Francesco Contaldo, laureato in
filosofia, ha lavorato nel cinema, alla radio e alla televisione. È
sceneggiatore, saggista e autore di romanzi per ragazzi. Con Franco Fanelli si
è occupato a più riprese di tematiche inerenti all’industria cinematografica e
alle dinamiche generali dei mass media. Franco Fanelli, laureato in lettere,
conduce da lungo tempo ricerche nel campo delle scienze del linguaggio ed ha
avuto esperienze di regia documentaristica e di critica cinematografica. Insieme,
nel 1979, hanno pubblicato L’affare cinema. Multinazionali, produttori
e politici nella crisi del cinema italiano.
Doriano Fasoli:
Contaldo, Fanelli, com’è nata l’idea di questo libro, Hollywood & Colossal. Nascita, splendori e morte della grandeHollywood (pubblicato in questi giorni da Alpes)?
Contaldo
e Fanelli: Dalla precedente pubblicazione, ormai lontana nel tempo, di
L’affare cinema per conto della
Feltrinelli. Là esploravamo le ragioni di una crisi epocale del cinema
italiano, quella degli anni Settanta che portò la produzione annuale dei nostri
film da oltre duecento a qualche sparuta decina. I più la leggevano come crisi
di talento e di idee, invece scoprimmo ragioni più profonde e strutturali. Oggi
abbiamo deciso di mettere a frutto l’esperienza acquisita in ambito statistico
ed economico per entrare direttamente nella stanza dei bottoni dell’unica,
autentica industria cinematografica del mondo occidentale ed esplorarne
accuratamente il funzionamento.
Perché
date tanta importanza ai colossal?
Perché ci siamo accorti quasi
subito che il vero motore propulsivo del settore – in ogni suo comparto, dalla
realizzazione all’uscita in sala – sono sempre stati proprio i film considerati
da tutti come “eventi”, cioè picchi unici e irripetibili dello spettacolo sul
grande schermo. Abbiamo cioè scoperto – questa, almeno, è la nostra tesi di
fondo – che essi hanno storicamente esercitato una funzione entropica
indispensabile per lo sviluppo stesso del cinema americano, quantomeno di
quello hollywoodiano. Basti pensare a Via
col vento o a I dieci comandamenti
per i classici oppure, in tempi più recenti, a Superman, ad Apocalypse Now
o alla saga di Guerre stellari. Da
una parte, infatti, scompaginavano gli standard, cioè la normale produzione
filmica, tanto in termini di costi che di finanziamenti, di estensione delle
campagne promozionali e di trasversalità del profitto attraverso il
merchandising in tutte le aree contigue al cinema; dall’altra, garantivano il
movimento di ingenti capitali e, quindi, catturavano l’attenzione crescente dei
grandi gruppi di potere finanziario. Ciò che ha portato Hollywood alle vette
dello show business, ma anche – ed è questa l’altra tesi di fondo – alla morte
negli anni Novanta per svuotamento progressivo delle sue caratteristiche
specifiche, sacrificate sull’altare dei movimenti di Borsa e delle macrostrategie
del capitale finanziario.
Se ne producono ancora?
Certamente le dinamiche del
superfilm che abbiamo individuato per la grande Hollywood sono ancora in atto.
I Pirati dei Caraibi o Avatar, che qualche anno fa è costato da
solo oltre 400 milioni di dollari, ne sono un esempio. In realtà ogni anno ci
sono diversi film i cui costi di produzione raggiungono cifre da capogiro. Ma
il loro impatto maggiore non si registra tanto sulle strutture dell’industria
che ormai sono in gran parte virtualizzate negli strumenti e nei processi delle
nuove tecnologie, quanto sui profitti trasversali, cioè sui modi con cui
riescono a valorizzare sul mercato complessivo i prodotti a loro collegati. In
altre parole, dato che lo sfruttamento in sala è solo una parte, e da tempo non
più preponderante, dell’operazione filmica, ciò che resta decisivo è quanto il
film riesce a realizzare in termini di fatturato globale di tutte le merci
messe in movimento dalla sua uscita sul mercato.
Cioè
libri, dischi, fumetti, DVD e altro merchandising?
Esatto, oltre allo sfruttamento
in Tv e su web. Ma c’è un altro versante, forse ancora più importante dei
profitti nelle sale e trasversali: quello squisitamente finanziario proprio
delle enormi conglomerate a cui tutti i grandi marchi di produzione, dalla
Paramount alla 20th Century Fox o alla Warner Bros., ormai appartengono. E
attiene allo spostamento di capitali che il superfilm comporta e al suo impatto
sui movimenti di Borsa. Tuttavia, qui si entra in un intreccio di dinamiche a
dir poco nebuloso, che addirittura rende le cifre produttive di volta in volta
rese note dalle compagnie cinematografiche a dir poco aleatorie, perché
continuamente “aggiustate” ai fini di questa o quella strategia
economico-finanziaria. Non è un caso che più di dieci anni fa, nel 2007, il
tradizionale rapporto statistico della MPAA, l’equivalente della nostra ANICA,
smise per sempre di darne conto, denunciando a chiare lettere l’assoluta
incapacità di accertarne la fondatezza.
Mancava
uno studio come il vostro?
L’affare
cinema uscì nel 1979; a quell’epoca l’unico altro testo che si era
preso la briga di investigare il dietro
le quinte dell’assetto mercantile del cinema italiano risaliva al 1957.
Oggi in Italia, e in generale in Europa, si presta sicuramente più attenzione
alle cifre, anche perché da lungo tempo esse sono divenute parte integrante se
non centrale delle campagne che pubblicizzano i colossal. Ma sembra ancora una
considerazione estemporanea, priva di un interesse critico consolidato. In tal
senso, Hollywood & Colossal
riempie un vuoto storico. Da un canto offre una trattazione per la prima volta
sistematica della macchina industriale del cinema e dall’altro si spinge a
interpretazioni storiche inedite persino per il mercato editoriale
anglosassone. Da un punto di vista strettamente editoriale la lacuna che tenta
di colmare è un’autentica voragine. Anche osservando da vicino le bibliografie
nazionali italiana, francese, tedesca, spagnola e portoghese, i lavori che si
occupano in qualche modo di industria cinematografica statunitense si contano
sulle dita. La bibliografia inglese ovviamente si nutre delle numerose
pubblicazioni uscite negli USA e non fa testo.
Guardando
i testi di riferimento in coda al volume si nota una prevalenza assoluta di
pubblicazioni statunitensi. Ma quali sono stati i vostri effettivi punti di
riferimento?
Diversamente dall’Europa, negli
USA l’attenzione alle vicende dell’industria cinematografica è stata sempre
molto spiccata. Gli studi dedicati a questo settore sono tantissimi, ma gli
autori da cui inizialmente siamo stati ispirati sono certamente due: Thomas
Guback e la sua allieva Janet Wasko. Il taglio delle loro analisi è stato
probabilmente decisivo per gli indirizzi della nostra ricerca: ad esempio, per
mettere a fuoco il ruolo essenziale, e forse esiziale, delle banche nel
processo industriale del cinema propriamente hollywoodiano. Ci sono poi i lavori di Tino Balio che costituiscono un
riferimento fondamentale per l’analisi del percorso storico delle majors.
A
quale tipo di pubblico è destinato?
È certamente un libro per
tutti. Almeno, tutti coloro che amano il cinema e vogliono saperne di più sul
suo reale funzionamento. Per quanto la nostra analisi sia inevitabilmente
sorretta da un ricco patrimonio di nomi, leggi, cifre e statistiche, lo stile
che abbiamo cercato di adottare ha ben poco di accademico. Ci sono molti
riferimenti alle vicende anche personali dei protagonisti e, se consideriamo
che i pionieri della grande Hollywood erano in sostanza degli avventurieri tanto
concentrati a costruire la storia del cinema che ad aggirare le leggi antitrust
ed eludere quelle fiscali, anche il nostro racconto assume un che di
avventuroso, a metà strada tra i film rocamboleschi e quelli polizieschi.
(Gennaio
2018)
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