12 aprile 2014

«Michel Foucault: Soggettività e letteratura», di Silvia Maria Pettorossi











Fin dai suoi esordi come ‘pensatore’, l’interesse mostrato da Foucault per la letteratura è tutt’altro che occasionale e privo di rapporti con la sua produzione successiva. Scrive a tale riguardo Judith Revel: «Nell’opera di Foucault svolgono un ruolo fondamentale alcuni testi che, almeno a prima vista, non hanno carattere filosofico: essi sembrano piuttosto prove di critica letteraria, o, in certi casi, saggi storiografici. Ebbene secondo lo stesso Foucault è proprio in questi testi “periferici” che il suo pensiero ha manifestato i successivi cambi di rotta: così, la lettura di Raymond Roussel, nel corso del 1957, decide della rottura con la fenomenologia; così, la riflessione su Bataille (nel 1963, in quel che resta uno dei più bei testi di Foucault, Préface à la transgression) annuncia in modo sorprendente proprio i temi che si imporranno nell’ultimissima fase della elaborazione (la “déprise de soi”, la pratica della liberazione e l’idea di un “passaggio al limite”)» [1].

Il rapporto che Foucault intrattiene con la letteratura risulta dunque tutt’altro che marginale per un’adeguata comprensione del suo pensiero e soprattutto per ciò che concerne la tematica della soggettività. Per Maurice Blanchot «si sa di sicuro che Foucault, seguendo in ciò una certa concezione della produzione letteraria, si sbarazzi puramente e semplicemente della nozione di soggetto: niente più opera, niente più autore, niente più unità creatrice. Ma non è tutto poi così semplice. Il soggetto non sparisce: è la sua unità troppo determinata che diventa discutibile, poiché ciò che suscita interesse e ricerca è in realtà la sua sparizione (vale a dire questa nuova maniera di essere che è il non esserci più) o ancora la sua dispersione che, ben lungi dall’annientarlo, non fa che offrirci una sua pluralità di posizioni e una sua discontinuità di funzioni» [2].

A partire da Le parole e le cose, il linguaggio, e quindi la letteratura, assumono in Foucault un ruolo e un’importanza particolari. Il linguaggio non è più – come nel pensiero classico – quel segno al quale la Logica di Port-Royal, basata sull’identificazione di parola, linguaggio e grammatica, e di quest’ultima con la logica, proponeva come modello immediato ed evidente il ritratto di un uomo o una carta geografica (restando dominante, in questo accostamento, la classica nozione di somiglianza). Esso ha ora «acquistato una natura vibratile che lo stacca dal segno visibile per accostarlo alla nota musicale», aiutato in questo dalla logica di Boole (che rappresenta le forme e le concatenazioni del pensiero all’infuori di ogni linguaggio) [3].

Svincolatosi da quelle che Heidegger nella conferenza «L’essenza della verità» [4], chiama le «fatali categorie della grammatica», il linguaggio viene riportato al grado zero, al suo stato grezzo: la parola. Diversamente dal XVIII secolo, ora si tratta di sciogliere la sintassi, di spezzare i modi vincolanti di parlare, di volgere le parole in direzione di tutto ciò che si dice per loro tramite e nonostante esse. Nietzsche, la cui intera opera è «un’esegesi di alcune parole greche», e secondo il quale non ci sbarazzeremo mai di Dio finché crediamo ancora alla grammatica, è ancora una volta un modello in questo senso [5].

Il distacco delle parole dal linguaggio è un effetto dell’affrancamento dalla rappresentazione, avvenuto quando le parole cessarono di intrecciarsi alle rappresentazioni e di quadrettare spontaneamente la conoscenza delle cose. La dispersione del linguaggio è legata, in modo fondamentale, all’evento archeologico che possiamo designare come «scomparsa del Discorso» [6]. Staccato dalla rappresentazione, il linguaggio esiste ormai solo in forma dispersa: per i filologi le parole sono come altrettanti oggetti costituiti e sigillati dalla storia. Le parole diventano un testo da fratturare, in modo che sia possibile veder emergere in piena luce l’altro senso che esse nascondono. «Tale dispersione impone al linguaggio, se non un privilegio, almeno un destino che appare singolare se confrontato con quello del lavoro e della vita» [7]: esso fa ventilare la possibilità di un riscatto dalla finitudine.

Infatti con l’emergere del linguaggio-parola l’uomo della tradizione razionalistica è destinato a perire, e il testimone privilegiato a cui Foucault si riferisce per esprimere tale stato di cose è la letteratura. Un certo tipo di letteratura, che egli vede imparentata con la dimensione del non-senso e proprio per questo «capace di erodere dalle fondamenta la moderna analitica della finitudine» [8].

Tale possibilità si lega strettamente alla comparsa di una forma di ‘letteratura’ che con Nietzsche, Mallarmé, Artaud e Bataille sembra poter invertire, grazie al predominio e alla ‘magia’ della parola, il cammino dell’allotropo empirico-trascendentale, riportandolo dal non essere all’essere. Ma allora, quale rapporto misterioso esiste fra linguaggio ed essere? «Bisognerà forse presagire la nascita, o quanto meno il primo chiarore all’orizzonte d’un giorno appena visibile, in cui un nuovo pensiero si recupererà nella sua interezza e acquisterà nuova luce nel fulgore dell’Essere? Non è forse questo che Nietzsche preparava, quando all’interno del suo linguaggio uccideva insieme l’uomo e Dio, e prometteva, con il ritorno dell’Identico, lo scintillio molteplice e rinnovato degli dèi?» [9].

Questa letteratura, nell’ottica di Foucault, appare una delle forme in cui egli prospetta, più o meno esplicitamente, la ricomparsa di un soggetto non assoggettato, di una linea di soggettivazione libera dall’oppressione del «si dice».

Quello che infatti sembra evidente dalla lettura di alcuni saggi raccolti negli Scritti letterari [10] è, da una parte, la contrapposizione tra soggetto, discorso e linguaggio della letteratura e della filosofia nate all’insegna del razionalismo occidentale, culminate nella dialettica hegeliana; e, dall’altra, quella tra soggetto, discorso e linguaggio della déraison. Si tratta dunque di mettere qualcun altro al posto del tradizionale soggetto parlante della filosofia, di cui Nietzsche ha messo bene in luce «l’identità evidente e ciarliera», e di decretare la fine non già della filosofia, ma del filosofo come forma sovrana e primaria del linguaggio filosofico; di mandare in frantumi, quindi, la sovranità del soggetto filosofante e del «discorso» che lo avvolge e di cui è il profeta [11].

L’interesse di Foucault per il linguaggio non tende a ristabilire l’unità del discorso, né la comunicazione di un senso qualsiasi, ma guarda alla pura esteriorità dispiegata del linguaggio, dove il linguaggio sfugge al modo d’essere del discorso, rivelandosi mero linguaggio grezzo, e quindi mera parola. Il linguaggio non è un prodotto del soggetto, ma viene ‘dal fuori’, è un prodotto impersonale, anonimo. Con l’emergere dell’anonimato del linguaggio l’uomo è dunque destinato a perire: «siamo condotti al punto indicato da Nietzsche e da Mallarmé allorché il primo aveva chiesto “Chi parla?” e l’altro aveva risposto “la Parola stessa”» [12].

Qui la soggettività registra un primo scacco. Mentre la filosofia moderna, da Cartesio a Hegel, è rivolta a confermare l’Io e a ricondurre il negativo all’interno della coscienza, la letteratura contemporanea rinvia ad un «pensiero del fuori» che porta il soggetto a disperdersi in un’esteriorità radicale e a sperimentare la propria «morte» come soggetto. Al contrario dell’«Io penso» cartesiano, che conduce alla certezza dell’esistenza del soggetto, l’«io parlo» cancella questa stessa certezza. La scrittura di Raymond Rousseul, ad esempio, è «una produzione letteraria che esplode da tutte le parti perché distrugge in anticipo ogni possibile unità che non può rientrare negli schemi rassicuranti del discorso analitico giacché la sua dispersione ne impedisce la cattura» [13].

Ciò viene esplicitato ancor meglio da Foucault quando in «Che cos’è un autore?» si sofferma su un concetto chiave per comprendere il suo rapporto con la letteratura: ovvero «la funzione autore». L’autore – ci fa notare Remo Bodei – «diventa una “funzione” credo proprio in senso matematico, in quanto generatrice di innumerevoli curve, in cui l’elemento di costanza si associa a quello di variazione, l’immediatezza della realtà a quella del fiorire delle possibilità, l’individualità dell’uomo nella funzione anonima e “universale” del linguaggio» [14]. L’autore è «il risultato di un’operazione complessa che costruisce un certo essere ragionevole che chiamiamo autore» [15]. In altri termini l’autore è il ‘segno indice’ di ciò che è cambiato nella ricezione dei testi (non solo letterari) e del loro statuto istituzionale dal punto di vista delle definizioni condivise. In sostanza, l’autore è colui sul quale vengono fatte ricadere tutte le responsabilità della pratica produttiva della scrittura, come se egli fosse l’unico punto di riferimento da tenere in considerazione [16].

Analizzando la funzione autore, Foucault ci dice che questa è il risultato di un’azione molto complessa, che non porta all’individuazione certa di una personalità ma piuttosto ci dirige – al modo di Nietzsche – verso una pluralità di ego che si disperde nei discorsi che non si raccolgono più nell’unita di un’opera. L’opera infatti è «un modo di parlare per non morire», di proteggere il soggetto dalla morte garantendogli l’immortalità. In quanto tale essa è intrinsecamente legata alla figura dell’autore e alla sua individualità. Ma, più che l’autore, a Foucault interessano i «fondatori di discorsività», in quanto creatori di possibilità e regole per la creazione di altri testi. In questo senso – chiarisce lo stesso Foucault – «essi sono molto diversi, per esempio, da un autore di romanzi che non è mai, in fondo, che l’autore del suo proprio testo. Freud non è semplicemente l’autore della Traumdeutung, o del Motto di spirito; Marx non è semplicemente l’autore del Manifesto o del Capitale: essi hanno stabilito una possibilità indefinita del discorso. […] Quando io parlo di Marx o di Freud come “instauratori di discorsività”, voglio dire che essi non hanno reso semplicemente possibile un certo numero di analogie, ma hanno reso possibile (in maniera altrettanto completa) un certo numero di differenze. Essi hanno aperto lo spazio per qualcosa d’altro che per se stessi, che pertanto appartiene a ciò che essi hanno fondato» [17].

Parallelamente, più che l’opera, a Foucault interessa la ‘fondazione di discorsività’, che dipende dal ‘fondatore di discorsività’, così come l’opera dipende dall’autore. Si chiede, infatti: «finché Sade non è stato un autore che cosa erano le sue carte? Solo dei rotoli di carta sui quali, all’infinito, durante le sue giornate in carcere, egli elaborava i suoi fantasmi» [18]. La parola ‘opera’ è altrettanto segnata quanto la parola ‘autore’.

Si tratta insomma «di togliere al soggetto il suo ruolo di fondamento originario, e di analizzarlo come una funzione variabile e complessa del discorso» [19]. Questo significa trovare un linguaggio che non è più patrimonio di un soggetto che lo gestisce a proprio piacere, arrivare all’«essere nudo del linguaggio», al linguaggio spogliato da ogni funzione rivelatrice di verità trascendenti, e da ogni utilizzazione strumentale nel commercio o nella comunicazione intersoggettiva.

Di questo linguaggio il razionalismo occidentale ha sempre avuto orrore, perché ha presentito il pericolo che l’esperienza nuda del linguaggio farebbe correre all’evidenza dell’io sono, cioè dell’io penso. La letteratura di autori quali Blanchot, Bataille, Klossowski, Rousseul, Artaud e Nietzsche, ai quali Foucault si richiama, non produce immagini, né racconta propriamente storie, ma mette in opera una forma di linguaggio che revoca ad ogni passo il suo stesso diritto di enunciare quel che dice.

È dunque una letteratura che pratica un passaggio al limite nel quale la trasgressione non riguarda più i contenuti del discorso, ma proprio l’atto del suo costituirsi come «opera» e «discorso».

Lungi dal presentarsi come un deposito di nuovi significati da interpretare o decifrare, questa letteratura si trattiene sempre al di qua della sua istituzionalizzazione, trasgredendo l’ordine del discorso «proprio a partire da quella dimensione di interiorità che ha permesso all’uomo moderno di tracciare in se stesso il discrimine fra la coscienza e l’inconscio, fra il lecito e il proibito, dunque proprio da quel paradossale surrogato della religiosità che è nella nostra epoca contemporanea l’esperienza della sessualità» [20]. Tema, quest’ultimo, che Foucault affronta nella «Prefazione alla trasgressione». Secondo il filosofo l’esperienza della sessualità nel nostro tempo non è stata liberata ma è stata piuttosto «“denaturalizzata”» e portata al limite della conoscenza e del linguaggio. La trasgressione diviene allora «la sola maniera di cogliere il sacro, non tanto il suo contenuto immediato, quanto la maniera di ricostruirlo nella sua forma vuota, nella sua assenza resa in questo modo lampante» [21]. L’esperienza della sessualità è dunque un’esperienza-limite [22] perché «conduce il linguaggio a dire non già “il segreto naturale dell’uomo” quanto invece che “l’uomo è senza Dio”, a portare fino alle estreme conseguenze questa assenza, indicandola e scongiurandola allo stesso tempo» [23].

Scrive più avanti Foucault: «La morte di Dio, togliendo alla nostra esistenza il limite dell’Illimitato, la riconduce ad un’esperienza dove niente può annunciare l’esteriorità dell’essere, a un’esperienza per conseguenza interiore e sovrana. Ma una tale esperienza, nella quale esplode la morte di Dio, scopre, come suo segreto e sua luce, la sua propria finitudine, il regno illimitato del Limite, il vuoto di questa rottura dove essa viene meno ed è manchevole. In questo senso l’esperienza interiore è interamente esperienza dell’impossibile (l’impossibile essendo ciò di cui si fa esperienza e ciò che la costituisce)» [24]. A nulla valgono le precauzioni che la società sotto forma di interdetto mette in atto contro queste esperienze impossibili (sessualità e morte), anzi è stato proprio il carattere ambiguo del divieto a risvegliare il desiderio della trasgressione.

Ma la trasgressione è qualcosa di molto più profondo, essa si pone deliberatamente come violazione della legge della ragionevolezza, del giusto mezzo e della morale, sfugge al calcolo dell’utile opponendosi ai valori produttivi e umanitari di una società edificata su presupposti razionali e positivi. È il trionfo della divina ebbrezza dionisiaca. «La trasgressione è un gesto che concerne il limite; è là, in questa sottigliezza della linea, che si manifesta il bagliore del suo passaggio [...]. Il limite e la trasgressione devono l’uno all’altra la densità del loro essere» [25], perché in un mondo che ha ormai fatto questa esperienza «[l]a morte di Dio non ci restituisce a un mondo limitato e positivo, ma a un mondo che si snoda nell’esperienza del limite, si fa e si disfà nell’eccesso che lo oltrepassa» [26].

L’esperienza della trasgressione risulta dunque molto importante all’interno del pensiero foucaultiano perché è per suo tramite che diviene possibile operare una violenta apertura sull’illimitato e sperimentare un pensiero avverso alla dialettica. La trasgressione infatti non si comporta al modo dell’opposizione dialettica, non contraddice nulla, non nega nulla («Non c’è niente di negativo nella trasgressione. […] Forse essa non è nient’altro che l’affermazione della separazione» [27]), è una di quelle esperienze che ci consente di allontanarci dal regime dialettico che ha da sempre governato il cammino della nostra tradizione occidentale. Come fa notare Claudia Dovolich, «il nostro autore tocca alcuni punti nevralgici del pensiero filosofico del nostro tempo, di quella parte rilevante di esso che dopo aver lavorato alla negazione di ogni forma di trascendenza ed aver ridotto tutto nell’immanenza, scopre che il vuoto e la mediocrità, così marcatamente resi evidenti, hanno una loro positività, se così si può ancora chiamare, solo nell’attimo fuggente della loro trasgressione, quella che si esaurisce “nell’istante in cui oltrepassa il limite”» [28].

Per concludere mettendo ancor meglio in luce l’estrema vicinanza di Foucault all’esperienza-limite batailliana e l’importanza per la sua formazione di autori quali Nietzsche e Blanchot, ci appaiono congeniali le parole con le quali Foucault, intervistato da Duccio Trombadori, risponde alla domanda di quest’ultimo che gli chiedeva se si sentisse legato al modello teorico della fenomenologia e ai suoi sviluppi: «L’esperienza del fenomenologo è, al fondo, un certo modo di organizzare lo sguardo riflessivo su qualsiasi aspetto del vissuto, sul quotidiano nella sua forma transitoria, per coglierne il significato. Nietzsche, Bataille, Blanchot, al contrario, cercano di giungere tramite l’esperienza a quel punto della vita che è il più vicino possibile all’impossibilità di vivere: al suo punto limite. Per coglierne il massimo d’intensità e al tempo stesso di impossibilità. Il lavoro fenomenologico, invece, consiste essenzialmente nel dispiegare tutto il campo delle possibilità legate all’esperienza quotidiana. […] Al contrario, l’esperienza secondo Nietzsche, Blanchot, Bataille, ha piuttosto il compito di “strappare” il soggetto a se stesso, facendo in modo che non sia più tale, o che sia completamente altro da sé, che giunga al suo annullamento, alla sua dissociazione. È questa impresa desoggettivizzante, l’idea di un’”esperienza-limite” che strappa il soggetto a se stesso, la lezione fondamentale che ho appreso da questi autori: e che mi hanno spinto a fare in modo che per quanto noiosi, eruditi fossero i miei libri, io li ho sempre concepiti come esperienze dirette a strapparmi a me stesso, ad impedirmi di essere sempre lo stesso» [29].



Note:
  1. J. Revel, Foucault, le parole e i poteri, Manifesto Libri, Roma, 1996, p. 11.
  2. M. Blanchot, Michel Foucault come io l’immagino, Costa & Nolan, Genova 1988, p. 20.
  3. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, BUR, Milano 2010, pp. 309 e 321.
  4. Cfr. Martin Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 156.
  5. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 322. Vedi anche F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Carocci, Roma 2012, p. 58.
  6. Idem, pp. 330-331.
  7. Idem, p. 328.
  8. S. Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 67.
  9. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., pp. 330-331.
  10. Volume edito in italiano da Feltrinelli che raccoglie interventi pubblicati sulle riviste francesi più importanti del periodo, quali Critique (la rivista di Bataille), Tel Quel, La Nouvelle Revue Française.
  11. Cfr. M. Foucault, «Prefazione alla trasgressione», in Id., Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 64-65.
  12. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 409.
  13. J. Revel, Foucault le parole e i poteri, cit., p. 50.
  14. R. Bodei, «Presentazione», in G. Panella e G. Spena, Il lascito Foucault, Clinamen, Firenze 2006, p. 10.
  15. M. Foucault, «Che cos’è un autore?», in Id., Scritti letterari, cit., p. 11.
  16. R. Bodei, cit., p.10.
  17. M. Foucault, «Che cos’è un autore?», cit., pp. 15-16.
  18. Idem, p.5.
  19. Idem, p. 20.
  20. S. Catucci, Introduzione a Foucault, cit., p. 67.
  21. M. Foucault, «Prefazione alla trasgressione», cit., p. 56.
  22. L’esperienza-limite costituisce l’asse interpretativo in base al quale James Miller interpreta la vicenda biografica di Foucault nel libro La passione di Michel Foucault, Longanesi, Milano 1999.
  23. C. Dovolich, Singolare e molteplice, Franco Angeli, Milano 1999, p. 52.
  24. M. Foucault, «Prefazione alla trasgressione», cit., p. 57.
  25. Idem, pp. 58-59.
  26. Idem, p. 58.
  27. Idem, p. 60.
  28. C. Dovolich, Singolare e molteplice, cit., p. 54.
  29. D. Trombadori, Colloqui con Foucault, Castelvecchi, Roma 2005, pp. 18-19.



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