Martin Heidegger nasce nel
Il clima filosofico nel quale si colloca la produzione di Heidegger è caratterizzato, in linea generale, da quello che viene chiamato il «ritorno a Kant», successivo alla decadenza dell’hegelismo. Tale ritorno si era manifestato soprattutto nella teoria della conoscenza, con
Heidegger conobbe tutti questi autori, spesso anche personalmente. Appaiono importanti nella sua formazione, in particolare, Dilthey, Rickert (di cui Heidegger fu allievo) e Husserl. Dilthey aveva individuato (come già aveva fatto a suo tempo
Di Husserl Heidegger fu personalmente assistente a Friburgo. La filosofia di Husserl ha tentato continuamente di liberarsi dallo psicologismo di Brentano (specie dopo le feroci critiche di Frege) per raggiungere una visione oggettiva e rigorosa delle «essenze»: e tentava di raggiungere questo scopo partendo dalle «percezioni della mente» di Hume, perché queste gli permettevano di saltare a pie’ pari il rapporto soggetto/oggetto e di ottenere una «visione immediata» degli oggetti. Ma, anche se le percezioni della mente diventavano in tal modo qualcosa di diverso dalle percezioni di Hume, il loro marchio soggettivo non si poteva cancellare del tutto, col rischio di una continua ricaduta nello psicologismo, rischio da cui la fenomenologia di Husserl non può dirsi mai immune.
In ogni caso, Heidegger leggeva anche il pensiero di Husserl come una filosofia del concreto, del finito, e non a caso dedicò Essere e tempo proprio a Husserl. Anche i contatti con
Non minori divergenze nascevano con il criticismo della Scuola di Marburgo, che si manifestarono concretamente, all’epoca della pubblicazione di Kant e il problema della metafisica (1929), nei Colloqui di Davos, svoltisi nello stesso anno fra Heidegger e Cassirer. Mentre
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Di Essere e tempo Heidegger pubblicò solo la prima parte; la seconda, benché annunciata, non vide mai la luce. Il titolo del libro è sotto alcuni aspetti fuorviante, perché esso meglio si potrebbe chiamare Esserci e tempo, dal momento che il protagonista principale del libro è proprio l’Esserci, vale a dire non il Sein, come indica il titolo, ma il Da-sein, cioè l’essere qui e ora, o meglio l’essere condizionato dal qui e dall’ora, dalle scansioni spazio-temporali di un soggetto certamente trascendentale (quindi non del soggetto empirico) [1], ma inevitabilmente finito. Se in Essere e tempo si parla dell’Essere, ciò avviene esclusivamente a partire dall’Esserci, dal Dasein. Ogni «conoscenza dell’Essere», in Essere e tempo, è un «genitivo oggettivo», con ciò che inevitabilmente ne consegue: vale a dire che l’unico Essere di cui si parla e si può parlare è quello conosciuto e vissuto dall’Esserci sulla propria pelle (sia pure una pelle «trascendentale»), vale a dire dall’essere della propria esistenza (di qui l’uso del termine esistenzialismo in relazione alla filosofia del primo Heidegger). Una vera «conoscenza dell’Essere» si avrà dopo la svolta, quando il genitivo diventa soggettivo, perché ora è l’Essere che, attraverso l’Esserci, conosce se stesso: una riproposizione pura e semplice, come vedremo meglio a suo tempo, della metafisica hegeliana. Va detto, peraltro, che lo stesso Heidegger ha sempre negato l’esistenza di un primo e secondo Heidegger, così come l’esistenza di una svolta nel suo pensiero, al quale ha sempre rivendicato un’assoluta coerenza. E tuttavia è innegabile che l’Essere – nel significato pieno che assumerà dopo la svolta – sia totalmente assente, fuorché nel titolo, dall’opera del ’27.
Infatti quando Heidegger si chiede «in quale ente si dovrà cogliere il senso dell’essere?» [2], ed individua nell’esserci tale essere, è chiaro che l’esserci non potrà che cogliere l’essere a modo suo, tanto più che «l’essere è sempre l’essere di un ente» [3]. Del tutto conseguentemente, Heidegger anticipa il significato complessivo dell’opera dicendo che «la temporalità sarà dimostrata come il senso dell’essere che chiamiamo Esserci» [4]. Se si pensa che nel secondo Heidegger l’Essere sarà concepito, in modo affatto tradizionale, come fuori del tempo, si capisce meglio la distanza fra questa opera e le successive.
La prima caratteristica dell’Esserci è quella di essere nel mondo, cioè di essere a contatto con gli enti-cose [5]. Le cose si presentano all’Esserci come cose utilizzabili: l’utilizzabilità (Zuhandenheit) delle cose implica la loro vicinanza spaziale (Zu Hand = a portata di mano, vicino). La spazialità o estensione (res extensa) è il tratto fondamentale del mondo nella filosofia cartesiana. La via privilegiata di accesso a questo mondo, altrimenti inconoscibile dai sensi, è la conoscenza fisico-matematica. Cartesio, quindi, «prescrive» [6] al mondo come essere autentico sulla base di un’idea preconcetta dell’essere, quella della scienza moderna (un tema, questo, che verrà ripreso da Husserl nella Crisi delle scienze europee, 1935-37, e da Koyré). Ma anche il soggetto di questa conoscenza, la res cogitans, viene concepito sulla base della stessa idea: «Cartesio pone l’essere dell’Esserci sullo stesso piano dell’essere della res extensa: la sostanza», vale a dire come «semplice presenza permanente» [7]. L’ego cartesiano è una res cogitans priva di mondo [8].
Occorre invece far emergere dalla spazialità reificata cartesiana, in cui lo spazio puro è frantumato in «posti» [9], il vero senso della spazialità. Infatti «l’incontro con l’utilizzabile nel suo spazio ambientale è possibile onticamente solo perché l’Esserci stesso è spaziale nel suo essere-nel-mondo» [10]. È proprio perché l’Esserci è spaziale che lo spazio si manifesta «a priori». Ma qui «a priori» non significa «l’appartenenza originaria dello spazio a un soggetto che, dapprima senza mondo, proietterebbe poi fuori di sé lo spazio. Qui apriorità significa preliminarità dell’incontro dello spazio (come prossimità) in ogni incontro intramondano dell’utilizzabile» [11]. La frecciata è diretta non tanto contro Kant – tanto più che Heidegger privilegia la prima edizione della Critica, nella quale lo spazio è ancora autonomo e condiziona le categorie – quanto contro il neocriticismo della Scuola di Marburgo.
Lo spazio, dunque, può essere compreso solo in riferimento al mondo circostante. Vivendo nel mondo circostante, l’Esserci con-vive con altri Esserci. L’Esserci si rivela, propriamente, un con-Esserci (Mit-Sein, o meglio, Mit-Dasein). Il tratto fondamentale del con-Esserci è la «cura». La cura può essere inautentica (sollevare gli altri dalla cura) o autentica (aiutare gli altri a diventare liberi per la cura). Uno sviluppo della cura inautentica è il Si (das Man). Sorge il regno del «si dice», il regno della chiacchiera (opinione pubblica, idee ricevute, sondaggi di opinione, gossip ecc.). L’Esserci viene così «gettato» nel suo «ci», viene deietto. L’analisi della deiezione non è condotta da un punto di vista moralistico, ma strettamente ontologico, e non comporta alcuna valutazione negativa. Infatti è l’Esserci stesso a preparare a se stesso la costante tentazione della deiezione: l’essere nel mondo è in se stesso tentatore. Le conseguenze più caratteristiche sono la sicurezza e la disinvoltura del Si (del si dice). Questo stato di tranquillità dell’essere inautentico non conduce all’inerzia e all’ozio, ma all’attività più sfrenata. Lo stato di deiezione nel mondo non è uno stato di quiete, bensì di frenesia crescente, di «curiosità polivalente»: non a caso Heidegger definisce la deiezione un concetto ontologico di moto [12]. Come Bouvard e Pécuchet di Flaubert, l’Esserci prigioniero del mondo della cura vuole tutto conoscere, tutto sperimentare. Nasce anzi la convinzione che la conoscenza delle civiltà più lontane e la sintesi di queste con la nostra porti ad una completa chiarificazione dell’Esserci [13]. Heidegger aveva previsto con lucida chiaroveggenza la nascita del turismo di massa e dei viaggi organizzati, nei quali si fa il giro del mondo in una settimana senza capire nulla.
Lo stato di deiezione non è altro che uno stato di alienazione, cioè di allontanamento dal progetto di possibilità autentiche. L’alienazione è una fuga dell’Esserci da se stesso, che allontana costantemente la comprensione del progetto di possibilità autentiche, sospingendo sempre più l’Esserci nella tranquillizzante presunzione di possedere e di raggiungere tutto. E tuttavia, proprio perché imprigionato in questo gorgo, alla fine l’Esserci avverte nascere dentro di sé un senso di angoscia. L’angoscia è la percezione che il mondo, compresi gli altri Esserci, non ha più nulla di utilizzabile, non ha più nulla da offrire. In tal modo l’Esserci si ritrova libero, perché l’angoscia porta l’Esserci di fronte a se stesso e di fronte al suo esser libero per un progetto autentico. Questo isolamento dell’Esserci di fronte a se stesso, infatti, riprende l’Esserci dalla sua deiezione e gli rivela l’autenticità e l’inautenticità come le due possibilità alternative del suo essere (vedi
La prima possibilità è già stata sperimentata dall’Esserci trascinato nel gorgo della deiezione. La seconda possibilità, la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile, è quella della morte, ovvero la «possibilità della impossibilità dell’Esserci» [14]. E tuttavia la prima reazione dell’Esserci di fronte al manifestarsi di questa seconda possibilità è, ancora una volta, quella di reinserirla nel gorgo della quotidianità inautentica. Nasce così un «essere per la morte medio e quotidiano» all’interno del mondo del si dice, della chiacchiera. In questo mondo «si muore» allo stesso modo in cui «si commentano» gli ultimi avvenimenti seduti al caffè. «Si muore» significa che un si anonimo muore. Muore sempre qualcun altro, quindi è come se non morisse nessuno, perché «il Si è nessuno» [15].
In tal modo l’Esserci si pone nella condizione di perdersi nuovamente nel Si, e proprio rispetto al poter-essere che più di ogni altro costituisce il suo vero se stesso. Egli si trova ancora una volta in uno stato di alienazione e di estraniamento dal suo poter essere più proprio. L’Esserci si sente «tranquillo» anche di fronte alla morte, perché il Si si prende cura di una costante tranquillizzazione nei confronti della morte; e anche in caso di decesso, si preoccupa che il pubblico non sia turbato nella sua tranquillità e nel suo «prendersi cura incurante». Non raramente si vede nella morte degli Altri un disturbo sociale o addirittura una mancanza di tatto, nei confronti della quale la vita pubblica deve prendere le sue misure (Heidegger rinvia esplicitamente a La morte di Ivan Il’ič di Lev Tolstoj) [16].
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Come è possibile, invece, un autentico «essere per la morte»? Nel vero essere per la morte la possibilità della morte deve essere compresa come possibilità, attuata come possibilità e sopportata come possibilità. L’essere per la morte è l’anticipazione di un poter essere di quell’ente (l’Esserci) il cui modo di essere coincide con lo stesso anticiparsi. Nella scoperta anticipante di questo poter essere, l’Esserci si apre a se stesso nei confronti della sua possibilità estrema [17]. In tal modo la morte sottrae l’Esserci al Si e lo isola, ma lo rende altresì consapevole del poter essere degli Altri che con-sono insieme a lui. Da questa angoscia di fronte al nulla rappresentato dalla possibile impossibilità della propria esistenza nasce finalmente la chiamata della coscienza.
Nella chiamata della coscienza l’Esserci è ricondotto a se stesso: l’Esserci viene «ridestato» a se stesso e sottratto allo «spaesamento» [18] in cui era vissuto finora (una tematica analoga si riscontra nell’Inno della perla). Anche se la chiamata non è progettata dall’Esserci, tuttavia proviene dall’Esserci e non da un potere estraneo (Dio). Il risveglio che segue la chiamata genera nell’Esserci un senso di colpevolezza, dal quale si può liberare solo prendendo la decisione di rendersi libero per la morte (sia la propria che quella degli Altri che con-sono). Nasce così, parallelamente
L’interpretazione inautentica del tempo, che era alla base dell’esistenza inautentica dell’Esserci, quella esaminata precedentemente, considera il tempo come una successione di «ora» in cui solo l’ora presente è reale, mentre il passato e il futuro appaiono, rispettivamente, un «non più ora» e un «non ancora ora», vale a dire qualcosa che al di fuori dell’ora non ha realtà. Concepito come un costante avvicendarsi di «ora» il tempo appare alla concezione inautentica come «infinito». Ma è facile capire come questa temporalità inautentica non sia altro che un tentativo di rinviare sine die la possibilità della morte, ravvisando il fenomeno fondamentale del tempo in un «ora» ritagliato dai legami strutturali col passato e col futuro. Questo «ora» è particolarmente vantaggioso per l’Esserci, perché gli permette il disconoscimento della morte, che diventa qualcosa per cui «c’è sempre tempo». Questa stessa temporalità destrutturata, reificata e ridotta a cosa può essere usata, calcolata e misurata alla stregua di altri oggetti, ed è il presupposto della scienza e della tecnologia.
La temporalità autentica presuppone invece l’attribuzione di realtà al passato e al futuro (la nascita e la morte), che la temporalità inautentica si sforza di far apparire irreali. Passato, presente e futuro rappresentano in Heidegger le «estasi» (l’uscir fuori di sé) della temporalità, e, pur nel primato del futuro, dell’avvenire (Zu-kunft), costituiscono una totalità, un’unità strutturale nella quale si implicano reciprocamente. L’Esserci può avere un avvenire – la morte – solo in quanto è destinato ad essa fin dalla nascita, e viceversa: nascita e morte rappresentano infatti i «confini» dell’Esserci. D’altra parte, come abbiamo visto, l’anticipazione della morte, nella quale passato e futuro si implicano, avviene con una decisione nel presente. La temporalità autentica, quindi, non risulta da una addizione o da una successione delle estasi, ma dalla loro «cooriginarietà». L’Esserci che si decide per la morte viene per ciò stesso portato al cospetto della nudità del suo destino di essere finito: destino e temporalità autentica coincidono.
Ma anche destino e storicità autentica coincidono. Radicalizzando la filosofia della storia di Dilthey, esplicitamente richiamato in Essere e tempo, Heidegger va alla ricerca dei fondamenti ontologici della storicità. L’analisi della storicità dell’Esserci tende a mostrare che questo ente non è temporale perché sta nella storia, ma che, al contrario, esiste e può esistere storicamente perché è temporale nel fondamento del suo essere [20]. Il fondamento, il presupposto ontologico della storicità è la temporalità, cioè la finitudine, il destino e l'’essere per la morte dell'’Esserci. In questa prospettiva anche l’esistere inautentico deve essere storico, cioè deve far parte della storia dell’Esserci [21]. La storia dell’Esserci è infatti quel processo in cui l’Esserci si perde nel Si per poi tornare a se stesso [22].
Essere e tempo si chiude, significativamente, rilevando la differenza con la concezione hegeliana del tempo. In Hegel lo spirito cade nel tempo perché il tempo è nello spirito: è una sua alienazione, una manifestazione apparente e priva di realtà. In Heidegger lo spirito – l’Esserci – esiste e può esistere solo come temporalizzazione originaria della temporalità. In Hegel il tempo è nello Spirito come una sua malattia risanabile; in Heidegger lo spirito è nel tempo come una sua condizione primordiale e ineliminabile [23]. Conseguentemente, alienazione in Hegel è la caduta dello spirito nella temporalità, alienazione in Heidegger è la dimenticanza della temporalità da parte dello spirito.
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Un’appendice a Essere e tempo può essere considerata l’opera Kant e il problema della metafisica, del 1929. Opponendosi all’interpretazione della Scuola di Marburgo, e a Cassirer in particolare (col quale Heidegger ebbe il celebre incontro/scontro nel corso dei colloqui di Davos dello stesso anno), Heidegger individua nella sezione sullo schematismo dei concetti puri e nella loro radice (l’immaginazione trascendentale) le prove della presenza in Kant di una metafisica del finito e della temporalità dell’Esserci. Infatti gli schemi, che sono traduzioni dei concetti puri o categorie in immagini (
Kant, tuttavia, non sviluppò questa facoltà nel senso di una metafisica del finito, e anzi nella seconda edizione della Critica essa fu «respinta nell’ombra e misconosciuta a favore dell’intelletto» [24], col risultato di tornare al soggettivismo del cogito cartesiano. Contro questa direzione della Critica, sviluppata dalla Scuola di Marburgo, Heidegger si presenta come il continuatore di una tendenza originaria di Kant, purtroppo abortita. Essere e tempo, da questo punto di vista, sarebbe lo sviluppo coerente della prima edizione della Critica della ragion pura nel senso di una vera metafisica: la metafisica dell’Esserci.
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Nel 1933 Heidegger, la cui fama era ormai alle stelle, fu nominato Rettore dell’Università di Friburgo e parallelamente aderì al Partito nazionalsocialista. Tuttavia rivestì tale carica per poco tempo: l’anno successivo presentò le dimissioni, continuando senza clamore la sua attività accademica. Questa breve irruzione di Heidegger nel presente storico ha dato origine alla vexata quaestio dei rapporti fra Heidegger e il nazismo, e più esattamente dei rapporti fra il pensiero filosofico di Heidegger e il nazismo. Sinteticamente, si delineano tre interpretazioni della vicenda. Ai lati opposti si situano interpretazioni come quella di Farias (Heidegger e il nazismo, 1987), secondo la quale Heidegger fu sempre un convinto nazista, ed Essere e tempo è una specie di manifesto ideologico, anche se molto raffinato, del nazionalsocialismo. Un’altra interpretazione, rivolta esplicitamente contro il libro di Farias, è quella di Nolte (Martin Heidegger tra politica e storia, 1992), secondo il quale i rapporti fra Heidegger e il nazismo furono superficiali e dettati dalle circostanze, ed Essere e tempo non ha nulla a che fare con le vicende dell’epoca. Una terza via è quella di Karl Löwith (La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, del 1940, ma pubblicato postumo nel 1986), che fu allievo diretto di Heidegger, secondo il quale Heidegger diventò un convinto nazionalsocialista, e tale rimase per tutto il resto della vita, ma a costo di un tradimento delle intenzioni più profonde di Essere e tempo. In forza di questo tradimento l’Esser-ci, l’essere qui di ciascuno diventò l’essere qui in questo tempo: il tempo dell’esistenza tedesca sotto la guida di Hitler. Lo stesso Löwith, nei Saggi su Heidegger (1960), ha sempre operato una distinzione netta fra Essere e tempo e le opere successive.
Prescindendo da Essere e tempo i documenti sotto indagine del periodo del rettorato sono soprattutto due: il discorso commemorativo di Albert Leo Schlageter e la famosa prolusione sull’Autoaffermazione dell’Università tedesca. Studente dell’Università di Friburgo e combattente nella prima guerra mondiale, Albert Leo Schlageter venne fucilato nel 1923 dai francesi per attività terroristiche contro le truppe di occupazione francesi nella Ruhr. Heidegger, nel discorso commemorativo, vede nella morte di Schlageter la manifestazione più alta del destino dell’Esserci come essere per la morte (concetti centrali di Essere e tempo, come sappiamo). Per Farias questa è una delle prove della sintonia fra la tematica di Essere e tempo e il nazismo, perché il culto di Schlageter era «il momento focale dell’agitazione e della propaganda di tutta l’estrema destra tedesca, e in special modo degli studenti nazionalsocialisti» [25]. A onor del vero, come tutti sanno e come ricorda anche Nolte [26], Schlageter era a quel tempo anche l’eroe della sinistra, al punto che la «linea Schlageter» era stata concordata dal Partito comunista tedesco con
Il discorso rettorale è stato definito da Löwith un piccolo capolavoro, «alla fine del quale uno non sa bene se deve mettere mano ai Presocratici del Diels o marciare con le SA» [27]. Ironia a parte, non c’è dubbio che il discorso sia volutamente ambiguo, e lo stesso Heidegger ha sempre invocato l’alibi delle circostanze per giustificare tale ambiguità. In ogni caso, l’abbandono dell’incarico da parte di Heidegger dopo un solo anno è probabilmente una prova del fatto che egli non intendeva spingere troppo oltre la sua attività di fiancheggiatore del nazismo. Il caso di Heidegger è per molti aspetti simile a quello di Carl Schmitt. Sono entrambe filosofie che si muovono on the borderline: filosofie di confine, delle quali si possono dare letture antitetiche, e quindi fruibili tanto da destra quanto da sinistra.
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Dopo la fine della guerra iniziarono le epurazioni da parte degli Alleati, e Heidegger si vide messa sotto sequestro la casa e – ciò che più contava – la biblioteca. Davanti alla Commissione di epurazione Heidegger giustificò la sia pur breve commistione col nazismo dicendo, tra le altre cose, di aver assunto il rettorato con riluttanza e solo per evitare che finisse in mani peggiori (il fatto che tra gli allievi di Heidegger vi fossero molti ebrei rende credibile tale giustificazione). Tuttavia i nemici personali di Heidegger, fra i quali primeggiava Karl Jaspers, convinsero i francesi, sotto la cui giurisdizione rientrava Friburgo, della necessità di impedire a Heidegger ogni forma di insegnamento, col risultato che Heidegger diventò ufficialmente un «ex nazista».
In realtà fu proprio
La ricerca e la definizione di un «nuovo umanesimo» era uno dei temi dominanti della cultura del secondo dopoguerra, appena uscito dagli orrori degli stermini di massa e dei bombardamenti terroristici. Heidegger appare tuttavia fin dall’inizio della Lettera fortemente critico nei confronti di tentativi del genere. Ogni nuovo umanesimo rischierà inevitabilmente di somigliare a quello vecchio, se non se ne scopriranno preliminarmente i difetti. E il difetto fondamentale di ogni umanesimo, secondo Heidegger, sta nel suo principio, che è quello della soggettività, della priorità dell’Ente rispetto all’Essere, col risultato che l’Essere cade in oblio e diventa esso stesso un Ente. L’essere viene così pensato dall’Ente – dal soggetto trascendentale (nella lettera il termine Ente das Seiende sostituisce l’Esserci, il Da-sein) – alla stessa stregua in cui pensa tutti gli altri Enti, cioè come semplice apparire, ovvero – dal punto di vista critico – come ciò che viene raggiunto dall’indagine categoriale sotto il dominio della soggettività.
In polemica con Sartre e il suo circolo, Heidegger propone quindi non già un pensiero e un «impegno/engagement» storicamente concreto da parte dell’Ente e in favore dell’Ente, ma un pensiero e un «engagement» da parte dell’Essere e in favore dell’Essere. Pensiero dell’Essere che stavolta, come osserva Chiodi [28], va inteso nel senso soggettivo del genitivo: il pensiero diventa un affare dell’Essere, non già un compito della soggettività dell’Ente uomo. Nasce qui il tema della differenza ontologica fra Ente ed Essere, che sarà al centro di tutte le opere successive.
Qui la distanza fra
Analogamente la progettualità del Dasein in Essere e tempo diventa nella Lettera la progettualità dell’Essere stesso, che destina l’uomo all’ex-sistere del Dasein come alla sua essenza [30]. O ancora, quando in Essere e tempo si legge che tutte le questioni filosofiche rinviano all’esistenza, deve essere chiaro, ora, che l’esistenza di cui si parla non è la realtà dell’ego cogito cartesiano [31]. Insomma, nella Lettera l’essenziale non è più l’uomo in quanto tale, ma l’uomo in quanto abita in prossimità dell’Essere, in quanto è il vicino dell’Essere. In questo umanesimo paradossale, che Heidegger contrappone nettamente sia all’umanesimo tradizionale che all’umanesimo riformato di Sartre, basato sull’engagement, non è in gioco l’uomo, ma l’essenza storica dell’uomo in quanto proveniente dal seno della verità dell’Essere.
L’Ente (il vecchio Esserci di Essere e tempo) si rivela dunque come «agito» dall’Essere stesso. Si delinea qui un movimento che ricorda molto da vicino quello dello Spirito hegeliano. Infatti l’Essere di Heidegger, come lo Spirito di Hegel, in una sorta di gioco [32] si sottrae alla vista dell’Ente [33], rendendosi straniero all’uomo [34]. Nasce così uno stato di alienazione, che dà origine sul piano teorico alla metafisica del soggettivismo e al falso umanesimo, sul piano pratico allo spaesamento e alla perdita della patria. Poiché i ritmi di questo processo sono decisi dall’Essere stesso, la metafisica e il falso umanesimo sono in un certo senso giustificati nel loro apparire. Marx ha visto meglio di chiunque altro, secondo Heidegger, che l’alienazione dell’Essere è ciò che vi è di essenziale nella storia; ciò che invece non hanno capito né Husserl né Sartre [35].
Il difetto fondamentale dell’umanesimo male inteso è il soggettivismo, la cui punta culminante è raggiunta dalla volontà di potenza di Nietzsche, fondamento teorico del dominio planetario della scienza e della tecnica, che invadono tutto il mondo conosciuto stravolgendo e utilizzando ad esclusivo vantaggio del Si anonimo della collettività tutta la natura del mondo fisico. Da questa catastrofe globale l’Essere – che pur ritraendosi l’ha esso stesso provocata – va comunque «protetto». A partire dal 1955 (La questione dell’Essere, in onore di Ernst Jünger) Heidegger propone di scrivere Sein sormontato da una barratura a forma di croce, che lo protegge e nello stesso tempo lo divide nelle sue quattro regioni (cielo, terra, mortali, divini) che costituiscono la sua essenza.
Protetto ulteriormente da questa croce (che ricorda molto da vicino quella del Timeo platonico e altre cose note e arcinote della tradizione platonica), l’Essere ci farà sapere lui quando verrà il momento della sua ricomparsa. Per ora, il vero umanesimo non può che mettersi in ascolto e aspettare, tranquillamente seduto fra i campi della radura dell’essere. Tutte le opere successive alla Lettera svolgono più o meno questo tema, che avvicina Heidegger da un lato alla teologia negativa (l’Essere è senza nome), dall’altro al Buddismo.
[Versione ampliata tratta da: Albanese, Luciano, Il concetto di alienazione. Origini e sviluppi, Bulzoni, Roma 1984, pp. 270-276]
Bibliografia:
- Chiodi, Pietro, L'ultimo Heidegger, Taylor, Torino 1952.
- Farias, Victor, Heidegger e il nazismo, Boringhieri, Torino 1988.
- Heidegger, Martin, Essere e Tempo, Utet, Torino 1969.
- Heidegger, Martin, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 2006.
- Heidegger, Martin, L’Autoaffermazione dell’Università tedesca, Il Melangolo, Genova 1988.
- Heidegger, Martin, Segnavia, Adelphi, Milano 2008.
- Löwith, Karl, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Il Saggiatore, Milano 1995.
- Löwith, Karl, Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino 1997.
- Nolte, Ernst, Martin Heidegger tra politica e storia, Laterza, Roma-Bari 1994.
- Sanzi, Ennio (a cura di), I culti orientali nell'Impero romano. Un’antologia di fonti, Lionello Giordano, Cosenza 2003.
- Heidegger, Martin, Essere e Tempo, Utet, Torino 1969, p. 111.
- Ibidem, p. 59.
- Ibidem, p. 62.
- Ibidem, p. 73.
- Ibidem, p. 127.
- Ibidem, p. 176.
- Ibidem, p. 178.
- Ibidem, p. 325.
- Ibidem, p. 186.
- Ibidem, p. 186.
- Ibidem, p. 196.
- Ibidem, p. 284.
- Ibidem, p. 282.
- Ibidem, p. 378.
- Ibidem, p. 381.
- Ibidem, pp. 381-83.
- Ibidem, pp. 392-93.
- Ibidem, pp. 408-411.
- Cfr. «dulcia sunt ficata avium, sed cura gubernat», Mitreo di Santa Prisca, in Sanzi, Ennio (a cura di), I culti orientali nell'Impero romano, p. 439.
- Heidegger, Martin, Essere e Tempo, cit., pp. 541-42.
- Ibidem, p. 554.
- Ibidem, p. 550.
- Ibidem, pp. 616-17.
- Heidegger, Martin, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 140.
- Farias, Victor, Heidegger e il nazismo, Boringhieri, Torino 1988, p. 94.
- Nolte, Ernst, Martin Heidegger tra politica e storia, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 142.
- Löwith, Karl, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 57.
- Chiodi, Pietro, L'ultimo Heidegger, Taylor, Torino 1952, p. 68.
- Heidegger, Martin, Segnavia, Adelphi, Milano 2008, pp. 289 e sgg.
- Ibidem, p. 290.
- Ibidem, p. 295.
- Ibidem, p. 372.
- Cfr. Oracoli caldaici, fr. 3 des Places.
- Heidegger, Martin, Segnavia, Adelphi, Milano 2008, cit., p. 363.
- Ibidem, p. 202.
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