30 gennaio 2018

«Hollywood & Colossal. Intervista a Francesco Contaldo e Franco Fanelli» di Doriano Fasoli



Francesco Contaldo, laureato in filosofia, ha lavorato nel cinema, alla radio e alla televisione. È sceneggiatore, saggista e autore di romanzi per ragazzi. Con Franco Fanelli si è occupato a più riprese di tematiche inerenti all’industria cinematografica e alle dinamiche generali dei mass media. Franco Fanelli, laureato in lettere, conduce da lungo tempo ricerche nel campo delle scienze del linguaggio ed ha avuto esperienze di regia documentaristica e di critica cinematografica. Insieme, nel 1979, hanno pubblicato L’affare cinema. Multinazionali, produttori e politici nella crisi del cinema italiano.

Doriano Fasoli: Contaldo, Fanelli, com’è nata l’idea di questo libro, Hollywood & Colossal. Nascita, splendori e morte della grandeHollywood (pubblicato in questi giorni da Alpes)?

Contaldo e Fanelli: Dalla precedente pubblicazione, ormai lontana nel tempo, di L’affare cinema per conto della Feltrinelli. Là esploravamo le ragioni di una crisi epocale del cinema italiano, quella degli anni Settanta che portò la produzione annuale dei nostri film da oltre duecento a qualche sparuta decina. I più la leggevano come crisi di talento e di idee, invece scoprimmo ragioni più profonde e strutturali. Oggi abbiamo deciso di mettere a frutto l’esperienza acquisita in ambito statistico ed economico per entrare direttamente nella stanza dei bottoni dell’unica, autentica industria cinematografica del mondo occidentale ed esplorarne accuratamente il funzionamento.

Perché date tanta importanza ai colossal?

Perché ci siamo accorti quasi subito che il vero motore propulsivo del settore – in ogni suo comparto, dalla realizzazione all’uscita in sala – sono sempre stati proprio i film considerati da tutti come “eventi”, cioè picchi unici e irripetibili dello spettacolo sul grande schermo. Abbiamo cioè scoperto – questa, almeno, è la nostra tesi di fondo – che essi hanno storicamente esercitato una funzione entropica indispensabile per lo sviluppo stesso del cinema americano, quantomeno di quello hollywoodiano. Basti pensare a Via col vento o a I dieci comandamenti per i classici oppure, in tempi più recenti, a Superman, ad Apocalypse Now o alla saga di Guerre stellari. Da una parte, infatti, scompaginavano gli standard, cioè la normale produzione filmica, tanto in termini di costi che di finanziamenti, di estensione delle campagne promozionali e di trasversalità del profitto attraverso il merchandising in tutte le aree contigue al cinema; dall’altra, garantivano il movimento di ingenti capitali e, quindi, catturavano l’attenzione crescente dei grandi gruppi di potere finanziario. Ciò che ha portato Hollywood alle vette dello show business, ma anche – ed è questa l’altra tesi di fondo – alla morte negli anni Novanta per svuotamento progressivo delle sue caratteristiche specifiche, sacrificate sull’altare dei movimenti di Borsa e delle macrostrategie del capitale finanziario.

Se ne producono ancora?

Certamente le dinamiche del superfilm che abbiamo individuato per la grande Hollywood sono ancora in atto. I Pirati dei Caraibi o Avatar, che qualche anno fa è costato da solo oltre 400 milioni di dollari, ne sono un esempio. In realtà ogni anno ci sono diversi film i cui costi di produzione raggiungono cifre da capogiro. Ma il loro impatto maggiore non si registra tanto sulle strutture dell’industria che ormai sono in gran parte virtualizzate negli strumenti e nei processi delle nuove tecnologie, quanto sui profitti trasversali, cioè sui modi con cui riescono a valorizzare sul mercato complessivo i prodotti a loro collegati. In altre parole, dato che lo sfruttamento in sala è solo una parte, e da tempo non più preponderante, dell’operazione filmica, ciò che resta decisivo è quanto il film riesce a realizzare in termini di fatturato globale di tutte le merci messe in movimento dalla sua uscita sul mercato.

Cioè libri, dischi, fumetti, DVD e altro merchandising?

Esatto, oltre allo sfruttamento in Tv e su web. Ma c’è un altro versante, forse ancora più importante dei profitti nelle sale e trasversali: quello squisitamente finanziario proprio delle enormi conglomerate a cui tutti i grandi marchi di produzione, dalla Paramount alla 20th Century Fox o alla Warner Bros., ormai appartengono. E attiene allo spostamento di capitali che il superfilm comporta e al suo impatto sui movimenti di Borsa. Tuttavia, qui si entra in un intreccio di dinamiche a dir poco nebuloso, che addirittura rende le cifre produttive di volta in volta rese note dalle compagnie cinematografiche a dir poco aleatorie, perché continuamente “aggiustate” ai fini di questa o quella strategia economico-finanziaria. Non è un caso che più di dieci anni fa, nel 2007, il tradizionale rapporto statistico della MPAA, l’equivalente della nostra ANICA, smise per sempre di darne conto, denunciando a chiare lettere l’assoluta incapacità di accertarne la fondatezza.

Mancava uno studio come il vostro?

L’affare cinema uscì nel 1979; a quell’epoca l’unico altro testo che si era preso la briga di investigare il dietro le quinte dell’assetto mercantile del cinema italiano risaliva al 1957. Oggi in Italia, e in generale in Europa, si presta sicuramente più attenzione alle cifre, anche perché da lungo tempo esse sono divenute parte integrante se non centrale delle campagne che pubblicizzano i colossal. Ma sembra ancora una considerazione estemporanea, priva di un interesse critico consolidato. In tal senso, Hollywood & Colossal riempie un vuoto storico. Da un canto offre una trattazione per la prima volta sistematica della macchina industriale del cinema e dall’altro si spinge a interpretazioni storiche inedite persino per il mercato editoriale anglosassone. Da un punto di vista strettamente editoriale la lacuna che tenta di colmare è un’autentica voragine. Anche osservando da vicino le bibliografie nazionali italiana, francese, tedesca, spagnola e portoghese, i lavori che si occupano in qualche modo di industria cinematografica statunitense si contano sulle dita. La bibliografia inglese ovviamente si nutre delle numerose pubblicazioni uscite negli USA e non fa testo.

Guardando i testi di riferimento in coda al volume si nota una prevalenza assoluta di pubblicazioni statunitensi. Ma quali sono stati i vostri effettivi punti di riferimento?

Diversamente dall’Europa, negli USA l’attenzione alle vicende dell’industria cinematografica è stata sempre molto spiccata. Gli studi dedicati a questo settore sono tantissimi, ma gli autori da cui inizialmente siamo stati ispirati sono certamente due: Thomas Guback e la sua allieva Janet Wasko. Il taglio delle loro analisi è stato probabilmente decisivo per gli indirizzi della nostra ricerca: ad esempio, per mettere a fuoco il ruolo essenziale, e forse esiziale, delle banche nel processo industriale del cinema propriamente hollywoodiano. Ci sono poi i lavori di Tino Balio che costituiscono un riferimento fondamentale per l’analisi del percorso storico delle majors.

A quale tipo di pubblico è destinato?

È certamente un libro per tutti. Almeno, tutti coloro che amano il cinema e vogliono saperne di più sul suo reale funzionamento. Per quanto la nostra analisi sia inevitabilmente sorretta da un ricco patrimonio di nomi, leggi, cifre e statistiche, lo stile che abbiamo cercato di adottare ha ben poco di accademico. Ci sono molti riferimenti alle vicende anche personali dei protagonisti e, se consideriamo che i pionieri della grande Hollywood erano in sostanza degli avventurieri tanto concentrati a costruire la storia del cinema che ad aggirare le leggi antitrust ed eludere quelle fiscali, anche il nostro racconto assume un che di avventuroso, a metà strada tra i film rocamboleschi e quelli polizieschi.


(Gennaio 2018)







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