È proprio la risposta, mammina
cara, che non cerchiamo piú;
residui individui come siamo
di un tempo vecchio e assieme
di uno nuovo che ancora non svela
la sua forma. Che non è piú né mito
né storia né progresso.
Franco Marcoaldi¹
Alla memoria di Allen Ginsberg e Gianni Martella
In un tempo in cui si va velocizzando la fruizione estetica (anche delle opere d'arte), ad alcuni anziani artisti e poeti, come nei bei tempi andati, vengono profferti onori nelle piú varie occasioni, dalla mostra rappresentativa di un percorso individuale e di un'epoca, alla presentazione di un libro, a cittadinanze e lauree honoris causa. Questi avvenimenti, apparentemente dedicati alla cultura, ben poco hanno a che fare con la reale fruizione delle opere dei festeggiati e, come barlumi di poca fonte, producono un impercettibile effetto sulla collettività, che può riconoscersi piuttosto in una perniciosissima omissione: i promotori e gli interpreti dell'evento celebrano un passato che è, sí, ancora in vita, ma con il fine non della rivalsa dell'intelligenza e della sensibilità dalle stradine e dai viottoli dell'oblio bensí della garanzia –autopromossa mediante il rito culturale dall'accademico, dal politico, dall'imprenditore, dall'operatore culturale d'occasione– di una spudorata, e talvolta davvero inconsapevole, impunità da parte di quegli italiani i quali all'arte e alla letteratura non sono del tutto restii. Questi italiani vengono di fatto ingannati, giacché la vera letteratura è entro le regole della collettività, e vi dimora bene, solo quando quest'ultima è serena. Non mi pare di riscontrare attualmente in Italia una tale serenità.
Inoltre, la classe politica che celebra autori fervidamente operanti decenni addietro si scagiona, con una strategica distanza pluridecennale, dal disinteresse dei suoi predecessori, quasi a dire: «Vedete? Noi siamo diversi, noi amiamo la cultura, la sosteniamo»; cosí come facevano nei decenni precedenti i politici che prestavano attenzione agli artisti e agli intellettuali anziani della propria epoca. Lasciamo ora stare il deus ex machina curricolare di qualche politico, il quale può anche vantare un'attività critica alle spalle, ma critica di servizio, vale a dire di pura annotazione e presentazione di e su questa o quell'opera, senza affondare il proprio giudizio nella contemporaneità territoriale globale (e intanto occidentale) e nelle sue possibilità, esigenze e conseguimenti estetici, anche a costo di scontrarsi con la collettività stessa: un siffatto esito è di scongiuro che non avvenga per un uomo politico, la cui carriera deve cercare piú i consensi della sovranità popolare che approfondimenti antropologici che potrebbero metterla in crisi.
L'avvenimento celebrativo che si ripete, allora, lontano dall'essere di beneficio a una cultura collettiva ampia e orizzontalmente affrancata, è rivolto quasi esclusivamente alla salvaguardia del potere politico ed economico di chi lo officia. Il pericolo intravisto e scongiurato dal politico consiste nella procellosa invadenza della cultura nell'amministrazione morale e materiale della collettività, nel suo interessarsi di questioni che dovrebbero essere esclusivamente di dominio del politico. Tale timore è del tutto comprensibile, dato che appare oggi antistorico qualunque tentativo di frenare l'invadenza delle altre categorie sociali in quella sfera. Gli esempi di invadenza apparentemente non culturali sono molteplici, a cominciare dalla nota e 'scandalosa' elezione di Ilona Staller, alias Cicciolina, alla Camera dei deputati: quello, che appariva un fatto vistoso, era in realtà solo l'apogeo di un fenomeno che brulicava sotto da molto tempo.²
Si pensi, intanto, che quando all'istanza politica si aggiunge una capacità rappresentativa estetica vera e propria, la quale chiama a una partecipazione collettiva che sente e non solo è retoricamente informata e formata, quando cioè si fa vivere con lo strumento della retorica l'orrore e il malessere di milioni di uomini di questo e di altri paesi e l'assurdità delle attuali soluzioni politiche (cosí come il benessere incantatorio di Heidi), quando, ancora, si fa appello all'intelligenza e alla sensibilità e non solo all'astuzia che contraddistingue la classe politica, allora il politico deve davvero temere piú di quanto non faccia scorgendo fra i seggi parlamentari un cantante, un presentatore televisivo, un giornalista, uno scrittore solitariamente abilitato.³
Del resto, la volontà di ghettizzazione della letteratura e dell'arte è già facilmente riscontrabile nell'esercizio dell'uomo politico nelle scuole. Fatto ancora piú grave è che qui si tratta di una politica culturale dell'Autorità. Il principio è lo stesso di qualunque attività politico e amministrativa che si rivolga alla cultura: disinteressare gli italiani alle vicende contemporanee.
I principi scolastici sostengono: l'importanza della biografia dell'autore (già grossomodo canonizzata per mezzo di una evirazione, con un'ascesa oltremondana dell'Alighieri che coincide con una sorta di asessuazione, che se pur vera nella sua Comedia dovrebbero esserne almeno narrati i presupposti); la spiegazione del significato dell'opera. Il giudizio critico dello studente non viene di regola stimolato, il dibattito fra studenti viene evitato (per ovvie ragioni di tempo), l'approccio diretto col testo da parte dello studente –quello cioè senza commento alcuno da parte del docente– viene risolutamente scongiurato e spesso, troppo spesso, si tacita lo studente che ha l'ardire di raccontare un'opera a suo modo. Inoltre, la letteratura contemporanea è del tutto ignorata, salvo per ciò che riguarda, poniamo, Pirandello o qualche lettura malamente canonizzata di Eliot e sconsiderata di Beckett, e salvo qualche sforzo sisifeo di docenti donchisciotteschi: come se questi grandi autori del passato fossero davvero i contemporanei di docenti e studenti.
L'idea stessa di contemporaneità culturale, una volta adottata dallo Stato e improntata a istanze e dettami politici, diviene di fatto una menzogna vera e propria, sostenuta dall'innocente lessico dello studioso, il quale abbisogna per la propria attività di strumenti di interpretazione dei tempi e delle sue differenziazioni, ma i cui contenuti sono calati in una profondità interpretativa che l'ufficialità di Stato non rappresenta. Di fatto, nelle scuole, si utilizzano termini i cui significati sono complessi e li si ripropongono con un valore semplificato, immediato e oltraggiato. Il contemporaneo diventa allora un classico del Novecento che si avvale delle caratteristiche pericolosissime del 'postumo' su cui ha incentrato in questi anni la propria critica Giulio Ferroni,⁴ pericolosissime proprio se rapportate all'attuale scenario della letteratura, della cultura e della poesia italiane, già fin troppo gravate dal passato, al punto di aver tentato, nei decenni scorsi, di perseguire le vie piú ardite della sperimentazione, alla ricerca di quell'originalità diversa dai due baluardi sincronici e diacronici di originarietà e autenticità.⁵ Questa idea distoglie l'attenzione dalle vicende realmente contemporanee e spunta gli strali degli autori di recente passato, il cui accanimento contro la propria contemporaneità o non è piú scorta per l'uso che essi hanno fatto delle allegorie –a loro tempo comprensibilissime– o è relegata a una condizione della collettività anch'essa «postuma», perfettamente chiusa nella loro era, che fu loro e piú non ci riguarda (e tralasciamo per un attimo l'alibi, abusatissimo, dell'universalità dell'animo umano e di quella estetica).
Piú di un rettore si è accorto, in questi ultimi tre anni, che alla facoltà di Lettere gli studenti quasi mai sono chiamati a scrivere, e, in effetti, scrivono malissimo. Tale scoperta balugina come un'epifania durante la compilazione delle tesi, quando viene richiesto all'universitario un pensiero articolato e informato. Mi viene in mente che nelle università cilene non esiste, per ovvie ragioni di salute pubblica, la facoltà di Lettere.
Questa che appare una lunga premessa un po' fuori tema è in realtà il contesto entro cui è chiamato l'esercizio del mestiere del critico e quello dello scrittore in genere. Non omettendo un elemento che effettivamente non sento di tacere, ovvero che in Italia la moltitudine e quasi l'infinità di leggi da osservare e di disbrighi burocratici da assolvere è perfettamente congegnata per dare all'italiano medio un tempo limitatissimo per la lettura e la meditazione, e per allontanarlo da un'altra cultura: quella civica. In effetti sembrerebbe che tutte queste leggi siano l'espressione di una volontà di allontanamento dell'italiano dal tempo libero (nonché dalla consapevolezza dei propri diritti).
A far da spalla alla classe politica è la stampa. Dietro il blablabla del 'discorso' politico, che incentra su di sé tutto il graffitismo contemporaneo, non può e non deve farsi largo la voce degli scrittori contemporanei, i quali, venissero nelle mani di tutti, minerebbero i grandi teoremi degli uomini politici e svelerebbero, come già fanno alcuni ma a dosi omeopatiche, i controsensi, le ipocrisie e le mistificazioni di una società che è falsamente (e per di piú consapevolmente) raccontata dal politico e dal giornalista (salvo le rarissime mine vaganti dell'eccezione). Quindi le opere degli scrittori contemporanei possono finire semmai nelle mani di chiunque. Questa differenza fra tutti e chiunque –che pare risibile– garantisce il primato del graffitismo politico sul discorso estetico, filosofico, antropologico e sociologico.
La stampa, difatti, produce la cultura come la vuole la classe politica: spudoratamente finge di svolgere una funzione critica aggiornata a beneficio della collettività, assoldando, nel caso dei quotidiani e dei settimanali nazionali, grandi nomi, firme importanti, e 'coprendo' gli argomenti che contano. Naturalmente le firme piú autorevoli non hanno la minima intenzione di nuocere alla cultura, esse prestano la propria opera a beneficio della collettività come si offre loro tramite un mezzo inadeguato, quasi a dire: «Meglio questo spazio che il silenzio.» Tali intellettuali non dovranno certo essere biasimati per questa loro avventura lavorativa, giacché, in molti casi, essi non instaurano una complicità, ma partecipano di un uso reciproco di due entità (il quotidiano, il saggista) idealmente e strategicamente inconciliabili. Sarebbe però opportuno richiamare l'attenzione di costoro, essendone già da sé consci, alla riflessione sul loro rapporto con i media di massa.
Sfogliando con attenzione le pagine e gli inserti culturali de l'Unità, il manifesto, La Stampa, Il Corriere della Sera, la Repubblica, Il Sole 24 Ore, il Tempo, Il Messaggero si è indotti a credere che in Italia durante la settimana escano poche diecine di libri. E la miriade di altri autori, e le centinaia e centinaia di case editrici sparse per la penisola impegnate a pubblicare quotidianamente nuovi libri, spesso esilaranti, spesso preziosissimi? Non se ne sa nulla, e nulla se ne saprà, a meno che un libro non passi da un piccolo editore a un editore piú grande.
La stessa libertà di stampa, intesa come libertà di espressione, è in realtà una facoltà ridotta a pochissimi membri della collettività, già a partire dalla figura del 'direttore responsabile', com'è contemplata dalla legislazione italiana.⁶ In effetti, i quotidiani si occupano della propria libertà di stampa, e la cultura è trattata alla stregua di ciò che è facile riconoscere per mezzo degli inserti culturali che essi allegano: una omologazione culturale che attraversa a cuor leggero l'una e l'altra testata. L'intervento critico, non sostenuto da una estetica che parta da chiari principi universali, ovvero quale riconoscimento di una facoltà umana, quella del giudizio, si riduce alla presentazione di storie da leggere, riflessioni da condividere, solitari momenti da intraprendere (narrativa, saggistica, poesia) e ad alcuni giudizi che paiono non volersi porre in una dialettica con l'altrui percorso formativo e stato conoscitivo.
Le pubblicazioni di poesia su l'Unità 2 corroborano, ce ne fosse bisogno, questa tesi. Poesie di William Blake, Charles Baudelaire, Antonio Machado, Robert Graves, Scipione: autori perlopiú militanti decenni e secoli addietro in un'altra Europa e in un'altra Italia, che furono per alcuni di loro simili a queste ma che, intanto, non condividevano i grandi volti, nomi e avvenimenti del presente. Anche un brano come «Teologia» di Ted Hughes, un poeta non piú giovanissimo ma tutt'oggi operante, risale a un'edizione italiana di ben ventiquattro anni fa, e non si vede perché venga pubblicata fuori contesto, giacché, nella sua estrapolazione, poco se ne apprezza il senso e il disegno dell'autore e, inoltre, l'edizione di riferimento non è piú reperibile da diversi anni presso l'editore.⁷ Cosí l'occasione dell'uscita per Garzanti del volume L'ipotesi circense di Luciano Erba si fa pretesto per offrire al lettore due brevi componimenti contemporanei, «Tuttologo in TV» e «A scuola di sguardo», e un intervento critico di Cosimo Ortesta («Malinconica ricerca dell'altrove»), il quale si sofferma su questioni di «drammaticità» e resa estetica, senza confrontarsi con i contenuti dell'opera, senza instaurare quel colloquio con l'autore che renda la cultura individuale sensibile alle istanze altrui e motivo di accrescimento per quelle collettive; è il caso offerto da quei versi di Erba citati da Ortesta: «Tra le pareti umide e scrostate / di una stanza d'albergo che sapeva / di muffa e di marroni, ossia di castagne / ebbi voglia di un amore di passo / o di morire come un commesso viaggiatore».⁸ Forse quel desiderio della morte è troppo scontato, troppo insito nell'uomo per soffermarvisi, forse che il poeta è tutto in quella resa estetica che è la misura di troppa critica contemporanea, o quell'«amore di passo» troppo osceno per affrontarne la carne e il desiderio?
Posso solo sperare che un giorno si leggano su tali testate (se veramente hanno interesse a una cultura contemporanea rivolta al giudizio della collettività e non al suo 'apprendimento', al mero riscontro economico degli editori) riflessioni poetiche inedite e appena scritte.⁹ Occorrerà, certo, una revisione del personale delle attuali redazioni, ma lo sforzo non è erculeo.
Da un calcolo che ognuno può fare, tenendo in conto le attuali testate giornalistiche che escono ogni giorno in Italia, è facile rilevare che in questo Paese potrebbero venire pubblicate migliaia di poesie inedite l'anno, le quali verrebbero semmai raccolte in volume in un secondo momento. Cosí come fanno la loro comparsa sui quotidiani i meno nobili riquadri d'oroscopo e cruciverba.
Tale osservazione non è un suggerimento rivolto ai quotidiani italiani, ma la dimostrazione che ciò che essi concepiscono per poesia e cultura nulla ha a che vedere con la cultura contemporanea se non come facimento di una tradizione (l'invenzione di una tradizione) che, tramite la politica da essi esercitata, va a concretizzarsi per le generazioni a venire, con esiti nefasti fin troppo evidenti per la collettività e il rapporto che questa instaura con la propria cultura. Chi, fra i caporedattori italiani, fa riferimento a strane regole di 'giornalismo moderno' per giustificare l'assenza di poesia sui quotidiani è invitato a farsi mandare qualche copia di un quotidiano statunitense di vasta tiratura neppure dei piú arditi: il Los Angeles Times.
Del resto, in molti casi (in moltissimi casi), scrivere su un quotidiano significa esistere: è l'esistenza della propria individualità, della propria opera e dei propri interessi a essere posta in questione e in vista. È il punto di vista –oggi quantomai difficilmente privilegiabile– a essere oggetto di una crisi. Lo sguardo del critico è, in questi casi, uno sguardo miope e astigmatico, che parte dal proprio lavoro tematico e si dilunga, con una prospettiva sempre piú incerta, sul mondo contemporaneo. Anziché partire da fondamenti estetici piú universali possibili muovendosi attraverso una riflessione del proprio tempo, egli si muove attraverso le poetiche, si guarda attorno fra le balaustre dei movimenti precorsi e ne individua, magari, anche i conseguimenti futuri. Quest'ultimo punto, quello cioè rivolto al contemporaneo vero e proprio, presenta il rischio della miopia e astigmatismo delle poetiche e del contagio delle similitudini, malcurato per la troppa fretta del pronto contatto con gli avvenimenti culturali ed estetici, e troppo spesso a distanza dai rimedi esteri, dai grandi centri di ricerca internazionali, senza che questi debbano necessariamente essere identificati con degli istituti. È in questo spazio ricettivo della critica che prendono piú facilmente piede le mode, anche se si chiamano con altro nome, anche se appaiono grandi movimenti in nuce. Ed è qui, semmai, che il discorso di Ferroni sul «postumo» ha ragione di fare da contraltare. Non c'è da meravigliarsi, quindi, se un autore anziano continua a scrivere di autori che sono stati verdissimi quando egli intraprese la propria carriera ma che oggi, nonostante l'etichetta di contemporaneo, appaiono essere, in molti casi, annosi, nei migliori, dei classici novecenteschi.
Né ci si meravigli se l'attuale quadro culturale e quello della fruizione della poesia sono in fatiscenza sempre meglio ravvisabile, giacché la poesia come la intendono i quotidiani non è cultura ma intrattenimento e gioco, un gioco interpretativo e un intrattenimento sempre piú caratterizzato dalle estremizzazioni di charm e riddle, indicate –ma per diversa ragione– da Northrop Frye decenni addietro al lettore anglofono.¹⁰ Le opzioni della scrittura ermetica, cosí lucidamente raccontate da Giacomo Debenedetti, dovrebbero far pensare a quale fuorviante concezione della poesia abbia dominato il Novecento italiano, ma non la filologia nata in quell'aura. Come complemento di un solo quadro, mentre la prima si chiudeva nel riddle, la seconda andava rivelando la carnalità e quotidianità del Due e Trecento italiano, sia mediante lo strumento storiografico sia grazie alla rivalutazione dei manoscritti che ha portato alla fortunata edizione della Commedia dantesca di Petrocchi. Ancora, mentre la poesia montaliana si avvaleva di termini letterari quali pegola, grommato ecc., quegli stessi termini venivano indicati come d'uso quotidiano e colloquiale nel Due e Trecento, e si evidenziava, di contro, che la variante pece era il latinismo già coperto da pegola. In altre parole, mentre la poesia ermetica si rifugiava in una letterarietà e tradizione spiccatamente lontana dalla collettività contemporanea (ma piú prosodicamente poetica), la filologia continiana metteva in rilievo, senza esagerazioni, un piú stretto rapporto della poesia con la collettività del proprio tempo. Di fatto, in Italia l'ermetismo ha coinciso con un'epoca della storia della Repubblica in cui si è scongiurata una cultura collettiva unitaria che non coincidesse con una cultura imposta dall'alto –di fatto una cultura da serra– tanto che, nel momento in cui questa cultura artificiale e non liberamente rimeditata nell'individuo è stata messa in discussione da conseguimenti riflessivi e mutamenti politici, non si sa bene oggi quale etica debba percorrere il nostro Paese e come l'attuale anarchia e il particolarismo montanti possan coincidere con un'idea di unità nazionale e di condivisione dei destini collettivi. L'ermetismo ne è, insomma, solo un aspetto che ha investito e dettato legge sulla poesia italiana del Novecento per piú di cinquant'anni, ancor piú gravemente se si considera il suo portato internazionale rappresentato dalla figura magistrale di Montale.¹¹
Vi è oggi chi propone discorsi sulla tradizione: come se questi potessero essere risolutivi dell'attuale dibattito critico sulla poesia contemporanea. È indubbio che tali discorsi sono sostenuti da un'ampia letteratura critica novecentesca, ma va tenuto in conto che essi rientrano nella tradizione stessa di quel pensiero italiano che ha condotto all'elitarietà ghettizzante della sua poesia. La tradizione, come è oggi rappresentata, mai può dirsi universalmente unitaria e tantomeno universale nella sua linearità né, piú semplicemente, lineare, poiché la tradizione o è condivisa almeno da una cultura collettiva –e allora già trova difficoltà spaziali e temporali a farsi universale– oppure non è nei termini di alcuna cultura collettiva che possa aspirare all'universalità dei suoi contenuti e, quindi, non è, e nei casi migliori, che unitaria e lineare in modo circoscritto. Per ciò che ci riguarda, non v'è al momento in Italia alcuna cultura collettiva unitaria, alcuna intima condivisione e convinzione che non possa essere cancellata dalla memoria della collettività in brevissimo tempo. Ma questo è un altro discorso. Di fatto, l'istanza eliottiana sulla tradizione e sul 'correlativo oggettivo', in quella particolare quasi coincidenza dei due che si ritrova in The Waste Land (La terra desolata, 1922), spostava, settantasette anni fa, i termini della questione relativa all'individualità romantica.¹² La proposta di Eliot era di rimuovere le componenti autobiografiche dall'opera facendo posto a dei correlativi oggettivi di impronta tradizionale. Si vede bene il passaggio dagli elementi di certo autobiografismo romantico all'autobibliografismo eliottiano, proprio in considerazione di come The Waste Land è stato recepito dalla cultura europea e statunitense, già solo osservando, oltre alle recensioni dell'epoca, l'assurda e deludente ricerca delle fonti simboliche dell'opera in From Ritual to Romance di Jessie L. Weston e in The Golden Bough di James G. Frazer. Tali ricerche hanno coinciso, se non con una romantica gita ai laghi, senz'altro con un'inutile e stucchevole gita in biblioteca: questo è ciò che ancora avviene nelle accademie e in un ambito elitario che non sa o non vuole riconoscersi nell'attuale quadro sociale, in una massificazione che, perché è tale, non va definita semplicisticamente nei termini di cultura o non cultura, a meno che non la si riconosca in un modo o nell'altro nel suo manifestarsi.
Ciò non significa, è ovvio, che sia superfluo guardare alle grandi opere del passato. Ciò che stupisce è il cercare di fondare un discorso sulle problematiche della poesia contemporanea proprio da concetti quale quello di postumo, come pare voglia Ferroni, svilendo di fatto tutto ciò che c'è di buono nel suo recente volume einaudiano.
Scriveva Ferroni in «Presenza del silenzio»: «In questo orizzonte "postumo" si definisce naturalmente il senso della persistenza del "classico" e del rapporto con i "classici": al di là di tante chiacchiere recenti sul "classico" e sulla lettura dei "classici'; per la poesia è oggi piú che mai necessario guardare a quanto di essenziale ci hanno lasciato le grandi opere della tradizione.»¹³
Viene da sé che tale essenzialità è ancora all'interno di quel dibattito europeo che ha portato la poesia dai salotti alle accademie, mentre si scongiura una fase montante che vuole che la poesia torni nei salotti. Se si teme che la poesia, andando da qualche parte, vada anche nei salotti, v'è davvero il rischio che essa non vada piú da alcuna parte. So bene che non è questo il senso dell'affermazione di Ferroni, ma ne può oggi essere l'inauspicato effetto. E ancora, quando egli afferma: «Oggi non può esistere una lingua poetica che, in quanto tale, possa contenere in sé tutta la densità storica del presente: tra i linguaggi infiniti che percorrono l'universo, nel groviglio di parole, messaggi, immagini, segnali, rumori che in ogni momento si muovono in tutte le direzioni, si moltiplicano in riproduzioni infinite, si riflettono su se stessi e si intrecciano tra loro, la poesia può creare spazi linguistici interstiziali, piccole sacche di resistenza, esperienze che possono attingere sia ai livelli piú comuni e dimessi che a quelli piú sottilmente letterari, ma comunque sempre del tutto 'altrove' rispetto alle misture dei linguaggi di cui è fatta la comunicazione corrente», viene da osservare che «tutta le densità storica del presente» non risulta essere del tutto comprensibile con certezza da alcun contemporaneo; inoltre, i linguaggi contemporanei descritti da Ferroni sono talmente simili alla miriade dei linguaggi della natura del secolo XII che leggere il passo alla fine del secondo millennio si offre a una domanda fin troppo spontanea: se sia il caso di ritenere che nel secolo XII fosse concepibile un'opera storicamente densa del presente, nel momento in cui si trattava di interpretare, per speculum in ænigmate, un altro linguaggio ben piú complesso, articolato e incerto (il linguaggio della natura), al fine di individuare, nei limiti umani, le verità divine: quelle davvero essenziali. Eppure, per come ci è stato tramandato, quel periodo ha coinciso proprio con la nascita della nostra letteratura e la fioritura di opere che per la loro «impossibile assolutezza» sono ancor oggi di grandissimo interesse e suggestione: un punto di riferimento per molti degli autori contemporanei, e di insuperabile fortuna presso le nostre accademie.
Si potrebbe a lungo dibattere sulle grandi opere del passato e sulla loro contemporaneità, proprio riprendendo alcune delle suggestioni piú sapide della critica eliottiana. Ma ci si rifarebbe perlopiú a opera di concetto, non già estetica e, ancora una volta, si scanserebbe l'approccio diretto con le opere contemporanee. Cosí facendo, si rivolgerebbe l'uomo di oggi –l'autore, il lettore e il bambino– a sentimenti e luoghi che solo in piccolissima misura gli appartengono, privandolo di un'arte e una letteratura che, di là di qualunque letterarietà elitaria, rifletta e lo inviti a riflettere ed esprimere i sentimenti del proprio tempo e di quella collettività sempre piú estesa di cui è destinato a far parte, piuttosto che tenerlo lontano dalle vicende contemporanee. Un grave danno per la collettività che personalmente non mi sento nell'animo di sostenere, vieppiú perché sono fin troppi coloro che, con malizia, fanno di tutto perché esso si perpetui e prosperi.
A tale atteggiamento occorrerà opporre quello di una critica estesa ai mezzi e ai modi delle comunicazioni e un approccio poetico d'un bardico d'altro tempo introdotto nel contemporaneo: non vedo altrimenti come si possano conseguire soluzioni esaurienti che soddisfino il contatto della poesia e la sua ricezione nell'ampia collettività fluttuante fra i media.
[pubblicato in: AA.VV., Il mestiere della critica, Semar, Roma 1998, pp. 42-49.]
Note:
[pubblicato in: AA.VV., Il mestiere della critica, Semar, Roma 1998, pp. 42-49.]
Note:
- Franco Marcoaldi, Celibi al limbo, Einaudi, Torino 1996, p. 29.
- Cfr. Jean Baudrillard, La trasparenza del male, Sugarco, Milano 1991: in particolare i capitoli riguardanti la transessualità, la transeconomia, la transpolitica e la transestetica.
- Su politica e cultura vedi: Alberto Abruzzese, Analfabeti di tutto il mondo uniamoci, Costa & Nolan, Genova 1996.
- «Prima e al di là del riferimento a una verità trasmessa e "tradita" l'orizzonte "postumo" delle scritture e di quella che noi chiamiamo letteratura) si riconoscerà nel loro fissare qualcosa per "dopo", nel loro ricavare da esperienze presenti qualcosa che resta "dopo", nel loro persistere quando si è esaurita la vita che le ha generate. In questo senso si dovrà prestare attenzione alla natura materiale della scrittura stessa, ai limiti spaziali e temporali del vivere concreto, alla stessa accidentalità e precarietà dell'esistenza individuale e collettiva, vale a dire quella dei singoli autori e quella dei gruppi sociali, delle civiltà e delle culture. La condizione postuma delle scritture si costituisce prima di tutto nell'inevitabile rapporto di ogni esperienza con la morte e con la rovina e nella persistenza di qualcosa che, proprio nel suo essere al di là della morte e della rovina, resta da esse segnato (morte fisica, concreta, irrimediabile, non morte metafisica, non mera sottrazione di sostanza spirituale)», Giulio Ferroni, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Einaudi, Torino 1996, p. 5.
- Segnalava Auden: «Alcuni scrittori confondono l'autenticità, a cui dovrebbero sempre mirare, con l'originalità, per la quale non si dovrebbero mai scomodare. V'è un certo tipo di persone che è talmente dominato dal desiderio di essere amato solo per se stesso che deve costantemente mettere alla prova chi gli sta intorno con comportamenti noiosi; quello che dice e fa dev'essere ammirato, non perché sia intrinsecamente degno d'ammirazione, ma perché è la sua osservazione, il suo gesto. Questo non spiega parecchio molta arte avanguardistica?» «Writing», in Wystan Hugh Auden, The Dyer's Hand, Vintage, New York 1989, p. 19.
- Legge 8 febbraio 1948, n. 47, «Disposizioni sulla stampa». In particolare, l'articolo 3 definisce la figura del direttore responsabile, mentre l'articolo 5 punto 3, in relazione ai documenti da depositare alla cancelleria del tribunale, recita: «un documento da cui risulti l'iscrizione nell'albo dei giornalisti, nei casi in cui questa sia richiesta dalle leggi sull'ordinamento professionale». Cfr. Codice penale, Codice di procedura penale, con Leggi complementari, Giuffrè, Milano 1992, pp. 1589-1594.
- Ted Hughes, Il pensiero-volpe e altre poesie, Mondadori, Milano 1973, trad. di Camillo Pennati. Si tratta di una scelta di componimenti tratti dalle prime quattro raccolte di versi di Hughes che vanno dal 1957 al 1970, tutte edite nel Regno Unito dall'editore londinese Faber & Faber: The Hawk in the Rain (1957), Lupercal (1960), Wodwo (1967) e Crow (1970). Dall'inizio degli anni Novanta si attendono le nuove traduzioni di alcune raccolte piú recenti, le quali, per ignote ragioni, sono trattenute dalla Mondadori. Cfr. l'Unità 2, lunedí 11 novembre 1996, p.6.
- Cfr. l'Unità 2, lunedí 12 giugno 1995, pp. 6-7.
- Si veda, quale esempio in area anglosassone di un modo piú spiccato di presentare su un quotidiano una poesia che trae spunto da un fatto di cronaca, un bombardamento della Guerra del Golfo del 1991, il lungo componimento di Tony Harrison «A Cold Coming» apparso su The Guardian il 18 marzo del 1991. Cfr. anche Massimo Bacigalupo, (a cura di), «Un freddo venire», in Poesia, n. 99 a. IX, Crocetti, Milano 1996, pp. 2-13; Tony Harrison, «V.» e altre poesie, Einaudi, Torino 1996. Per la poesia contemporanea dedicata agli avvenimenti strettamente in atto, a titolo esemplificativo, vedi: «Distici bosniaci», in Giovanni Giudici, Quanto spera di campare Giovanni, Garzanti, Milano 1993, pp. 20-21, e «Stabat Mater», in Maria Grazia Lenisa, L'agguato immortale, Bastogi, Foggia 1995. La scelta di Giovanni Giudici si riallaccia, piú che ai distici pasoliniani e ancor piú che agli elegiaci carducciani, a quelli celeberrimi e fortunatissimi di Auden: cfr. New Year Letter, in Wystan Hugh Auden, Collected Poems, Vintage, New York 1991, pp. 197-243 (prima ed. inglese; Wystan Hugh Auden, New Year Letter, Faber & Faber, Londra 1940).
- «Charm (incantesimo) viene da carmen, canto, e le associazioni principali dell'incantesimo sono con la musica, il suono e il ritmo. La parola indigena per incantesimo è spell, che è in relazione, seppure indirettamente, all'altro significato di spell nel senso di leggere lettera per lettera o suono per suono. Riddle (enigma) viene dalla stessa radice di read (leggere): infatti read a riddle (interpretare un indovinello) una volta era praticamente un verbo con un oggetto affine, come raccontare un racconto o cantare una canzone. E come le connessioni dell'incantesimo sono piú vicine alla musica, cosí l'enigma ha affinità pittoriche, in relazione a cifre, acrostici, rebus, poesia concreta e calligrammi, e con tutto ciò che pone l'enfasi sull'aspetto visivo della letteratura», «Charms and Riddles», in Northrop Frye, Spiritus Mundi, Indiana University Press, Bloomington e Londra 1976, pp. 123.
- Si pensi solo che dal Secondo dopoguerra al 1975, anno del conferimento del Nobel a Montale, si annoverano almeno dodici edizioni in lingua inglese dedicate alla sua poesia, tra le quali, oltre a quelle del suo amico Ghanshyam Singh, si segnala l'edizione veneziana: Eugenio Montale, Poesie, Edizioni della lanterna, Bologna 1960, con traduzioni di Robert Lowell, uno studio di Alfredo Rizzardi e un acquarello di Giorgio Morandi. Per alcuni aspetti relativi alla poesia contemporanea e all'ultimo Montale, si veda l'intervento di Alfonso Berardinelli «I confini della poesia», in AA. Vv., La parola ritrovata, Marsilio, Venezia 1995, a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, pp. 211-216.
- Cfr. «Tradition and the Individual Talent» e «Hamlet and His Problems», in Thomas Stearns Eliot, The Sacred Wood, Methuen & Co., Londra 1920. Riguardo all'universalità dell'intervento critico e alla sua grandezza epocale –come venivano intesi da Eliot– è utile consultare anche i saggi «The Perfect Critic» e «Imperfect Critics», raccolti nel medesimo volume.
- «Presenza del silenzio», in Aa. Vv., La parola ritrovata, cit., pp. 168-171.
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