, lamenta «dati poco incoraggianti». E, prosegue: «In Italia c’è stato
quasi un crollo del mercato editoriale, e la cosa ancora più preoccupante è che
stanno diminuendo i lettori forti, ovvero coloro che leggono più di 12 libri
all’anno.»
Condivido il senso dell'articolo, e lo apprezzo molto, tranne per alcuni passaggi dai quali prendo qui spunto. Non condivido affatto l'affermazione secondo la quale i «lettori sono di gran lunga migliori degli editori, degli scrittori, dei librai e dei critici», anche se intuisco l'amarezza che ne ha dettato la falciante enunciazione e l'iperbole provocatoria: se lo fossero troverebbero da sé le vie che menano ai libri di qualità.
Le persone sono perlopiù 'disorientate' e chi legge ha sempre minor contezza di cosa sia letteratura e cosa sia intrattenimento. Se esse, come afferma Cotroneo, «hanno capito che la letteratura è un marketing di poco conto», questo significa che scambiano l’editoria per «letteratura». Di fatto, prendendo il sistema editoriale per un Luna Park (poiché su questo pone l'accento la grossa editoria italiana, a cominciare dalle copertine 'allettanti' e finendo con le megalibrerie con servizio bar), molti lettori (e grazie al cielo non tutti) confondono l'editoria che gli si approssima agevolmente con la letteratura, la quale non è detto che non serva anche a far divertire e svagare, ma certo è ben poca cosa se si limitasse a quello.
Il discredito della narrativa sta colpendo da tempo anche i paesi anglofoni, i quali hanno premi di qualità notevolmente superiori ai nostri, se non altro per lungimiranza. Non è detto che il romanzo debba essere un genere imperituro. Ma che imperitura debba essere la narrativa non credo ci sia molto da dubitare: piuttosto c'è da porsi il problema, come ha giustamente indicato Cotroneo, di quali siano le ragioni del discredito. Anche il lettore fornito di buone destrezze interpretative sta perdendo l'abitudine a prender seriamente sia un romanzo che un film.
Leggere tra le righe, farsi guidare dalla semantica della forma (che senso abbia un'inquadratura o un'allitterazione, per esempio) pare sia diventato un esercizio difficilissimo per il lettore vorace, ma disattento. E per lettore non intendo colui che legge e non è poi anche uno scrittore. Perché una letteratura prosperi nel proprio tempo, essa abbisogna di lettori attenti al testo, attivi e pronti a criticare e dialogare con gli autori e con gli altri lettori. Limitarsi alla considerazione che un libro piaccia o meno non è un approccio in questa direzione.
Non muovendo da un problema culturale, ma dal fatto che si vendano meno libri, Cotroneo non inquadra il problema nella dialettica che prende corpo tra letteratura e divulgazione in seno ad una collettività. La letteratura non è certo la stessa cosa di quel che possa apparire secondo il discorso economico: per quest'ultimo vedere più libri o più bulloni potrebbe non fare molta differenza sotto il profilo di occupazione, Pil, leva fiscale, formazione, finanziamenti, bilanci, smaltimento residuale ecc.
La letteratura col mercato non c'entra nulla, benché il mercato abbia oggi (ma non ieri) molto a che fare con la letteratura. La letteratura viene prima del mercato, a prescindere dal mercato e va al di là del mercato. Prima non in senso economico e politico, ma antropologico, storico, psicologico e dialettico, e dunque anche morale. Fin dall’antichità il potere ha sempre cercato di avocare a sé la letteratura, con variegati risultati, ed in questo momento storico il mercato, in quanto potere, fa il suo gioco, a discapito degli autori.
Se il problema letterario non viene compreso nelle sue radici o rizomi, è ben difficile comprendere il danno che la cultura italiana sta subendo non tanto sotto il profilo della produzione editoriale, quanto dei 'discorsi' di spicco nel panorama contemporaneo, i quali sì producono un riflesso anche sull’economia del nostro paese. La crisi economica (le vendite di libri) viene dopo una crisi tante volte segnalata da me e da altri riguardo il sistema culturale italiano, incapace qual è da lungo tempo di esportare le proprie riflessioni e raffigurazioni all'estero.
Che crollino le vendite dei libri-spazzatura non credo necessiti di prefiche. Ma di certo chi svolga un'attenta attività critica ha il compito di comunicare ai lettori cosa meriti di esser letto e perché, rifiutandosi di scrivere brevi testi compiacenti e ritagliandosi piuttosto comodi spazi (come, per esempio, i blog), in cui offrire interventi critici di una certa lunghezza. E smetterla di scrivere bene del libro di un autore, perché lo stesso ne aveva scritto uno buono in precedenza: soprattutto se si tratta di un 'amico' oppure di un 'collega' che pubblichi col proprio gruppo editoriale.
Le recensioni d'autore, da quel che mi risulta, sono in genere di molte cartelle sui più stimati quotidiani anglofoni e sui relativi allegati. In Italia la brevità nel recensire segue una tradizione novecentesca che nasce prima di noi e che si è negli ultimi decenni ulteriormente liofilizzata, in nome dell'autorevolezza del recensore (la ‘firma’) e a discapito del contenuto critico (non si capirebbe altrimenti perché Atwood e Coetzee debbano scrivere lunghe recensioni ‘dimostrando’ il loro punto di vista e i nostri illustri concittadini – di ieri e di oggi – no).
Sempre ammesso che, nell'era di influenti quotidiani e riviste online come The Huffington Post e The Daily Beast, il quotidiano debba esser qualcosa di cartaceo e seguire i format tradizionali. Che il mezzo contribuisca in modo essenziale a formare il messaggio lo sapeva Aristotele molto prima di Bachtin, Lotman e McLuhan. Se la critica italiana si è affidata agli editori e non viceversa, questo è un problema che il critico, perché sia attento, deve porsi.
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[pubblicato in: Notizie in… Controluce, n. XXI/6, giugno 2012, p. 18.]
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