9 dicembre 2014

«Il senso equoreo», un racconto di Romana Petri

Romana Petri

 

Qui, nessuno obbliga nessuno a fare nulla. Solo che casa mia è piena di libri. È per via del lavoro che faccio. E le biblioteche vengono sistemate con un ordine preciso, anche se ognuno ha il suo. Voglio dire che puoi decidere in molti modi, in ogni caso se la Letteratura sta da una parte, la Saggistica starà da un'altra, e così per i libri d’Arte, quelli di Storia, di Musica. A quel punto devi decidere se catalogare tutto per ordine alfabetico e per Paese. Io lo faccio per Paese e gli scaffali della letteratura americana sono proprio a portata di mano di un bambino. Cominciano dal terzo a sinistra e proseguono giù, fino a terra. Calcolando che gli scaffali sono quattro per fila, la letteratura americana, a casa mia, occupa dodici scaffali.

Una volta, mia moglie ed io ce lo siamo detti:

Prima o poi dovremo rimetterci le mani.

Quando?, ho domandato io.

Quando i bambini cominceranno a crescere. Non vorrai mica lasciare qualsiasi cosa alla loro portata, vero?

I libri come le medicine?, ho chiesto io facendo dello spirito.

Piantala, Giuseppe, ha risposto lei. Hai capito benissimo quello che voglio dire. Sì, in un certo senso i libri proprio come le medicine. Almeno fino a una certa età.

E poi il discorso è finito lì, ce ne siamo dimenticati. Il nostro figlio maggiore è arrivato all’età di 11 anni e tutti i libri sono rimasti al posto loro. Non lo so nemmeno se è stata casualità. In fondo, sono un tipo rigoroso, non certo di quelli che accumulano. Ho avuto sempre la passione di far fuori i libri non necessari. Non necessari per me. È una questione di spazi. Le biblioteche non mi sono mai piaciute affollate. Con il mestiere che faccio, poi, se lasciassi ai libri che arrivano l’agio di fare i comodacci loro, di piazzarsi in casa mia ad libitum… Nisba, qui da me, i libri hanno lo sfratto facile. Si chiama "quel numero" (con mia moglie diciamo così) e arriva un omino, si carica i cartoni che abbiamo messo davanti alla porta di casa, e certi volumi se ne vanno, escono di scena, vanno a fare i libri a metà prezzo da qualche altra parte.

Mia moglie richiude la porta di casa, scuote la testa e dice:

Ne abbiamo fatti fuori altri ottanta.

Non li abbiamo fatti fuori, rispondo io. Li abbiamo solo esiliati.

Sarà…

I libri che rimangono non sono nemmeno quelli che mi porterò dietro fino alla fine. Tutti hanno la possibilità, prima o poi, di un mio ripensamento. Se alla mia biblioteca si aggiungono cinque libri nuovi, ce ne sono, giocoforza, altri cinque che devono uscire. Ho deciso un numero secco, e a quello ho deciso di attenermi. Per sempre. È una specie di scommessa, un giuochino mio. Poco importa.

Quel che importa è che l’altro giorno, all’età di undici anni, per la prima volta ho visto mio figlio ronzare intorno alla biblioteca. La tentazione di intromettermi in quella visita è stata forte, ma poi mi sono detto:

Giuseppe, non ti immischiare. Vediamo cosa fa.

E mi ha fatto un po’ impressione vederlo lì, come un vero omarino, le braccia dietro la schiena, il polso sinistro afferrato dalla mano destra, lievemente curvo, la testa inclinata verso la verticalità delle coste. Io me ne stavo a distanza, seduto su una poltrona a fingere di leggere il giornale. Ma sbirciavo, eh… se sbirciavo. E fremevo pure. Dentro di me lo esortavo o lo scoraggiavo, a seconda dei titoli. Passi lunghi e via andare, di fronte a certi tomi. Fuoco, fuochino, fuocherello di fronte a certi altri. Ma non dovevano essere affari miei, potevo solo partecipare d’emozione, sapere quello che avrei voluto io senza influire su ciò che poteva voler lui. Ammettendo che quel passare in rivista i libri miei, che un giorno sarebbero stati suoi e di suo fratello (che per ora ha solo quattro anni e dunque conta minga), avesse poi davvero portato a una scelta. Ché si sa, la stagione dei facili entusiasmi porta spesso anche all’improvviso accasciamento. Capace non ne sarebbe uscito fuori un bel nulla. Giusto una giratina. Però, mi dicevo, anche non dovesse toccar niente, solo il fatto che stia lì a guardare… E invece, all’improvviso, la mano sua s’allunga. Le mie stringono i braccioli della poltrona aiutandomi a trattenere il respiro. Possibile mai? Per il momento il libro è solo inclinato, ma basta poco, una tiratina d’indice nell’incavo della costa e…

Lo fa. Ora ce l’ha tra le mani. Lo apre, lo sfoglia, ci mette dentro la faccia, annusa. A me batte forte il cuore.

A undici anni, il primo libro che tira fuori dalla mia biblioteca è Moby Dick. E allora chiudo il giornale e lo guardo senza dire nulla. Lui se ne sta lì, dritto in piedi, a leggere, alla luce un po’ di sbieco di questo primo pomeriggio dei primi giorni d’autunno, la prima pagina di una leggendaria storia. Che faccio, mi commuovo? Più che altro mi sommuove la ruga verticale che subito gli si forma tra le giovani sopracciglia. "Tenerello", dico tra me. E un po’ anche mi spavento, ché sono il padre, mica uno qualsiasi. Oltre al benefizio penso pure al danno. Ci sarà il danno? Beh, c’è sempre. A mettere il naso in quelle cose lì… Si sa, il rischio c’è, l’imprigionamento bello che comunque imprigiona. Ne devo essere più orgoglioso o più allarmato?

Papà, mi chiede voltandosi verso di me perplesso. Cosa vuol dire il senso equoreo?

Col giornale chiuso sulle ginocchia, gli rispondo che vuol dire marino, del mare. E lui dice "Ah", come a sottolineare la lieve, giovanile, infantile, arroganza che sottende un menzognero: "Sì, certo, lo sapevo". E io non dico più nulla, continuo a guardarlo mentre legge con quella ruga che forse, sarà per effetto della luce, mi pare già un po’ più profonda. Allora chiudo gli occhi. So che devo decidere adesso. E decido ora, per sempre: sono più orgoglioso che allarmato. Ecco fatto. Il peso di quelle 777 pagine tra le sue mani fa di me un uomo nuovo. Sto pensando di ridarmi alla navigazione insieme a lui. Sto pensando che è assai meglio andare per mare che gettare per terra il cappello alla gente. Avremo così il nostro surrogato della pistola e della pallottola.

Lo guardo complice, ammirato, lo guardo senza che lui se ne accorga. Vorrei proteggerlo, ma anche mandarlo allo sbaraglio. E un po’ pure lo invidio. È naturale.

Sovente, quando dalla branda lo cacciavano spossanti sogni notturni…

Achab il pazzo…

Così, dunque, vediamo che di tutte le navi che separatamente percorrono il mare…

Ma che cosa è un gam?…

Supponendo che il grasso sia la pelle della balena…

Oh, Starbuck! è un vento dolce dolce…

Ce ne vorrà prima che il dramma sarà finito. E dovrà farmene di domande, lo capirà da sé che non c’è niente di male. E spero proprio che arrivi alla fine. Si sa come vanno queste cose del destino e dei facili entusiasmi, prendi in mano un libro così, a undici anni… Capace che se non lo finisci non lo riprendi in mano mai più.

Ah, che grandissima e bellissima preoccupazione. Continuo a sbirciarlo. Fa delle strane faccettine. Gli piace? Non gli piace? Respira, Giuseppe, respira, ha già voltato tre pagine. Perché non mi ha ancora chiesto chi è il povero poeta del Tennessee? Lascialo in pace e respira, Giuseppe. Anche tu, all’epoca, leggendolo un po’ ti spaventasti. È così che deve andare. Del resto, una nave che non vuole scendere all’inferno fino a che non abbia trascinato con sé, per farsene elmo, una parte vivente del cielo, ti fa ancora un po’ paura, no?

E se ci avessimo rimesso le mani?, mi chiedo all’improvviso. Se togliendo questo libro ne avesse trovato un altro? Già, ma quale altro? Bel torcibudella che mi sento adesso. A undici anni, ha praticamente in mano il meglio.

Un orgoglio equoreo m’assale.

Au Diable!

 

Romana Petri

 

 

 

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