2 febbraio 2010

«'Il libro delle preghiere' (a cura) di Enzo Bianchi» di Nicola D'Ugo


Enzo Bianchi (a cura di),
Il libro delle preghiere,
Einaudi, Torino 1997.
XXII-315 pp. EUR 8.50
Che senso ha oggi pregare? Basta affermare, come fa Enzo Bianchi, curatore del volume, che la «preghiera è anzitutto un fenomeno umano» e «proprio per questo stupisce che ancora oggi il fatto di pregare susciti tanti sospetti», perché si possa essere interessati alla preghiera al punto da elevarla a statuto di «genere» letterario? Non è forse un «fatto» essenzialmente umano anche dire le parolacce, bestemmiare, calunniare, diffamare, vilipendere? E, ancora, non è essenzialmente umano inventare i grandi congegni distruttivi che hanno segnato la storia di questo secolo?

Il rapporto fra poesia e preghiera, avvertito da Enzo Bianchi nella breve introduzione, si muove dalla distinzione fra magia e preghiera, fra l'esercitare un potere per mezzo della parola e il riconoscere che la «preghiera invece … in tutte le sue forme esprime la non-disponibilità dell'esistenza, il suo non essere immediatamente fruibile da parte dell'uomo, afferma che la vita è al cospetto di un Altro». Ma un fine conoscitore dei testi biblici, il canadese Northrop Frye, indicava, proprio nella differenziazione fra poesia e magia, il carattere di tramite del poeta fra l'universo e gli altri uomini.

Ciò che viene a mancare nella gran parte di queste poesie-preghiera è l'apertura, lo spiraglio verso un altro che non sia l'Altro, verso il lettore, che trova una obsoleta retorica in un gran numero di questi componimenti, molti dei quali, trattandosi di opera di poesia, sono effettivamente mal tradotti. I luoghi più convincenti di questa sorta di antologia della preghiera monoteistica cristiana, ebraica e musulmana appaiono i testi sacri delle tre religioni fondate. Gli altri grandi luoghi di questa raccolta di duecento e due componimenti (dall'atavicità dei testi sacri ai giorni nostri) sono costituiti dai poeti più noti del vasto universo letterario, come Rainer Maria Rilke, il quale, si badi, si pone nel ruolo fryeiano dell'intermediario, di colui che non prega per sé, ma per altri.

Dispiace non trovare più estesa la forma della preghiera, la quale avrebbe potuto includere nella rassegna le delicate e accorate parole di «Preghiera» di Giorgio Caproni, strette in un pensiero da piccolo labirinto o rondò di speranza. S'avverte poi la mancanza della grande lirica eliotiana, da Il mercoledì delle ceneri a «Il viaggio dei Magi» a «La coltivazione degli alberi di Natale», alle sezioni più strettamente di «genere» dei Quattro quartetti, che rappresenta il luogo più alto della poesia novecentesca che si rivolga all'Altro e agli altri, insieme.

[pubblicato in: Avvenimenti, n. X/23, 18 giugno 1997, p. 68.]

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