In Celibi al limbo (Einaudi, Torino 1995), Franco Marcoaldi ci offre una poesia autoironica, talvolta amara, schivando con l’arguzia buffonesca ogni pretesa di lirismo serioso, di letteratura alta, di sperimentalismo estroso, come vorrebbe invece la più nota poesia del secondo Novecento. Ciò che mi ha colpito di questo autore è il gioco simpatico e imperfetto delle rime, come fiori o stelle che sboccino nella testa lungo il fiume della sensazione. Una sensazione che sa tenersi, o meglio perdersi e ritornare, in un contesto riconoscibile, in un’Italia fatta di amici, illusioni, canzonature, attese e delusioni.
La poesia, con Marcoaldi, sembra ritornare a questo contesto contemporaneo, di cui ci avevano già raccontato altri linguaggi, anzitutto quello cinematografico di Moretti e quello fumettistico di Pazienza. L’Italia di Marcoaldi non è un orto montaliano, in cui l’esistenza si consuma e la vita si brucia, e non è neppure quell’Italia posteriore segnalata da Pagliarani ne La Ragazza Carla, in cui depressione e immigrazione rappresentano il contesto sociale entro cui matura, nel dolore, il boom economico degli anni sessanta. Qui ciò che si consuma sono i momenti, ciò che brucia è il desiderio, in rapida consunzione. La vita non è disillusa, ma si illude e disillude, per illudersi ancora. Il mito non è né la Rivoluzione, né la Lotta Sociale, ma, come scrive Marcoaldi, «regina Fica»:
E gli operai che arrivano
dal Corso, a dorso di lambrette?
Che strillano, battendo sui tamburi?
Bandiere rosse e volti seri, scuri;
quegli operai di cosa vanno in cerca?
'Loro ce l’hanno col governo,
ce l’hanno con gli americani'.
I quali sono amici del mio babbo,
mentre il fratello grande dice
che non è vero niente: «Ma quali
santarelli, quelli; son caimani».
dal Corso, a dorso di lambrette?
Che strillano, battendo sui tamburi?
Bandiere rosse e volti seri, scuri;
quegli operai di cosa vanno in cerca?
'Loro ce l’hanno col governo,
ce l’hanno con gli americani'.
I quali sono amici del mio babbo,
mentre il fratello grande dice
che non è vero niente: «Ma quali
santarelli, quelli; son caimani».
Il mito è semmai quello di frequentazioni, amicizie e amori, nel segno dell’arte e della letteratura, di un intellettualismo riflessivo che ha ormai perso la connotazione d’azione propria delle sue origini francesi, quali erano espresse nell’Ottocento sul giornale Aurore. Ma v’è un cenno di ritorno al commento e al giudizio sulla realtà contemporanea che, se anche non la si dovesse condividere, risulta –se non pasolinianamente grintosa– ironicamente desolata e sconsolata, comunque critica.
[pubblicato in: Notizie in... Controluce, n. IX/1, gennaio 2000, pp. 14-15.]
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