2 febbraio 2010

«'Otello' di William Shakespeare» di Nicola D'Ugo


William Shakespeare,
Otello,
Feltrinelli, Milano 1996.
A cura di Agostino Lombardo.
Testo originale a fronte.
VIII-304 pp. EUR 8.50
Una domanda che ci si pone rispetto alla traduzione di un classico di cui abbondino le traduzioni novecentesche riguarda la necessità di una nuova traduzione. All’uomo di cultura, e parimenti al lettore, non interessano se non marginalmente le questioni editoriali, che vogliono che una casa editrice, in questo caso Feltrinelli, pubblichi l’intera opera di un grande autore del passato, in questo caso quella shakespeariana, tradotta da un insigne letterato, Agostino Lombardo. Lo fece nei decenni scorsi la Rizzoli con le traduzioni di Gabriele Baldini, optando per una soluzione, quella prosastica, che, in un certo qual modo, può lasciare interdetto il lettore anglofono, abituato alle rapide staffette fra il blank verse e la prosa del drammaturgo inglese, fra il parlare in versi dei nobili e le prosastiche puntate gergali e dialettali dell’informalità e del volgo.

Ciò che innanzitutto il poeta, lo storico e il critico letterario sempre e subito si chiedono si fonda sull’assunto che un’opera e un’opera di traduzione debbano aggiungere qualcosa in direzione di un progresso espressivo e un grado più elevato di significazione. Su questi due principi di sensibilità e intelligenza si giocano le grandi partite che rendono un’opera immortale, ed è proprio in questo agone di sopravvivenza che le traduzioni perlopiù invecchiano mentre le opere originali soprassiedono ai tempi. E se di questo se ne avverte solo da poco l’importanza in relazione al genere più diffuso, il romanzo, è perché è il genere ad essere recente e i doppioni di traduzione ancora molto ridotti.

Un’altra questione che interessa la traduzione di un classico è rivolta alla predilezione di alcuni elementi dell’opera a scapito di altri. È ciò che T. S. Eliot intendeva quando affermava che c’è uno Shakespeare di Wyndham Lewis, come c’è uno Shakespeare di Coleridge e uno di Johnson, che un autore viene rivisitato, nelle varie epoche, dai “critici imperfetti” in una sintesi che, nel caso migliore, sa rappresentare più appropriatamente di ogni altra il gusto, la sensibilità e il giudizio del proprio tempo.

La terza questione si rivolge alla forma dell’opera e alla sua fruizione primaria, e in questo caso va notato che, trattandosi di un dramma, la destinazione dell’Otello non è un libro ma un palcoscenico.

Tenuto conto di questi elementi, ci si avvede che la traduzione del prof. Lombardo punta su una immediatezza verbale, su una recitabilità e fruibilità altrettanto immediata dell’opera da parte dello spettatore, avendo a cuore i tempi di una battuta e il mezzo fisico di un teatro. I versi e i dialoghi in prosa vengono mantenuti fedelmente secondo l’originale, privilegiando per i primi, a fronte del blank verse originale, non il corrispettivo storico, l’endecasillabo sciolto, ma versi liberi (solitamente giambici) a base endecasillabica (allungata o ridotta), e una sapiente adozione dell’accapo di finezza luziana. Questo, appunto, per dare al lettore (e all’attore) quelle indicazioni di pausa che gli permettano di declamare il testo a seconda della situazione e delle emozioni che attraversano.

Ne risulta una traduzione filologicamente fondata che, di tanto in tanto, privilegia l’effetto espressivo, rinunciando al pedante rispetto di ogni dato lessicale. È l’esempio di come l’erudizione di un filologo di primo piano possa mettersi al servizio di ognuno.

[pubblicato in: Avvenimenti, n. IX/31, 21 agosto 1996.]

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