Adriano Ossicini al Palazzo del Quirinale riceve gli auguri del Presidente Napolitano in occasione del suo novantesimo compleanno. |
Doriano Fasoli: Il
primo passo per dare un necessario assetto strutturato al settore è stata
l’istituzione dell’Ordine degli Psicologi. Successivamente la definizione di
criteri per la qualifica di Psicoterapeuta e l’apertura delle Scuole di
Psicoterapia. Negli ultimi anni anche la SPI, dopo un acceso dibattito interno,
ha chiesto e ottenuto il riconoscimento come scuola di formazione di
psicoterapeuti. Tempo addietro sono stati introdotti gli ECM, i crediti
formativi, cosicché i momenti d’incontro e scambio teorico-clinico fra
psicoanalisti sono soggetti a firme e questionari di apprendimento (infatti,
una larga parte di psicoanalisti lavora o collabora con enti e quindi necessita
di queste certificazioni). Se da un lato è auspicabile che l’operatore nel
settore della salute continui a informarsi e aggiornarsi, non ritiene che
questo tipo di controllo esterno, almeno per come è organizzato ora,
rappresenti un’intrusione, crei un’interferenza, soprattutto per la comunità
degli psicoanalisti? Finora le competenze per valutare l’avvenuta «crescita» –
ad esempio, il candidato che consegue l’associatura – erano state e sono
tuttora riconosciute solo ad appartenenti qualificati della Società stessa.
Adriano
Ossicini: Il problema della libertà dello psicoterapeuta,
sul piano formativo e su quello operativo, ed il problema della responsabilità
dello Stato di fronte all’utente, per le indispensabili garanzie che lo Stato
deve assicurare nei delicati settori della salute, è un complesso problema che,
comunque lo si risolva, presenta delle difficoltà. Io credo che, visto che è
impossibile rinunciare a certi controlli sul piano della formazione e
dell’intervento, si tratta, da parte degli psicoanalisti, di trovare i modi e
le forme, che sono possibili, con un certo impegno, per evitare intrusioni ed
interferenze dannose.
Qual è la sua opinione
sulla ‘verificabilità’ dell’efficacia della psicoanalisi? Questo è un discorso
antico, ma, se seguiremo il trend di paesi come la Germania, ben presto le compagnie
assicurative imporranno criteri di accettabilità, di durata, di «successo»
delle psicoterapie e delle analisi…
Il problema della
verificabilità dell’efficacia della psicoanalisi è un problema antico. Come
ancor più antico quello della verificabilità di ogni intervento: al limite
anche farmacologico, ma senza dubbio comunque psicoterapeutico, a tutti i
livelli. Esso non è risolvibile con formule astratte, ma nei limiti di un’attenta,
continua e critica analisi della domanda e delle soluzioni offerte nel tempo.
Il dramma avviene – e non solo nel campo della psicoanalisi, ma in tutto il
campo della medicina – quando intervengono le assicurazioni a dettare dei
criteri legati non agli aspetti clinici, ma a problemi di carattere economico.
Bisogna cercare di difendersi il più possibile dall’applicazione di questi
criteri sui quali, ad esempio, c’è una documentazione negli Stati Uniti relativa
alle deformazioni introdotte nel rapporto medico-paziente dalle richieste delle
assicurazioni.
Ritiene che lo sforzo
compiuto da Faimberg, Canestri, Tuckett di portare la riflessione sui modelli
teorici impliciti nella mente dell’analista al lavoro possa realmente condurre
ad una comunicazione più fluida, meno inquinata da fraintendimenti fra gli
psicoanalisti, come forse progettava Bion con la griglia?
Non ho elementi per
valutare a fondo lo sforzo compiuto da Faimberg, Canestri, Tuckett, ma – per
quello che mi è possibile valutare – penso che sia positivo.
Nel 1975 lei partecipò
ad un Convegno dedicato al tema della libertà. Qual è, oggi, la sua idea a tale
proposito?
Il problema della libertà è
un problema complesso sul quale è difficile dare un giudizio nei limiti della
psicologia. Uno sforzo serio in questo senso fu fatto, a suo tempo, da Musatti.
Ci sono dei problemi riguardanti la libertà in politica o comunque nella vita
sociale, nella dinamica di gruppo, sui quali la psicologia sociale e la stessa
psicoanalisi hanno portato contributi. Ma su quanto gli esseri umani siano
liberi in assoluto e su che cosa consista in teoria la libertà è difficilissimo
esprimersi senza affrontare aspetti filosofici e religiosi.
In ambito
psicoanalitico, da quale parte le sembra provengano gli spunti più innovativi,
più vitali?
Forse per la mia formazione
ritengo che nel campo psicoanalitico i contributi più veri e più vitali siano
comunque forniti dalla SPI e dalla Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica.
Interessanti contributi, penso, possano venire anche dalle due società
junghiane.
Che ricordo conserva di
Nicola Perrotti? È vero che lei s’interessò ai suoi scritti, trovandogli anche un
editore disposto a pubblicarglieli?
Conservo un profondo
ricordo di Nicola Perrotti, che fu prima mio compagno di lotta nella Resistenza
e poi il mio analista. Ho collaborato con lui anche sul piano culturale ed ho,
per primo, raccolto tutti i suoi scritti, trovando appunto un editore disposto
a pubblicarli.
Ha conosciuto
personalmente anche Emiliana Mazzonis: che tipo di analista era?
Ho conosciuto personalmente
Emiliana Mazzonis, ma più sul piano umano e amichevole che su quello
professionale. Ed ho un ricordo profondo di lei. Per quello che posso
ricordarmi, era un’analista molto creativa, con una grande disponibilità
personale e con particolare capacità nel campo dell’infanzia, specialmente
quella con problemi più gravi e con maggiori difficoltà di rapporto.
Come vede, attualmente,
i nostri terrori quotidiani? Queste guerre senza lotta? Ritiene che gli
psicoanalisti dovrebbero fornire ai pazienti la possibilità di tollerare il
disaccordo, di tollerare la paura?
Non credo che sia facile
dare un contributo sistematico e generale a tutto quello che ci deriva dai
drammi quotidiani di una realtà che, all’alba di questo millennio, si rivela
ancor più traumatizzante che in quello precedente, accentuando in noi la
sensazione che avesse ragione Gianbattista Vico quando ci metteva in guardia
dal considerare che il progresso fosse collegato al progredire della storia.
Certo, sul piano soggettivo, gli psicoanalisti possono collaborare ad aiutare i
pazienti a tollerare il disaccordo e a tollerare la paura, ma tutto questo è
collegato a problemi più ampi che vanno affrontati sul piano dell’educazione
fin dall’inizio della nostra esperienza umana e sul piano politico-sociale,
perché un impegno a migliorare le condizioni delle relazioni umane può anche
portare un contributo a tollerare gli aspetti apparentemente intollerabili
della nostra esistenza.
Qual è per lei la
funzione o il ruolo dell’interpretazione?
È difficile dare una
risposta a questa domanda, anche perché il termine ‘interpretazione’ non può
essere rinchiuso soltanto nelle sue dinamiche affrontate dalla psicoanalisi.
Per quanto riguarda il problema dell’interpretazione in campo psicologico,
penso che il contributo fondamentale sia stato fornito proprio dalla
psicoanalisi, ed in modo particolare dai più significativi sviluppi recenti
della psicoanalisi contemporanea. Accennerò, per puro esempio, all’importanza
dei contributi forniti dall’attenzione sempre più posta sul ruolo del
controtransfert.
Quali sono stati i suoi
incontri fondamentali, sia da un punto di vista affettivo che intellettuale?
È difficilissimo rispondere
a questa domanda. Se in campo clinico (visto che mi sono formato prima come
medico), e sul piano anche affettivo, quello del mio maestro, il professore
Giovanni Borromeo. Dal punto di vista intellettuale, se ristretto al campo
psicoanalitico – a parte il mio analista Perrotti – la persona alla quale sono
stato più legato, anche sul piano affettivo oltre che formativo, è stato Cesare
Musatti. E poi, in seguito, Matte Blanco. Sul piano della cultura in generale,
un sacerdote di grande spessore, Don Giuseppe De Luca, il filosofo del dialogo
Guido Calogero, il filosofo morale Felice Balbo, il francescano Padre Stefano
Bianchi, studioso di Sant’Agostino e Duns Scoto, l’economista Claudio Napoleoni
e più di tutti il grande musicologo e uomo di cultura Fedele D’Amico.
Si considera un analista
strettamente ortodosso oppure un analista veramente svincolato dai lacci di
scuole, dottrine, capace di abbracciare figure diverse e di grande respiro?
Non mi considero un
analista strettamente ortodosso, se questo significa essere vincolato dai lacci
di scuole e dottrine. Non so se sono capace di abbracciare figure diverse e di
grande respiro: comunque ci ho provato. Pur essendo sempre rimasto legato alla
SPI, alcune mie polemiche con la società stessa non sono state di modesto
rilievo, di fronte, a mio avviso, ad alcune rigidità formali – anche sul piano
culturale oltre che su quello di relazione – e, per un certo tempo, ad alcuni
rifiuti all’operare nel pubblico e al persistere di una chiusura nel privato.
Parliamo delle funzioni
difensive degli analisti: che cosa hanno disperatamente bisogno di difendere
gli psicoanalisti o da che cosa cercano di difendersi?
Anche qui non è facile
rispondere in modo univoco. Credo che gli psicoanalisti, come tutti coloro che
sono seriamente impegnati in campo clinico e scientifico, abbiano bisogno di
difendere due cose, ma anche di verificarne continuamente la validità: la
serietà della loro teoria e l’efficacia della loro azione sul piano clinico.
Poi, la storia ci insegna che essi hanno dovuto difendersi nel tempo – ma non
solo loro – da alcuni aspetti della realtà culturale, politica, sociale (anche
nei suoi interventi di carattere economico). Una realtà come quella della
psicoanalisi che, volenti o nolenti, come disse Musatti, ha rappresentato una
delle più importanti rivoluzioni del secolo passato (che Musatti poneva insieme
alla rivoluzione dovuta alla teoria della relatività e a quella del marxismo)
non può non essere stata oggetto di offensive, talvolta anche drammatiche, che
hanno creato il bisogno, talvolta anche disperato, di difendersi: con tutti i
limiti, ovviamente, delle posizioni di carattere difensivo.
Qual è il suo concetto
di creatività?
Il problema della
creatività non è solo un problema psicologico e forse non lo è neanche in modo
prevalente. La stessa definizione del termine è difficile. Per quanto riguarda
gli aspetti psicologici della creatività, io penso che gli studi più
interessanti siano legati alla creatività nel campo dell’infanzia e nel campo
artistico. In questi campi i maggiori contributi sul piano psicologico sono
stati quelli della psicoanalisi, ma anche della psicologia della forma. In
questo senso è fondamentale l’opera di Rudolf Arnheim, gestalstista e
psicoanalista. Anch’io mi sono occupato di alcuni problemi della creatività
nell’infanzia, ed anche in quella dell’infanzia con gravi problemi di carattere
psicologico: ad esempio, nei soggetti con disturbi di tipo autistico; ed in
questo senso mi è stato molto utile un rapporto sistematico con Matte Blanco e
con le sue intuizioni legate alla teoria della bi-logica. Affrontai moltissimi
anni fa anche questo tema nella mia tesi di laurea in psichiatria con una
studio sperimentale sui rapporti tra memoria e immaginazione. Ma purtroppo, per
ragioni belliche, la tesi andò perduta.
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