18 luglio 2012

«Intervista a Carmelo Samonà» di Doriano Fasoli


Carmelo Samonà morì a Roma nella clinica «Marco Polo», dove era stato ricoverato da qualche tempo, il 17 marzo 1990. Era nato a Palermo nel 1926. Noto ispanista, fine critico letterario, insegnava Letteratura spagnola all'Università «La Sapienza» di Roma. Come narratore aveva esordito solo a 50 anni, ma i romanzi Fratelli (Einaudi, 1978) e più tardi Il custode (Einaudi, 1983) lo avevano imposto come uno dei nostri talenti più appartati e sofferti.

La mia conversazione con Samonà – in gran parte inedita avvenne in due tempi: il primo incontro risale al mese di maggio 1986, il successivo al febbraio 1989.

Doriano Fasoli: Da quanto tempo si è stabilito a Roma?

Carmelo Samonà: Dal 1936; avevo dieci anni.

Come le appare, oggi, questa città?

Splendida e perversa. O meglio: di una bellezza polverosa, ferita, sopraffatta da violazioni impudiche, spesso brutali. Io la ricordo nell'aurea epoca del suo provincialismo: era magari dimessa e sciatta, ma d'una struggente amabilità. Il fascismo le assestò i primi colpi con le baggianate imperiali e littorie; poi è venuta la speculazione edilizia; infine le automobili. Queste ultime non l'hanno solo imbruttita, la stanno uccidendo.

È come se nella capitale si avvertisse sempre una diffusa resistenza al «nuovo»: non sembra anche a lei?

È vero; e si spiega col curioso paradosso che si annida nella mentalità dei romani (o di una parte di essi). Sono sconsideratamente in balìa dei mezzi meccanici, che li strangolano lentamente ogni giorno, e delle cupe periferie che si addensano ai bordi della città; ma coltivano per questa città avariata e stupenda un affetto tenace, quasi domestico. Vivono percorrendo in macchina, a passo d'uomo, le strade del centro, intasando rumorosamente i quartieri contigui; ma sono legati a ciò che «c'è» e che «si vede» da sempre. Nell'intimo sono conservatori. È una condizione complessa, e non sono sicuro che sia un segno di arretratezza.

Questa lentezza, questa cautela per i grandi rivolgimenti è anche una prova di civiltà; forse è il segnale profondo che Roma è la prima città dell'Italia meridionale, e questo, benché sia di moda affermare il contrario, non mi sembra una componente nefasta, ma un fattore di vitalità, di potenziale saggezza. Dimostra un'attitudine antica a vivere dentro le cose, ad accettare le contraddizioni e la conseguente perennità dell'ubi consistam, a resistere nella forma consolidata del proprio passaggio terreno. Naturalmente a Roma (e più drammaticamente a Napoli e a Palermo) siamo al limite del paradosso: un grado più sotto l'anacronismo è mortale, la saggezza si trasforma in paralisi.

Non mi faccia entrare nel merito di concreti progetti di innovazione; non ne so nulla. Preferisco immaginare un futuro da fantascienza. Sogno una Roma divisa in due città: una sotterranea e invisibile (da costruirsi), ricolma di vasti parcheggi, fittamente ricamata da veloci arterie di scorrimento, attraversata da un capo all'altro da fulminei tronchi di metropolitana; l'altra visibile, alla luce del sole, lasciata qual è attualmente, anzi restaurata dove è necessario, libera di coltivare le sue pigre abitudini, la sua parca vocazione all'immutabile, alle mitiche promenades. Quante migliaia di miliardi occorrerebbero? Io me la immagino così nel Duemila; mi ostino a sognarla. Spero che non le sembri una frivolezza.

Riesce a scrivere agevolmente a Roma, oppure va altrove per lavorare?

Ho una casa a Pisa, dove lavora mia moglie, che, stanca di Roma, ha avuto il coraggio di trasferirsi e cambiare vita. La stimo per questo; ma io, 'romano' di adozione, sono abbarbicato al mio studio dei Parioli, benché rumoroso, e non saprei farne a meno. Purtroppo non ho una villa in campagna; ho dimenticato cos'è lavorare 'ascoltando' il silenzio, e non escludo (grave segno di perversione) che ne sarei disturbato.

In quale altra città europea le sarebbe piaciuto vivere?

Ho passato giorni gradevoli a Parigi, anche a Londra, ma è troppo poco per dire che ci abiterei volentieri. Conosco bene Madrid, dove uno studioso, non solo un turista, può vivere agevolmente: tuttavia, per i miei gusti, è un po' troppo capitale europea (al contrario di Roma!). Niente: preferisco restare dove mi trovo.

Attribuisce molta importanza alla funzione dell'insegnamento, in questa città?

Ovviamente moltissima, e non solo perché è il mio mestiere. Proprio per questo, però e limitandomi all'Università di cui ho una certa esperienza, – ricominciano le dolenti note 'romane'. Si parla molto del rapporto fra l'Università e la città, di portare i problemi della città nell'Ateneo, e viceversa. Ed è giusto. Ma questo matrimonio si fa tra due malati: un organismo pletorico e ansimante, l'Università, e una vita cittadina violenta e sconnessa. Non vorrei sembrare disfattista, ma un certo cauto pessimismo mi sembra giustificato. Io credo che la gestione Ruberti abbia avuto il merito di additare i problemi, di 'aprirsi', appunto, alla città. 

Su questa linea, i due rettori successivi hanno fatto e fanno del loro meglio: Talamo (che purtroppo si è dimesso dopo pochi mesi per motivi di salute) aveva assunto la prassi della gestione collegiale dei poteri; Tecce, l'attuale rettore, sta rinnovando le istanze di coinvolgimento dell'istituzione universitaria in una socialità più vasta. Si può confidare (lo spero) in qualche successo, magari parziale. Tecce è un combattente, le sue iniziative sono degne di stima: è possibile che il rinnovamento, alla lunga, si faccia strada.

Ma il nemico è forte, capillare e invisibile; e consiste, mi pare, nella collusione fra due degli istituti più raffinatamente patologici della nostra cultura cittadina: la macchina imprenditoriale e l'apparato della burocrazia. Questi due giganti preposti alla tutela del funzionamento e dell'efficienza di ogni organismo civile, si scontrano sul terreno dell'Università, nella quale riversano lentezze, particolarismi e disfunzioni endemiche dell'intera compagine urbana. Non c'è da stare allegri. I rimedi? Mi limiterò a fare un esempio che è sulle bocche di tutti. Si parla tanto d'una terza, d'una quarta università romana. Non sarebbe il caso, intanto, di rendere funzionante almeno la seconda, distribuendo concretamente le forze? Di renderla, cioè, effettivamente correlata alla prima, tale, insomma, da cominciare a condividerne gli oneri?

Quando frequentava l'Università da studente, si respirava una maggiore intimità con la cultura?

Sta parlando degli anni Quaranta, dell'immediato dopoguerra! C'era, allora, una gran confusione, ma era anche la ripresa dopo il fascismo e perciò si respirava un clima di libertà e di iniziative anche nell'ambito degli studi. Ho l'impressione che a quel tempo, però, come adesso (in questo nulla è cambiato), una certa vitalità culturale, di Roma e dell'intero paese, si sviluppasse fuori dalle aule universitarie: nel cinema, nell'impegno politico, nella risorgente editoria. Ora non è diverso. Anzi: la crescita dell'apparato, caso mai, ha accentuato il problema. Un'università che sia centro di animazione culturale resta ancora l'obbiettivo aperto: forse l'utopia. Nel frattempo, sarebbe già tanto che ci si potesse studiare con serietà.

Cosa legge nei volti della gente: una maggiore inquietudine o serenità?

Serenità no di certo; caso mai, una stolida sazietà. Ma, nella maggioranza dei casi, leggo inquietudine, a volte anche solitudine; e, probabilmente, come da parte mia, un desiderio inespresso di fermarsi a conversare, magari di perdere tempo...

A metà del mese di aprile 1986 è andato in onda, per il ciclo di Rai 3 «Telecinema: cinque autori di cinema per la televisione», Fratelli della regista Loredana Dordi (che lo ha sceneggiato insieme a Franca Ongaro Basaglia). Ne sono interpreti Rudiger Vogler, Enzo Cosimi, Mismy Farmer. Il film (vincitore ex aequo con L'amara scienza di Nicola De Rinaldo del premio De Sica al Festival di Venezia '85) è tratto dal suo romanzo (dal titolo omonimo), pubblicato da Einaudi nel 1978. 

Professor Samonà, qual è il punto d'incontro che ha potuto cogliere tra il film della Dordi e il suo romanzo?

La Dordi è stata una lettrice attentissima del romanzo. Poi, com'era giusto, ha seguito una sua via, guardando al libro solo nel suo nucleo essenziale: la 'situazione'. Perciò, non credo vi siano legami troppo stretti fra le due opere. Ad esempio: il film, molto più che il romanzo, mi pare abbia portato l'attenzione soprattutto sul 'caso psichiatrico' e sulla problematica che quel caso comporta. Diverso è anche il trattamento dello spazio e del tempo, perché obbedisce a leggi formalmente diverse. Ancora: nel film vi sono, ovviamente, delle immagini e delle parole; quindi non è descritta – non poteva essere descritta l'attività del pensiero, che nel libro ha una grandissima parte.

Può dire, in breve, qual è lo spirito che informa Fratelli?

Non è facile rispondere a questa domanda. Quello che posso dirle è che non fu mia intenzione scrivere un'opera edificante nel senso della 'malattia mentale' o della cosiddetta 'nuova psichiatria'. In un'epoca di grandissima diffusione del problema psichiatrico, non c'era, nel mio libro, nessuna proposta sociale, nessun progetto ideologico, nessuna etichetta morale da difendere. Fratelli è semplicemente una storia, il racconto di un'esperienza di coppia in una situazione 'di malattia', vissuta in chiave fantastica, non pedagogica.

A distanza di alcuni anni, mi sembra di poter ribadire che se c'è un interesse in quel libro è nella testimonianza di una situazione umana (e naturalmente sociale) in quanto racconto, non in quanto cronaca o riflessione morale.

Fra i giovani narratori italiani in chi vede un'autentica spinta innovativa?

Non lo so. Non voglio impancarmi a giudice, dal momento che leggo poco le novità e non credo di avere neppure il fiuto del critico militante.

Quali sono gli ingredienti che, secondo lei, fanno un buon romanzo?

Ci sono degli ingredienti per fare un buon romanzo? Magari c'è anche una lista con le dosi giuste, con le combinazioni esatte? Può darsi. Persone molto autorevoli ne sono convinte, e io stesso, in qualche corso universitario, uso la parola «ingredienti», e insegno agli studenti che c'è una grammatica narrativa. Così, su due piedi, mi consenta però la risposta più ovvia: il miglior ingrediente per fare un buon romanzo è avere un talento di scrittore.

Un'ultima domanda fuori dalla letteratura, ma in rapporto col suo romanzo e col film: che cosa significa per lei «malattia» e che cosa «normalità»?

L'esperienza ha dimostrato che c'è un tragico confine fra le due cose: sono, però, come due territori limitrofi, e qualche volta la linea che li separa è sfilacciata, o rotta in alcuni punti; e allora ci si chiede: dove finisce la normalità e dove comincia la malattia? Qual è il punto in cui il filo è divelto e magari, se cammino la notte, mi trovo dall'altra parte? Sono domande inquietanti, anzi affascinanti, soprattutto dentro un romanzo. Ma il confine esiste, e i 'normali' lo sentono ancora con grande forza. E se ne difendono. Questo la società civile non può ignorarlo. Passerà ancora molto tempo prima che si faccia carico interamente del problema, come dovrà, e lo consideri fino in fondo, senza paure né ipocrisie.

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