Ogni civiltà, nella
propria fase decadente, negli anni senili della propria esistenza storica,
finisce per mutarsi in una qualche specie di ottuso apparato di distruzione, un
pervasivo ed estremo strumento di morte.
Giancarlo
Micheli
In una fluida
narrativa per evidenze, Romanzo per la mano sinistra di Giancarlo Micheli (Manni,
San Cesario di Lecce 2017) consolida
l’impressione di continuità antidiegetica propria del territorio umano,
confermandosi libro-luogo, in cui a decidere di efficace memorabilità è
l’annullamento delle credenziali assimilate per tradizione in forza di una
carica che muove da un appassionante impegno, teso a ricomporre le salienti
fasi di una storia sovente dimentica di se stessa, che l’autore tiene fuori da
qualsiasi possibile collasso euritmico e parziale. Nella flessione
severa degli eventi, la scrittura paratattica si affida a gesti dinamici, ai
vasti significati intrinseci, mediante i quali giunge come sfida alla
lacerazione avvertita quale esperienza capace di aggregare tanto l’intimità dei
personaggi che la loro concretezza, in una figuratività metafisico-astrattiva
che delinea la coesistenza di linguaggi in continuo bilico tra presenza decisa
e dissolvenza alla maniera dei sogni, nei quali avviene «l’appagamento dei
desideri» (S. Freud). Ed è con animo critico che l’autore in un certo qual modo
‘intervista’ la storia nelle sue puntualità intellettuali, senza mai
trascendere in una solarizzazione emozionale suggestiva, pur nell’aleggiante
senso di privazione che ivi alberga in un tempo totalmente dominato da una
precarietà tuttavia inadatta a sgominare la speranza, pur vitale nelle
resistenti difficoltà di ordine pratico. La
costruttiva narrazione s’investe così
di un carattere caparbiamente volto ad alterare l’orientamento per via di un «passato
che mormora nelle corrispondenze» (W. Benjamin, «I “passages” di Parigi», in Id.,
Proust e Baudelaire. Due figure della
modernità, Cortina, Milano 2014, p. 9). Stefan scrive nella lettera al figlio Bruno in Romanzo per la mano
sinistra:
Ho
deciso di narrarti, dapprincipio, della donna che, adesso mentre ti scrivo, ti
porta nel grembo. Spero ciò ti sia viatico affinché tu giunga, in un giorno che
tardi abbastanza perché non ti capiti di rimpiangere prematuramente il tempo che
pure perderai vivendo, a fare la felice esperienza in cui le tue parole
toccheranno l’anima di un altro, un tuo simile, grazie al cui libero ascolto
esse prendano il loro senso, proprio e particolare, tale da renderle fulgide di
tutta la luce che un’esistenza umana getta sul mondo, dal suo principio alla
sua fine attraverso le epoche e le generazioni.
(p. 37)
Dalla commistione dei casi – ritratti di
circostanze dall’apparenza talora fortuita, che tracciano la rotta (sovente
senza una consistente volontà personale) intrapresa dai componenti il medesimo
nucleo familiare (personaggi portanti sono Stefan Bauer, Adele Ascarelli, sua
moglie, e il figlio Bruno) – si penetra l’intimità di un’epopea che scansiona
le protuberanze territoriali per evolvere in una sorta di unicità simultanea,
che dilania le diversità dei luoghi nel loro valore astrattivo. Pur provenendo
da realtà diverse anche dal punto di vista sociale (Stefan è austriaco, Adele
ha le sue radici in una prestigiosa stirpe industriale napoletana), ciascuna
porzione minimale trasporta i segni delle tante storie che, sebbene stagliate
su orizzonti dall’improbabile legame, confluiscono in un intreccio di verità e
invenzione dagli effetti sapienziali, dove svolte interlocutorie dirigono una
prospettiva sottoposta a incessanti (ri)elaborazioni. È comprensibile che da
parte dell’autore sussista il rifiuto ad adeguarsi all’elaborazione di un
impianto ripetitivo, all’interno del quale strutturare la sua invenzione
narrativa, recepita nell’attraversamento lento e deciso di territori noti. Di
fatto, Giancarlo Micheli con strenua energia da essi estirpa le vicende dalla polvere,
perché diventino centri di diffusione di una meta-vicenda che, svoltando da una
situazione unifamiliare e adiabatica, valica luoghi, tempi e situazioni, in una
convergenza che s’arricchisce di particolari e che, infine, coinvolge
integralmente il lettore, il quale, quindi, dal suo punto mobile, si ritrova a
concepire se stesso nella posizione di osservatore indiretto di una
dettagliata corrispondenza sulla quale aleggia la condanna dell’essere
ebreo.
L’addensamento dei frammenti in un’irrisolvibile
maieutica comporta tanto la co-agenza di personalità realmente vissute che il
loro riferimento (spesso indiretto) ad ambienti e posizioni, se si vuole,
dissociati tra loro. Distolti dalla dimenticanza e «spronati a partecipare ad
un epocale rinnovamento dello spirito e delle fondamenta concrete
dell’esistenza» (p.
86), ciascuno compare senza fusione alcuna in un’identità a
encausto, epperò tendente a una conclusione retriva rispetto al principio di
evoluzione che, d’altro canto, dovrebbe assicurare l’immanenza dell’individuo («Ma
la memoria funziona con la sua logica. E se tutto è cambiato era per rivelarci
infine quanto ci assomigliamo», avverte
il poeta V. Vassilikos). Va a
stabilirsi così un rapporto reale in continuo accadimento dal carattere
eponimico, che si dilata e si restringe in misura delle situazioni in una
perturbabilità mnemonica comprensiva. Scrive
Stefan al figlio:
Se, come spero, ti sarà
stato possibile leggere queste mie memorie, adesso sarai venuto a conoscere qualcosa
riguardo a me e a tua madre; noi non saremo più figure vuote e vaghe, di cui si
suppone l’esistenza soltanto sulla base di freddi argomenti logici, per quella
naturale simpatia secondo la quale l’intelletto coglie le similitudini del
proprio essere con quello altrui; nei tuoi pensieri le nostre immagini saranno
ora rivestite di un poco di quella carne che crebbe nelle nostre passioni e nei
nostri sentimenti, per te non saremo più meri spettri, ai quali poni le domande
cui attendi responsi invano. Adesso, forse, comprenderai le nostre scelte e,
magari, proverai un qualche legittimo orgoglio ad averci avuti quali genitori.
(p. 87)
Nonostante l’incipit
traduca un solingo punto di concentrazione intenzionale, l’impianto ricercativo
generato da Micheli assume le fattezze di un fulcro mobile che si amplifica in
una parabola in rotazione nello spazio, conseguendo un’oggettività prospettica
altrimenti esauribile in un tempo che sbaraglia, perché è «un tempo che si
muove» (C. Levi) in una movenza metaforica che ritengo ricondurre alla
volizione (talora esistenziale) della dimenticabilità. Eppure, quel movimento
non riesce a divincolarsi dall’incessante pericolo di motivarsi ostacolo a se
stesso, se nel poi tutto ritorna nelle accusatorie vestigia, rapprendendosi nei
colori di una localizzazione che, pur diversificata e sommariamente scelta, si
disperde nell’accumulo di frantumi insignificanti nell’orbita della
macro-sceneggiatura esistenziale. Lungo una siffatta traiettoria, l’impegno di Giancarlo
Micheli trasla l’arendtiano «padroneggiamento del passato» in «forma di una incessante narrazione» (H. Arendt, Antologia. Pensiero,
azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, Feltrinelli, Milano 2011, p.
225).
[«]
Questo è il principale intento della superficialità: far apparire la sapienza,
invece che nello sviluppo del pensiero, piuttosto nell’osservazione immediata e
nell’immaginazione accidentale; far dissolvere, quindi, la ricca membratura
dell’etica in sé, che è lo Stato, l’architettonica della sua razionalità [»]. (p. 47)
Da qui il sentore di una storia che si rigenera
nelle composite scoperte. Nella possente natura antonimica, le scoperte
sconvolgono, sedimentano tracciati moltiplicabili, e mai collaterali, per
ritrovarsi in una conclusione predestinata a una nuova, esclusiva estensione
che pure vaga in un’eterna e prodromica provvisorietà, il cui segno
asfittico è nell’«aforisma
strindberghiano per cui l’inferno non sia altro se non il mondo in cui viviamo»
(p. 595). E di moltiplicazione si ravviva il romanzo, agitato dalla memoria di un
paesaggio che porta scolpiti i segni di una vicenda universale.
Nella
primavera del 1937 passai le vacanze nel salisburghese ed ebbi modo di fare
un’escursione fin lassù, nei pelaghi dell’aria in cui la roccia però affiorava
ancora del tutto nuda, intatta dall’opera umana, dove lo spettacolo del volo
delle aquile si offre in circostanze davvero maestose e impressionanti,
soprattutto nelle giornate limpide, quando una luce tersa e cristallina incide
quasi un’aura risplendente attorno alle ali e alle piume dei fieri animali; sui
loro contorni ritagliati nell’azzurro apre come una fulgida ferita, tanto che
si sia vinti da un orrore intimo e vertiginoso se l’empio occhio della bestia
brilla, per un istante, nel tremore del tuo; in un attimo incommensurabile si
contempla la sofferenza che dalla sua glaciale pupilla è rigettata su ciò che è
altro da sé, annientata, soppressa ben prima che un istinto indifferente e
predatorio l’abbia mai concepita; in un attimo incommensurabile si contempla la
sofferenza che dalla sua glaciale pupilla è rigettata su ciò che è altro da sé,
annientata, soppressa ben prima che un istinto indifferente e predatorio
l’abbia mai concepita. (p. 7)
Evidente che
il clima oscilli simultaneamente in un’alternanza di frenesia e sobrietà,
nell’assenza di anacoluti o espressioni iperboliche; in un flusso continuo che
trattiene – per poi convertire in rapida successione – il vitale bisogno di
sapere senza che all’infine corrisponda un’occlusione. In quanto
documentale e, pertanto, sfuggendo alla tendenziosità, l’opera calibra una
struttura investigativa che riempie spazi oscurati dalla sottrazione
sconveniente; riconquista identità («La verità non può essere consuetudinaria») e, anche quando l’identità appare grama e
improvvida, continua in un’intelaiatura di fatti dalle temperature
mutevoli, collocate in un giogo di estremizzazioni che non lascia tregua al
ristoro, né però converge in disperazione.
La verità non può essere
consuetudinaria. In natura, la totalità dell’esistenza è fondata sulla
metamorfosi, l’inesausto mutamento delle forme e delle sostanze. Discipline
quali la matematica, o perfino il diritto positivo, stanno a dimostrare come la
coscienza umana abbia nutrita in sé la salubre ambizione ad emanciparsi da
parvenze ed efferatezze, da ciò che ne vincola l’evoluzione ad un’indole la
quale ha nondimeno creduto di possedere meschina, vile ed accidiosa. (p. 488)
Diversamente da come ci si attenderebbe,
espandendosi all’indietro come memoria di memoria e, al contempo, nella
versatilità dei tanti presenti nella loro energia rivelatrice, le immagini
mobili consentono l’accesso alla rilevanza situazionale, tanto da misurare la
modalità di lettura in un equilibrio di ineluttabilità e circostanza palesate in
effetti prodromici che, in ogni caso, dissipano la velatura costrittiva,
divenendo storia narrata e auto-narrante, riconoscibile e riconducibile. Scrive
Stefan a Bruno:
La civiltà inizia soltanto quando qualcuno si
decida ad agire non solo per affermare le proprie ragioni ma anche quelle di un
altro; fino ad allora, esiste solamente la barbarie, che vuol perpetuare sé
stessa e distruggere tutto ciò che le è estraneo, la quale poi, allorché ci si
persuada – e purtroppo capita spesso nelle fasi della storia come pure nella
vita di ogni giorno – che le proprie credenze, per forza o virtù di un presunto
ordine superiore, debbano coincidere con quelle di tutti e di ciascuno,
degenera infine in una catastrofe ancora peggiore, che non conosce freni né
discernimento e volge i conati della propria violenza contro il mondo e contro
sé stessa. (p. 349)
Tanti e
svoltativi, dunque, i protagonisti dell’intera storia intervengono nelle
movenze in cui la riflessione del lettore s’immerge, ne ausculta le parole
dalla valenza di luogo interattivo. Il meccanismo così organato dà modo di accedere
a un continuo giro di vite, in cui confluiscono tanto i dati risaputi (e
convenzionalizzati) che quelli potenziali, adattati secondo una tecnica che,
infine, ripiana le alterazioni procurate non già da un torbido progetto di
avvilimento, quanto dall’egemonica attrattiva dell’economia di sintesi, della
quale responsabile sembra essere l’impoverimento di una collettività in
conseguenza di un progressivo indebolimento linguistico. In maniera pressoché fortuita, dalla tessitura emerge la deviazione
scientifico-tecnologica del sapere a sostegno di un avanzamento della
condizione di massa critica che, nel suo universo perturbato, fagocita ben
altri schemi, tesi a un costante tradimento. Un’entropia consapevole. Su questa
linea il romanzo pare avvalersi di una struttura filo-scientifica, giacché:
«Se un libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve
leggerlo?» (F. Kafka, «Lettera a Oskar Pollak, 27 gennaio 1904»).
Si accede così a un macro-mosaico di
tessere misurabili, sia nel rigore che nella vulnerabilità, sulle quali
intervenire per verificarne l’esistenza (e non il valore, derivante dalla
visualizzazione stessa dell’evento, stando al Principio di verificabilità di M. Schlinck) e riconoscerne la
plasticità strutturale attraverso il piano congegnato delle parole – vere e
proprie molteplicità problematizzanti
– in una forma austera, che si appella alla corrispondenza tra antico e moderno
all’interno di un frammento di ricordi dai contenuti precisi. E, di fatto, è
nel clima inclinato alla progressiva
meditazione che avviene la rinuncia all’epidemica potenza seducente dell’intonazione. Ed è esattamente dalle sonorità
soffuse e quasi solo accennate che l’articolazione narrativa, alla stregua di
una sinfonia shostakovichiana, apre agli accadimenti con un lessico autorevole,
autentico, maieutico, in grado di
scavare nelle segrete stanze che risorgono nelle trame esteriorizzate delle
intenzioni. In tutto ciò è l’insistenza di una neo-formativa educazione di
stampo cultural-linguistico, la cui forza è declinata a instillare decisività
allo scenario, in una cornice d’indipendenza che non ne altera la consistenza.
Esiste, dunque, un’interferenza continua procurata dai subissanti quesiti che,
nelle retrovie, Giancarlo Micheli pone al luogo dei fatti, là dove le
informazioni non siano aggiogate all’esausitività e all’esaurimento. Una
storia molteplice, come già scritto, e che, pur raccontata al passato, pare
emendare un’attualità complessificante e tutt’altro che congestionata; che
avvicina e distanzia a un tempo con movenze perfettamente equilibrate, alla
maniera in cui ci si accosta a una fotografia dimenticata e dalla quale i
soggetti traspaiono nelle loro identità vulnerabili, in un presente transitorio
eppure intrappolato in un’incomprensione capitale. Ed è all’insegna
dell’innocente inconsapevolezza la conferma alla definizione attribuita
dall’autore al protagonista principale – Stefan Bauer –, eroe sensibile alla prospettiva di una risoluzione finale dal
tratto edenico, benevolo (incosciente di quella antitetica Endlösung – la soluzione finale hitleriana) alla maniera di
Giuseppe in Egitto.
«Quando,
due estati fa, leggevo Joseph in Ägypten sul balconcino
dell’appartamento che avevamo in affitto a Padova, non avrei mai immaginato di
dover presto attingere le stesse mete delle perigliose peregrinazioni del
protagonista.» (p. 249)
Ma la letteratura è un inganno se pensata come
solutoria nel sogno-aspirazione, all’insegna (e in conseguenza) del quale
Stefan – giovane psichiatra coinvolto nelle sue letture e nella ricerca
(pericolosa in un periodo di persecuzione razziale) sulle potenzialità oscene
di una mente malata – resiste, in una particolarissima realtà evocativa, come
una panoplia collettanea di tante parti (psichiatra a Leopoli, impiegato a
Cinecittà, compagno con incarico alla sede del Partito Comunista a Milano,
incarcerato e pure accusato di tradimento). Nella sua panoplia, Stefan si avvia
verso la prospettiva della salvezza propria, della sua famiglia e di tutta una
collettività stordita e genuflessa da un’incomprensibile umiliazione.
Il
guerriero ideale è colui che ha tagliato il nodo gordiano di consimili dilemmi:
egli avverte ovunque, in sé stesso non meno che nell’universo circostante, il
conflitto, nelle cui alterne vicende agisce sapendosi conservare incolume ed
imperturbato. Quanti, invece, alla metà del ventesimo secolo avevano ricevute
dal prossimo loro le convalide sociali spettanti a chi ricoprisse le massime
responsabilità militari erano uomini capaci di offrire ottime credenziali in
merito al fatto che, alla bisogna, non si sarebbero astenuti dalle estreme
regressioni ferine né dalle ultime sofisticazioni della crudeltà, in ciò a
pieno giustificati in grazia di un manifesto amore del quieto vivere, senza che
mai disdegnassero, ad onore di suppletiva garanzia, la pratica delle
tradizionali virtù borghesi, […] Stefan Bauer, è ovvio ed assodato, non
apparteneva né all’una né all’altra di codeste esclusive categorie. (p. 488)
Di fatto, nelle sue tribolazioni Stefan incarna
l’eroe del sogno che trova nutrimento nei modelli percorribili della cultura,
che appaga la pura velleità di conciliare la sua esistenza (fortemente instabile in un
tempo assolutamente destabilizzato) con il tragitto svolto da Joseph in Ägypten di Thomas Mann
nell’illusione giovanile. Stefan è piccolo uomo adattato nelle tante vite
consapevoli e la realtà è grama e il
tempo non è quello auspicato dall’impegno intellettuale: sulla sciabola
dell’orizzonte torna fremente l’appartenenza ebraica a decretare il destino,
sicché le parole deviano verso i frantumi di un’umanità vitale, ma dissacrata
da più parti sebbene non ancora impedita a sperare. Scrive Stefan a Bruno:
[V]oglio ricordarti […]
ciò che Niccolò Machiavelli scrisse nel quindicesimo capitolo del suo Principe:
colui che lascia quello che si fa per quello che si doverebbe fare, impara più tosto la ruina che la
preservazione sua, perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parte
professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni. Il tempo
in cui io e tua madre abbiamo vissuto l’età matura era ben poco incline alle
virtù, le asprezze della lotta per la sopravvivenza ed i più vili istinti trasparivano
fin nelle banali vicissitudini quotidiane; perciò, fummo indotti a credere che
non ci sarebbe stato in alcun modo consentito di rifugiare nei sereni asili
delle occupazioni spirituali. (pp. 86-87).
In questo senso, le parole stravolgono e travolgono;
cadenzano le movenze degli scenari ricomponendone schemi di complessità
radicali; favoriscono la ricomposizione netta del quadro storico attraverso
corrispondenze intimizzate di personalità riconoscibili e provenienti da
ambienti assai diversi. La loro presenza assume un valore particolare nella
continua biforcazione: l’una rigettata nello stolto non-vedere; l’altra
disposta all’affaticante conquista di un’identità all’interno di uno schema
degenerativo che non solo investe la comunità sottomessa al totalitarismo,
inteso quale potere politico deviato, e alla plutocrazia che pure deriva da
intenzioni progressiste e che si affligge nelle fagocitanti incrinature di una
tecnocrazia invalidante. In tutte le sue forme, il totalitarismo è figura
pleocroica e suasiva. Nessun tempo e nessun luogo ne sono immuni: «sia pur appena larvate
speculazioni sul tema del sosia o del doppio qual era premeditato dall’ormai
classica dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno o desunto in recenti e
neglette teorie riguardo alla riproducibilità tecnica di ogni oggettiva
estrinsecazione dalla quale si possano ricavare testimonianze di umanità nel
flusso fenomenologico delle esistenze» (p. 90). In una spazialità
comprensiva dell’al di qua e dell’al di là dell’oceano, le situazioni esternano
parvenze di carattere sociologico e, in un linguaggio idosemantico, incidono su
un devastato auspicio di miglioramento. Così pare sia scritto, se anche
il Maestro Freud «in calce al trattato Das Unbehagen in der Kultur, ritenne di esprimere la sua geniale
intuizione per cui le varie civiltà finiscano per manifestare i sintomi di
nevrosi collettive proprio a causa dei loro stessi sforzi di incivilimento» (p. 115). Ad ogni modo, tali parvenze possono essere almeno smascherate
nell’interpretazione maieutica di una condizione di eterno e diffuso amore che
via via s’ingigantisce in inopinata ierofania, consentendo agli spazi
costantemente rigenerati di rivelarsi nel diaframma documentaristico di modelli
di reciprocità in sospensione del mal-animo: a loro Micheli si affida per
valorizzare l’esistenza tattile di un’irrefrenabile, umana convergenza
metonimica, inspiegabilmente defraudata della sua interezza. Come afferma la princesse Marie Bonaparte:
[«] A mio modesto
avviso, è altrove, piuttosto che non negli istinti aggressivi ed omicidi, che
si può intravedere e riconoscere il volto di un’umanità infine evoluta, i cui
tratti un’indole quale la mia è portata a ricercare nelle miti fisionomie di
quanti si dedichino alla scienza, alle opere dello spirito, alle arti che, un
tempo, si chiamavano liberali, non certo nei sembianti truci e cupidi di morte
di generali, marescialli o fabbricanti di cannoni. No, caro signor mio, la
guerra è, solo e sempre, una sciagura; non esistono argomenti che la
giustifichino. [»] (pp. 106-107)
Innegabilmente,
Giancarlo Micheli recupera la preoccupazione riguardo la condizione umana che
pur cambia di orizzonte temporale, ma trascina se stessa nella somiglianza
reiterata di un’oscura speranza pur in seno a un ambiguo ambiente, in cui
urbanità non sempre coniughi un degno senso di avanzamento tecnologico, né
reciproco rispetto rappresenti una condizione universale di progresso. Epperò,
su questo fronte, dalla folla pressante di indifferenze
è possibile rinvenire figure che ben rappresentano la convergenza umana (che in
precedenza ho definito nel suo aspetto metonimico) ed è per loro che da parte
dell’autore sembra propalarsi l’impegno a forgiare uno stile marcato da
sinusoidi lievi, che gravitano provvide lungo l’arco imponente del romanzo. In
particolare mi sovvengono la princesse Marie-Félix Blanc in Bonaparte e la
contessa Karolina Lanckorońska. Marie-Félix Blanc è allieva devota di Freud –
nel 1926 collabora alla fondazione della Société Psychanalytique de Paris, –
animatrice di interventi contro la scelleratezza dell’individuo nel
solipsistico vagheggiamento di totale potere quale impedimento, piuttosto che
di potenziamento sociale. Di pari grandezza è la contessa Karolina
Lanckorońska, che il lettore incontra dapprima nel suo rigore autorevole di
apprezzata storica dell’arte e, senza reticenza alcuna, ostile al regime
nazista, e poi artatamente ossequiata
prigioniera a Birkenau, dove svolge il ruolo di Stubenälteste nella baracca
dove sono confinati Adele e il piccolo Bruno, nel periodo in cui «Bruno era un bambino molto sorridente,
[…] purtuttavia capace di relativa obiettività» (p. 379), passando dalla fase
in cui, ancora infante, «Bruno capisce dove abbiano realmente abitato il padre
e la madre di suo papà: non in vetta ad un Olimpo, quale ha saputo inventarlo
sulla stregua delle parole della signora Orvieto, bensì in fondo alle rovine di
quello, nella terra rivoltata dalla ferocia che solo l’uomo sa usare contro i
propri simili» (p. 380). Karolina
accompagna Bruno fino all’età intrisa di consapevolezza, al suo presente. Bruno,
ormai adulto, si rivolge alla contessa Karolina:
[«] Forse di ancora maggiore sollievo sarà per
lei apprendere che quanto mi ha raccontato tempri il mio convincimento che nel
mondo attuale sia giusto e necessario combattere l’ordine dispotico che modula
l’immanente dissimulazione di sé secondo lo sviluppo cognitivo differenziale
delle proprie soggettività, osteggiare con ogni mezzo un sistema che sacrifica
la vivente opera dell’uomo a profitto delle tombe del capitale, subordina il
lavoratore alla macchina. [»] (p. 621)
Nella
prospettiva, Karolina rifulge per le certezze riguardo all’impegno dell’uomo.
Nuovamente, nessuna illusione: di fatto dall’altra parte della realtà vivente –
che non è capovolta, ma s’impregna di quelle che non già sono contraddizioni
declinabili, quanto risvolti dello stesso territorio umano – ci sono le schiere
multiformi dei rappresentanti dello stravolgimento polisintetico dell’humanitas. Nelle loro decisioni alberga
la cupa risposta. Tra costoro spiccano i responsabili del Progetto Euthanasie e
del Progetto T4, «dedicato a
risolvere il problema dei pazienti di maggiore età cui fossero state
diagnosticate malattie congenite o ereditarie invalidanti» (p. 416).
Data la coscienziosità metodologica delle
ricerche, dopo aver appurati con scrupolo i parametri fisici al contorno tali
da causare la morte per assideramento e misurate le temperature corporee
interne corrispondenti al decesso in un numero sufficiente di casi, dimodoché
fosse possibile stabilire, con margine d’errore statisticamente irrilevante, il
valore di soglia pari a ottantadue virgola cinque gradi Farenheit o ventotto
Celsius, soltanto allora si era passati a studiare funzionalità ed efficienza
dei vari sistemi di riscaldamento (p. 416).
Spingendosi,
in un avvertimento, nell’intrico segreto nel quale accoglie il lettore,
l’autore più volte a lui si rivolge con intimistica familiarità: «Il lettore
non vorrà avere la intemperante pretesa di precedere simili illustri
personaggi. Ceda loro spazio, dunque; […] si appaghi della propria personale
gentilezza, che è il primo passo verso la bontà, e di sapere di non sapere, che
è il primo passo verso la conoscenza» (p. 189). Non basta. Nell’approccio indagativo l’autore non dimentica i
facinorosi (penso all’ex sacerdote antisemita Giovanni Preziosi o a Pietro
Koch, capo dell’omonima spietata banda). E ancora: sorvolando l’oceano, ci si
trova nelle segrete stanze dei detentori della tecnica coniugata senza mezzi
termini con progresso. E così conosciamo da vicino gli scienziati del Progetto
Manhattan, tra i quali Robert Oppenheimer, intrapreso nell’«esaltante
sensazione di immedesimarsi […] al
divino Krishna, nell’atto di pronunciare la frase “io sono la morte, il
distruttore dei mondi, giunto a compiersi, che adesso agisce per rovesciare i
mondi”» (p. 580). Da loro giunge, ebefrenica, la sentenza secondo cui «sarà compito […] dei vari anonimi
mandanti che siedono nei consigli di amministrazione delle industrie belliche,
tenere i rapporti con le istituzioni civili e militari dell’Unione, consigliare
quale debba essere l’uso proficuo ed efficace dei risultati delle nostre
ricerche; l’unico scopo che noi siamo chiamati a prefiggerci inerisce, invece,
alla soluzione dei problemi tecnici» (p. 399).
[«] Nessuna speranza per
i sognatori, fuorché non abbiano la patologica tempra d’un Hitler. […]
L’illusione, intimamente coltivata in ciascuno, di autodeterminare la propria
esistenza individuale, si somma nella risultante di una necessità collettiva,
che sospinge tutti verso una stessa catastrofe […]. È il capitalismo, bello
mio! [»] (p. 383)
In
questo clima di azzardo, il protagonista, Stefan, indirettamente passa lo scettro di eroe a Bruno: entrambi involti in un’amara consapevolezza, ma non
tanto da protendersi al lettore, libero di operare proprie proiezioni
interpretative e intuitive nell’agio di una visione globale-generativa. In
presa diretta, scavalcando la crono-storia, Giancarlo Micheli sollecita a
penetrare i vari luoghi di Stefan per il tramite delle missive indirizzate al
figlio Bruno e che Bruno legge in una simultanea sceneggiatura di
corrispondenza tassonomica tra le parti, all’interno delle quali echeggia un
fondamentale proposito: pensare al romanzo non già come luogo di concludente
inizio e fine, ma come metatesi crescente e formativa, realizzata da più
individualità in un’inclinazione meta-storica tentacolare, dalla variegata e
sofferta ricercatività in grado di sostituire alla fissità un montaggio che
molto deve alla complessità cinematografica, per approdare, infine,
all’intendimento, gravido nel terzo millennio, a concepire una programmazione che si sviluppa
attraverso le tappe conseguite sotto l’egida trainante di un titolo colto dalla
popolare saggezza dei proverbi – Quanta verità in «Bisognerebbe esser
prima vecchi e poi giovani»! (p. 562) –.
Per certi aspetti, in questo modo la cronostoria si dissolve per lasciar
libero un territorio polisintetico, proiettato in una modulabilità reticolare
che districa le distanze in un linguaggio coerente e coeso e che, nel volgere
continuo a una geometria progettuale, avalla la spiegazione del «noto attraverso l’ignoto» (K. Popper)
in una ricombinazione di non-separabilità. In un passo del romanzo Anna Freud,
studiosa e figlia del più celebre Sigmund, si rivolge all’amica Marie Bonaparte:
«Io credo che, dinanzi al cumulo di macerie
sotto al quale la storia schiaccia la vita presente di tutte le epoche, l’unica
forza valida che debbano opporre le persone come noi, che hanno appreso a
glorificare l’opera dell’intelligenza e del cuore umano, ogni giorno con la
stessa tenacia e meraviglia di cui i bambini ci danno insegnamento, sia la
quotidiana perseveranza nel lavoro analitico, foss’anche il costrutto che ne
traggano di aver ampliato i limiti della conoscenza di una quantità tanto
esigua che né un’unghia né un capello, peraltro, potranno mai misurare.» (p.
514)
Giungiamo pertanto a dare una particolare
e ultronea definizione di romanzo-montaggio, che investe tanto la molteplicità
degli stili di conduzione scritturale – epistolare, naturalistica, cerebrale,
neo-realistica, positivista e immaginativa – che la molteplicità (e
moltiplicabilità proiettiva) dei linguaggi al di fuori di qualsiasi volume
monotetico che, nel puntare su un luogo soggettivo, renderebbe esclusiva una
prefigurazione totalmente generica e distrattiva. Nutrite e corpose, al
contrario, le tematiche si dipartono da un unico punto luce per proseguire
senza rallentamenti lungo determinanti deviazioni, implicando a un tempo i
presenti individuali attraverso le rotte della rappresentazione ambientale che
rifulge di stupore nella narrazione in flashback e che, in una maniera
particolare, disturba la linearità da
una posizione diafasica, perturbabile e che ben presto accarezza il lembo
minimale di comprensione: «il progresso della conoscenza non tollera rigidità»
(S. Freud). Questi cenni non sarebbero bastanti senza l’intervento diretto dei
protagonisti tutti dell’intera trama, estesa su pagine che trasudano di sciolta
compiutezza lessicale, strettamente legata alla scaturigine del concetto.
Queste pagine aprono a un appuntamento con una diversa immaginabilità
descrittiva e sollevano velature rispetto a quanto, nella rilettura occorsa nel
tempo, avviene, scompigliando e sottraendosi alla tirannia dei legami
subliminali dissolti. Comprendiamo che la coscienza possa esser conquista per
chi lo desideri, nonostante il progetto riservi non poche difficoltà. Ma in
esame è la capacità non già fine a se stessa del conoscere (E domani? – verrebbe da chiedersi,
prendendo in prestito il titolo di un’opera di B. Russell), quanto i procedimenti del conoscere e le pulsioni
scatenanti nel prima, nel durante e nel dopo. Certo verrebbe da pensare che il
punto di osservazione migliore sia nel porsi a distanza come esercizio
efficace, nel quale la rapidità di cambiare orizzonte corrisponda alla
diversità di contenuti esposti nel loro evolversi senza sforzo, soprattutto
perché distinti nella severità dell’impianto che a nessuna forma di emozione
lascia spazio. C’è troppo da sapere e la potenza astrattiva degli attributi
potrebbe rendere pericolante l’impianto oggettuale dell’intera struttura,
organata secondo una tassonomia fluida, dirompente, mai evasiva; carica di tale
tensione che – nella metafora di una composizione priva di interruzioni –
squarcia l’oscurità e spalanca a una memoria generativa priva di cesure e
censura. Lascia, dunque, Micheli al lettore conscio la probabile e autocostruttiva
conciliazione di tutte le porosità in una prospettiva a largo respiro, che
giammai indugia sul fragoroso virtuosismo, né su anacoluti diversivi.
Tutt’altro: l’autore sottopone la traiettoria a repentini e significativi
cambiamenti, riuscendo a scavalcare la consuetudine per il tramite di una
centralità continuamente spostata e tendente ad evolversi in una nemesi
incessante.
Quand’anche
al lettore non si rivelasse ancora per intera la cruenta oscenità mimetica del
potere, umano, sovrumano o troppo umano, a seconda della particolare indole di
ognuno, voglia sentirsi in debito di comprensione nei confronti dell’eroe del
romanzo, […]; considerato che nessuno intercede presso di lui affinché compia
un tale sforzo non indifferente, abbia la bontà di aggiungere, di propria
spontanea iniziativa, condiscendenza verso il personaggio che il suo autore ha
posto dinanzi ad un compito così difficile ed ingrato. (p. 534)
Da tutto quanto appare addirittura
palpabile l’integrazione degli avvenimenti per mezzo di una pluralità d’energia
che rafforza la geometria cinetica in un clima complessivamente apodittico. In
un siffatto reticolato dal carattere pienamente cinematico, la puntualità
lessicale e l’argomentazione ininterrotta intervengono ad affinare l’osmosi
fertile tra presunte sovrapposizioni e contrappunti coordinati nella variazione
ambientale, tale da sostenere la narrazione con una qualità tanto strutturante
che convergente, con un affastellamento di casi mai orbitanti rispetto alla
vicenda portante della famiglia Ascarelli-Bauer, sì che «tutto appare animato
da spontaneità e ispirazione reciproca» (H.
Richter, Dada. Art and Anti-Art (1965), Thames & Hudson, London 1997, p. 28). Si
distanzia Giancarlo Micheli dall’aura illusoria di grandi speranze e nemmeno si
arrende dinnanzi a una possibile (e solo procrastinata) resurrezione.
Nonostante tutto, come già ampiamente argomentato, il turbinio inventa
una struttura allotropica che mai evoca disagio e tormento. O, almeno, riesce
caparbiamente a traslare il disagio in azione possibilmente salvifica.
Se non possiedi la certezza di avere davanti a
te un complice, agisci nei suoi confronti come se egli debba infine comportarsi
verso di te come un persecutore: la congruità di tale massima, che egli
riteneva di aver verificata nelle coattivamente peccaminose condizioni generali
della guerra, parve destinata ad ulteriore suffragazione nel prosieguo del
colloquio. (p. 535)
Infine, nell’intricato
macro-evento che è il vivere, avviene l’eterna smentita della promessa:
l’illusione del mito futuribile spinge a credere a un domani riarso di
giustezza che, tuttavia, s’imbriglia nell’ombra anonima alla quale, nella notte
atra, ci si consegni senza preoccupazione alcuna. In tal senso, più che varato
sull’intra-incomprensione umana, il libro ravviva un’invocazione a quanto
incomprensibile sia la nebulosa che comprime le responsabilità tanto dell’uno
che della massa: una sorta di play within the play shakespeariano,
incaricato di un compito illustrativo efficace per estrarre schegge di
riflessione dalla macro-nebulosa sceverata della storia conosciuta. In fondo sarebbe questa
la risposta degli intellettuali, ma le parole sembrano non esser sufficienti a
perorare la causa dello svincolo dalla tautologica esperienza che visualizza gli effetti e ne mostra
compattamente gli scenari nascosti e/o ingannevoli, accanto a scenari
compiutamente asfissiati da una memoria disgiungente. Si tratta di una tipologia
di neorealismo analitico, dal quale l’autore qui e là si sottrae, poiché ne
rifiuta il carattere predominante di transitorietà con il quale s’intende
definire un tempo incerto, e questo rifulge e al contempo inquieta: il
transitorio si afferma nella stabilità di un territorio continuamente violato,
nel quale vien da chiedersi dove si sia nascosto l’individuo virtuoso. E quale,
infine, il contributo al progresso dell’individuo nell’investigazione
antropogenetica e filo-psicanalitica? Quale lo scopo della ricerca se tutto
appare falso e scadente, continuamente alterato? In questa fase di
sospesa attesa prolungata – perché le azioni di vitalità a essa volgono –, il
tempo appare accumulo di cocci nella schietta autenticità. Insomma, un
tentativo che propizia la presenza dell’autore all’interno del libro nel
duplice ruolo di tessitore inventivo
di trame portate alla luce senza manierismi e soggetto vivente nelle maglie epocali – testimone nel presente a
dispetto del tempo che vanamente, pare, passi. Strumentalmente, in questo modo
Giancarlo Micheli avvia un processo di rottura con la cosiddetta struttura
narrativa della crisi, collocandosi in postura anticonvenzionale nel corso di
un tempo d’impoverimento-irrigidimento delle conoscenze, per attingere alla costruzione
di un senso invece globale, percepito mediante una corposa serenità culturale, ovverosia una forma d’immaginazione che recluta
dalla verificabilità dei fatti il proprio archetipo e su esso imbastisce, a
rigor di logica, quanto non già si comporti come potenziale. Immaginari,
dunque, i dialoghi recuperano un’onestà che non è né antilusinghiera, né
forzatamente ossequiosa, né, tantomeno, vibrante di cadenze tratte da qualsiasi
paventata esagerazione. E tutto appare fuor che esagerata questa evoluzione
delle strutture narrative: più che solo
accompagnare, si auto-identifica in un kairòs
metonimico. Promuove se stessa, nelle sue sfaccettature, in una mescolanza
organata secondo una tetragonia che qualifica ad apparire consesso di storia e
di storia parlante.
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