11 dicembre 2017

«Colletti, Foucault e il marxismo» di Luciano Albanese


Diego Rivera, Zucchero di canna. 1931.

A prima vista affrontare il tema dei rapporti tra Colletti e Foucault potrebbe sembrare tempo perso. Foucault non è ancora stato pubblicato interamente, ma per quello che ho potuto leggere finora il nome di Colletti non sembra comparire nelle sue opere. In Colletti compare, ma solo due volte. La prima citazione è in Pagine di filosofia e politica (Colletti 1989, p. 125), ripresa letteralmente in Fine della filosofia e altri saggi (Colletti 1996, p. 36), e non ha il minimo rilievo. La seconda è in Tra marxismo e no (Colletti 1979, pp. 61-2), ed è più interessante, anche se molto breve. Colletti infatti individua nello strutturalismo francese, in particolare Michel Foucault, la fonte della concezione della scienza (della storia come scienza) di Althusser. In realtà la concezione della storia e della scienza di Michel Foucault, come ha dimostrato Paul Veyne, è molto più complessa di quella strutturalista e di quella di Althusser, e lo stesso Foucault ha sempre preso le distanze dallo strutturalismo. Quello che sembra emergere dalla seconda citazione, in ogni caso, è una sottovalutazione di Foucault da parte di Colletti, e uno scarso interesse per la sua opera.

Forse si potrebbe anche parlare di ostilità: Foucault era tra gli intellettuali firmatari del Manifesto contro la repressione del luglio ’77, ed appoggiò pubblicamente il Movimento studentesco dello stesso anno. Ma Colletti era stato una delle ‘vittime’ di questo stesso movimento, che all’apertura dell’Anno accademico gli aveva impedito ripetutamente di fare lezione, costringendolo a procurarsi un insegnamento nella più tranquilla Svizzera. E conoscendo il carattere passionale di Colletti, difficile non pensare che in questo palese disinteresse interagissero anche motivi personali.

L’ostilità del Movimento studentesco del ’77 nei confronti di Colletti – a voler essere generosi – si legava alle polemiche suscitate in Italia dalla pubblicazione dell’Intervista politico-filosofica e dell’accluso saggio Marxismo e dialettica, usciti nel dicembre del 1974 presso Laterza. Tanto a destra quanto a sinistra si era data immediatamente una lettura politica dell’opera. A destra Colletti era stato esaltato come una sorta di Paolo a Damasco, che finalmente aveva visto la luce e aveva rotto col marxismo, il vaso di Pandora di tutti i mali. Dal canto suo la sinistra, in particolare quella legata al PCI, era partita a testa bassa, accusando Colletti di ‘tradimento’ e innescando un effetto domino che sfocerà nell’aperta ostilità verso Colletti degli studenti del Movimento del ’77. Se si pensa che Colletti e La Sinistra, il mensile da lui diretto, erano stati uno dei punti di riferimento del Movimento studentesco del ’68, questo improvviso voltafaccia della sinistra, ancora oggi, non può non suscitare perplessità.

Di queste perplessità si fece interprete l’Espresso, che nel febbraio del ’75 pubblicò una lunga intervista allo stesso Colletti. Colletti si diceva sorpreso e imbarazzato da queste reazioni. L’Intervista – diceva – era stata rilasciata originariamente alla New Left Review nel luglio-agosto del ’74. La New Left Review non era certo un foglio di destra, ma era «una rivista che, rispetto ai partiti comunisti europei, si colloca all’estrema sinistra». D’altra parte, ricordava Colletti, la stessa Critica marxista, nell’ultimo numero del ’74, aveva accolto l’intervista con un certo favore, e comunque senza gli anatemi scatenati successivamente, ad es. su l’Unità o Rinascita. Insomma, parlare di crisi del marxismo – precisava Colletti – non significa dichiarare bancarotta. Riconoscere l’esistenza di una crisi, al contrario, «è la premessa indispensabile per evitare la bancarotta, il primo passo necessario verso la salvezza». Di conseguenza, Colletti rifiutava energicamente le strumentalizzazioni dell’Intervista politico-filosofica e del saggio operate dalla destra, ripescando addirittura espressioni care alla Terza Internazionale, come ‘socialfascista’: «Non vorrei essere strumentalizzato da qualche socialdemocratico. Anche perché, oltre a sentirmi fermamente schierato a sinistra, so bene quanto la socialdemocrazia italiana sia inquinata da elementi fascisti». E concludeva accusando esplicitamente la «reazione precipitosa e maldestra» della stampa comunista di aver favorito queste strumentalizzazioni.

All’estero, tuttavia, le cose erano andate diversamente. A parte l’Inghilterra, dove l’Intervista era uscita originariamente suscitando un’ampia eco e una serie di dibattiti non solo nel mondo di cultura inglese, ma anche in America latina, fu soprattutto la Francia a capirne l’importanza politica e la portata filosofica. L’Intervista politico-filosofica e il saggio Marxismo e dialettica vennero immediatamente tradotti e resi accessibili al pubblico francese dalle Éditions Galilée (Lucio Colletti, Politique et philosophie, 1975). Il tema della dialettica, in Francia, era stato ampiamente dibattuto al seguito del rinnovamento degli studi hegeliani iniziato da Jean Wahl col Malheur del ’29 e proseguito da Hyppolite, Kojève e da tutti gli altri filosofi francesi del ’900, fino ad arrivare a Michel Foucault (vedi, per una ottima ricostruzione della vicenda, Roberto Salvadori, Hegel in Francia, Bari 1974).

Questo non significa, peraltro, che sulla questione della dialettica si fosse fatta soverchia chiarezza. Anzi, mentre gli studi di filosofia antica e tardoantica avevano prodotto opere di grande spessore, stimolati anche dai lavori di critica neotestamentaria di figure come Loisy e Guignebert, che minando alla base l’attendibilità delle fonti neotestamentarie, avevano reso necessaria una nuova fondazione (neoplatonica) del cristianesimo; in Francia le opere aventi per oggetto la filosofia moderna, quella hegeliana in particolare, sembravano perdere gradatamente la tradizionale clarté della pagina scritta.

Questa mancanza di chiarezza si riscontrava soprattutto intorno al tema della ‘contraddizione’, il cuore e il motore della dialettica hegeliana. Quando Hegel dice che ciò che è reale è razionale intende dire che tutta la realtà si sviluppa grazie alla contraddizione, ‘l’immane forza del negativo’. A si scinde in A e non-A, per riunificarsi ad un livello superiore pienamente cosciente, e successivamente scindersi di nuovo, e così via in un eterno circolo di circoli. Quindi secondo la prospettiva hegeliana nulla è più reale della contraddizione, e negare la realtà della contraddizione è come negare la razionalità del reale. Lo stesso Marx, come vedremo meglio, continuava a ragionare in questo modo: la moderna separazione di Stato e società civile, o la moderna opposizione di lavoro salariato e capitale sono tutte ‘contraddizioni’, cioè scissioni di una unità originaria destinate a ricomporsi (anche se diversamente da Hegel dovranno ricomporsi non già nel pensiero, nello Spirito, ma nella realtà).

La posizione di Hegel è cristallina. Non altrettanto si poteva dire di quella di molti filosofi e intellettuali francesi, che pur rifiutando a parole l’hegelismo, continuavano ad usare categorie hegeliane. E in effetti quando Foucault scrive il suo primo lavoro impegnativo, la prima stesura di Malattia mentale e personalità (1954; una seconda edizione della stessa opera, con notevoli modifiche, apparirà nel 1962), in Francia il quadro filosofico di riferimento non si era ancora rischiarato. Prendo ad esempio due autori a lui vicini, Bataille e Queneau. Nel marzo del 1932 i due avevano firmato insieme, sul n. 5 della rivista La Critique sociale, un importante articolo (successivamente ristampato su Deucalion dell’ottobre del ’55), «La critique des fondements de la dialectique hégélienne». La tesi di fondo dell’articolo, che prendeva lo spunto dal saggio del 1931 di Hartmann, «Hégel et le problème de la dialectique du réel» (pubblicato nella Revue de métaphysique et de morale), era che la dialettica hegeliana non vale nulla se riferita al mondo della natura e delle scienze esatte, ma che resta fondamentale per comprendere i fenomeni sociali, in particolare la moderna lotta di classe. Privare il proletariato del metodo dialettico – essi scrivono – sarebbe come togliere il sangue a un corpo. Due cose caratterizzano infatti la lotta di classe: 1) Il termine positivo, il capitalismo, implica necessariamente quello negativo, il proletariato. 2) La realizzazione della negazione implicata nel secondo termine implica necessariamente, alla sua volta, la negazione della negazione. In tal modo la rivoluzione ha, nello stesso tempo, un senso sia negativo che positivo (cfr. Deucalion, n. 5, pp. 45 e 51). Tutto ciò confermava l’importanza e la fecondità della contraddizione dialettica nella comprensione dei fenomeni sociali.

Torniamo a Malattia mentale e personalità. La prima edizione di questo testo era stata commissionata a Foucault da Louis Althusser, uno dei maggiori filosofi marxisti dell’epoca (sotto l’influenza del quale Foucault aderisce al Partito comunista francese, nel quale militerà per due anni, dal 1950 al 1952). Foucault dedica, in questa prima edizione, un capitolo intero alla riflessologia di Pavlov, attraverso la quale vede la possibilità di fare un’analisi realmente materialista della malattia, in grado di definire e addirittura risolvere le contraddizioni dell’esistenza e l’alienazione dell’uomo, radici ultime del male. Come Bataille e Queneau, e come Althusser in quegli anni, anche Foucault, pur dichiarandosi non hegeliano, non mostrava nessuna remora ad usare categorie del materialismo dialettico in cui la contraddizione svolgeva ancora un ruolo centrale.

Facciamo ora un salto in avanti di venti anni. Maggio 1975: Foucault, la cui fama è ormai alle stelle, è in California, ospite illustre e gradito del Pomona College di Claremont. In una delle sale del College si svolge una discussione informale fra Foucault e un gruppo di studenti di Los Angeles. La conversazione viene registrata e poi trascritta fedelmente da Grant Kim. Qualche anno dopo (1978) viene stampata da una editrice universitaria, Circabook, e successivamente raccolta nel III volume di Dits et écrits, testo n. 221. Il testo francese è visibile su Internet, e la traduzione italiana è in Michel Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica, 1975-1984, a cura di O. Marzocca, ed. Medusa, col titolo Dialogo sul potere. Scorrendo il testo, si sente subito che la musica è cambiata, e che Foucault, sulla dialettica e sulla contraddizione, sembra avere le idee più chiare.

Il punto decisivo riguarda il confronto sul marxismo. Dopo le prime battute iniziali, uno studente accusa Foucault di falsificare il grande principio basilare del marxismo, la visione dialettica della storia e del processo capitalistico di produzione. Ma credo sia opportuno riportare integralmente questa parte del dialogo, che si trova alle pp. 51-54 della traduzione italiana.

   Uno studente. Se si vuole comprendere quale tipo di rapporti sociali esistono in una società data, bisogna cercare le strutture di potere legate al processo di produzione. E non credo che si tratti di un rapporto determinato unilateralmente; penso davvero che si tratti di un rapporto reciproco, di un rapporto dialettico.
   M. Foucault. Non accetto il termine dialettica. No e poi no! Bisogna che le cose siano ben chiare. Appena si pronuncia la parola «dialettica» si comincia ad accettare, anche se non lo si dice, lo schema hegeliano della tesi e dell’antitesi, e con esso una forma logica che mi sembra inadeguata, se si vuol fornire una descrizione davvero concreta di questi problemi. Un rapporto reciproco non è un rapporto dialettico.

   Lo studente. Ma se si accetta solo il termine «reciproco» per descrivere questi rapporti, lei rende impossibile ogni forma di contraddizione. È per questo motivo che penso che l’uso del termine «dialettica» sia importante.
   M. Foucault. Esaminiamo allora il termine «contraddizione». Ma mi lasci dire innanzitutto quanto mi fa piacere che lei abbia sollevato tale questione. Credo che essa sia molto importante. Guardi, il termine «contraddizione» in logica ha un significato specifico. Si sa bene che cos’è una contraddizione nella logica delle proposizioni. Ma se si osserva la realtà e si cerca di descrivere e di analizzare un numero consistente di processi, si scopre che queste zone di realtà sono esenti da contraddizioni.
Prendiamo il campo biologico. Vi si trova un gran numero di processi reciproci antagonistici, ma questo non vuol dire che si tratti di contraddizioni. Non vuol dire che da un lato del processo antagonistico vi sia un aspetto positivo e dall’altro uno negativo. Credo che sia estremamente importante comprendere che la lotta, i processi antagonistici non costituiscono, come suppone il punto di vista dialettico, una contraddizione nel senso logico del termine. In natura non c’è dialettica. Io rivendico il diritto di essere in disaccordo con Engels: in natura – come Darwin ha mostrato molto bene – ci sono numerosi processi antagonistici che non sono dialettici. Per me questo genere di formulazioni hegeliane non regge.

A questo punto lo studente fa l’esempio del rapporto tra lavoro salariato e capitale, e chiede a Foucault se siamo di fronte a un rapporto reciproco o antagonistico. La risposta di Foucault è in linea con quanto esposto sopra.

   M. Foucault. Che lei abbia un lavoro e che il prodotto di questo lavoro, del suo lavoro, appartenga a qualcun altro è un fatto. Questa, comunque, non è una contraddizione né una combinazione reciproca: è l’oggetto di una lotta, di uno scontro. In ogni caso, il fatto che il frutto del suo lavoro appartenga a qualcun altro non è dell’ordine della dialettica. Non costituisce una contraddizione. Lei può pensare che sia moralmente indifendibile, che sia intollerabile, che sia necessario lottare contro questa situazione, sì certo. Ma questa non è una contraddizione, una contraddizione logica. E mi pare che la logica dialettica sia veramente molto povera – facile da usare, ma davvero molto povera – per chi spera di elaborare, in modo preciso, dei significati, delle descrizioni e delle analisi dei processi di potere.

Credo sia impossibile sottovalutare l’importanza di queste affermazioni di Foucault. Ci troviamo di fronte alla decisa rottura con la tradizione dell’hegelomarxismo, non solo quello francese, e all’enunciazione di un principio metodologico di indagine che non a caso verrà riaffermato nel corso del 1978-79 al Collège de France, Nascita della biopolitica. Nel ribadire la sua opposizione alla logica dialettica, Foucault precisa:

Che cos’è la logica dialettica? È una logica che mette in gioco dei termini contraddittori nell’elemento dell’omogeneo. A questa logica della dialettica io propongo piuttosto di sostituire quella che chiamerei una logica della strategia. Infatti, una logica della strategia non fa valere termini contraddittori in un elemento dell’omogeneo, destinato a garantire la loro risoluzione in unità; al contrario, ha la funzione di stabilire quali sono le connessioni possibili tra termini disparati, che restano tali. La logica della strategia. è la logica della connessione dell’eterogeneo, non quella dell’omogeneizzazione del contraddittorio. (Nascita della biopolitica, Milano 2005, p. 49)

Difficile non collegare mentalmente queste affermazioni così lucide di Foucault alle affermazioni analoghe contenute nel saggio Marxismo e dialettica di Lucio Colletti, che oltretutto era stato tradotto in francese lo stesso anno delle conversazioni californiane. Naturalmente si potrebbe pensare anche alla Critica della ragione dialettica di Sartre, ma saremmo completamente fuori strada, perché Sartre, più che distruggere la dialettica, la vuole riformare, costruendo un modello di ‘dialettica flessibile’. Non a caso una delle tesi centrali dell’opera ribadisce, hegelianamente, che la contraddizione è la struttura originaria della prassi umana, e che il negativo, la contraddizione, resta il solo modo di procedere del progresso storico, e quindi l’unico strumento che lo renda intelligibile. Si potrebbe pensare allora ad Althusser, ma Althusser non ha mai fatto sulla dialettica affermazioni così decise e così chiare come quelle di Foucault. L’unico stimolo che Foucault può aver ricevuto da Althusser, semmai, è un interesse per la Scuola di della Volpe e Colletti, coi quali Althusser era stato in contatto per un certo tempo.

Insomma, le affermazioni di Foucault potevano scaturire solo dalla lettura di un testo che, irrompendo nella cultura filosofica francese, avesse parlato un linguaggio completamente diverso, e usato fonti diverse da quelle che galleggiavano nella palude stagnante dell’hegelismo. Questa ventata di freschezza era esattamente il saggio Marxismo e dialettica di Colletti.

***

Marxismo e dialettica nasceva da una rielaborazione del corso dell’Anno accademico 1973-74, tenuto da Colletti davanti a un foltissimo numero di ascoltatori, studenti e non, che occupavano ogni angolo dell’Aula Magna della Facoltà di Lettere e filosofia della Sapienza di Roma, che in realtà neanche bastava a contenerli. C’era molta trepidazione e molta attesa da parte di tutti, perché si intuiva che eravamo di fronte a un punto di svolta, che riguardava non solo il percorso intellettuale di Colletti, ma lo stesso destino del marxismo teorico – un tema che allora, diversamente da oggi, stava a cuore a molti di noi. La cattedra da cui Colletti parlava era letteralmente ingombra di registratori, e chi non li aveva prendeva freneticamente appunti, spesso in piedi e appoggiato alle pareti dell’aula. Il corso del 1973-74 era il frutto di lunghi anni di dubbi e di ripensamenti, che in qualche modo erano già percepibili nell’«Avvertenza» a Ideologia e società, pp. V-VI. Uno degli scopi del libro, scriveva Colletti, era quello di «saggiare la possibilità di far convivere tra loro due linee di lettura, assai diverse, dell’opera di Marx: quella in chiave di teoria dell’alienazione […] e quella, invece, che insiste sul carattere scientifico dell’opera di Marx». Ma si respirava ancora l’aria del ’68 e delle sue ‘magnifiche giornate’ (la prima edizione di Ideologia e società è del ’69) e allora nessuno avvertì che le nuvole si stavano addensando all’orizzonte.

Gli stessi saggi centrali nel volume, del resto, erano di tutt’altro tono, e, più che dubbi, infondevano certezze. Il saggio «Rousseau critico della “società civile”» (1968), ad es., presentava Fidel Castro come un antesignano della lettura politica di Rousseau proposta da Colletti, e Fidel Castro era stato, insieme a Che Guevara, una delle pin-up di copertina della Sinistra, il mensile più letto dagli studenti del ’68. Il suo nome accanto a quello di Rousseau nascondeva l’invito, implicito, ad abbandonare le ‘armi della critica’ per passare alla ‘critica delle armi’. Tale invito diventava poi esplicito nel secondo saggio su Rousseau («Mandeville, Rousseau e Smith», 1968), che si chiudeva con un appello alla «prassi sovvertitrice» come unico serio coronamento della critica roussoiana alla società moderna.

Altri due saggi importanti della raccolta erano «Il marxismo come sociologia» e «Bernstein e il marxismo della Seconda Internazionale». Il primo risaliva agli anni ruggenti di Società, dove era stato pubblicato originariamente (1959), ed era una serrata critica della ‘sociologia comprendente’, ‘avalutativa’ e idealistica di Max Weber. Il secondo – che era la ristampa dell’«Introduzione» agli scritti di Bernstein (I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia) pubblicati da Laterza nel ’68 – era un attacco a fondo al marxismo della Seconda Internazionale, in particolare Hilferding, colpevole di aver teorizzato «il divorzio fra scienza e rivoluzione». Questo divorzio, peraltro, era un effetto inevitabile dell’incapacità di comprendere che la teoria del valore di Marx fa tutt’uno con la teoria del feticismo delle merci, e che il lavoro astratto non è solo un espediente mentale del ricercatore che analizza la società capitalistica, ein Gedankenbild, ma un’astrazione che ha preso corpo in una realtà ‘rovesciata’. Dell’esistenza di questo nodo, di questo intreccio in Marx fra analisi quantitativa e analisi qualitativa non hanno avuto sentore né Hilferding né la stessa Rosa Luxemburg, e in questo modo, senza volerlo, hanno spianato la strada al revisionismo di Bernstein e a tutto ciò che ne è conseguito. Chi esce bene da questa analisi impietosa è, paradossalmente, il Lukács di Storia e coscienza di classe, in cui «il discorso critico-scientifico o antifeticistico del Capitale viene a coincidere con l’autocoscienza stessa della classe operaia», a riprova dell’unità di scienza e ideologia (Bernstein, p. LX).

Sotto molti aspetti, il saggio su Bernstein rappresenta un turning point nel percorso filosofico di Lucio Colletti. Riscontriamo infatti in quello scritto il punto di massimo distacco dalla scuola di della Volpe e quello di massima vicinanza al Lukács del ’23. Con ciò erano poste tutte le premesse per un totale rovesciamento di posizioni, che prenderà forma nel saggio Marxismo e dialettica. Nella scuola di della Volpe, tutta proiettata verso la lettura di Marx come scienziato dell’economia capitalistica (Marx come il Galilei delle scienze morali), il tema del feticismo delle merci, dell’alienazione, non era preso in considerazione o restava sottotono. Anche Colletti, ovviamente, aveva aderito a questa impostazione, in particolare nel saggio introduttivo a Il’enkov, La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx (Milano 1961). Successivamente la lettura o rilettura di Storia e coscienza di classe aveva fatto emergere l’importanza del tema dell’alienazione e del feticismo delle merci, ma – ecco il punto – l’analisi di Lukács riteneva questi temi incompatibili con la scienza moderna, che anzi veniva attaccata duramente. Stretto in questa tenaglia, Colletti si avventurò in una missione impossibile, quella di presentare il tema dell’alienazione e del feticismo come un arricchimento dell’analisi scientifica: il discorso antifeticistico del Capitale come massima espressione del «discorso critico-scientifico» di Marx (Bernstein, p. LX). Si creava con ciò un nodo strettissimo fra scienza e politica, quel nesso fra conoscenza e trasformazione del mondo realizzato da Marx nel campo storico-morale (Bernstein, p. XLIII):

come il lavoro salariato, nel conoscere l’essenza del «capitale» e del «valore», li riconosce come il proprio «sé» oggettivato (onde, conoscendo quegli oggetti, esso acquista insieme coscienza di sé); così, col conoscere sé, la classe operaia realizza anche – essendo profitto e rendita forme derivate del plusvalore – la conoscenza del luogo di origine delle altre classi e, con ciò, dell’intera società (Bernstein, p. LX).

Il riferimento – e l’approvazione – di Storia e coscienza di classe per aver evidenziato questo tema, totalmente sconosciuto al marxismo della Seconda Internazionale, erano esplicitati nella nota a questo passo. Il distacco dalla scuola di della Volpe – di cui però si continua a mantenere l’idea del Marx scienziato della società – è enunciato esplicitamente a p. LXI del saggio su Bernstein. Ma anche la conclusione della seconda parte del Marxismo e Hegel conteneva una implicita presa di distanza da della Volpe:

non si tratta di contrapporre astrazioni ‘determinate’ a astrazioni ‘indeterminate’, una logica ‘corretta’ a una logica ‘scorretta: la metodologia è la scienza dei nullatenenti. (Il marxismo e Hegel, Bari 1969, p. 434)

Torniamo a Marxismo e dialettica, 1974. Dopo cinque lunghi anni di indagini e ripensamenti, il giudizio su della Volpe è completamente rovesciato. Della Volpe, scrive Colletti, faceva bene a tenersi aggrappato alla scienza come a una solida roccia, ma non aveva capito che in Marx c’era ben altro, che con la scienza non era compatibile. Rileggendo continuamente il I Libro del Capitale, le Teorie sul plusvalore, i Grundrisse, Colletti finì per rendersi conto che la teoria del feticismo delle merci e dell’alienazione non è altro che una teoria della contraddizione dialettica di marca hegeliana. Il processo dell’alienazione è quel movimento per cui un ‘predicato’ dell’essere umano – l’aspetto sociale del lavoro, che dovrebbe inerire al lavoro individuale in quanto lavoro che si compie in società e per conto della società – si separa dal soggetto concreto e si pone per proprio conto, ‘solidificandosi’ nel valore o denaro, unica merce immediatamente sociale, perché immediatamente scambiabile. In questo processo di ipostatizzazione si separano e si oppongono reciprocamente due termini, valore d’uso e non-valore d’uso, lavoro concreto individuale e lavoro sociale ipostatizzato, che vengono trattati da Marx, sulla scorta di Hegel, come opposti logici ovvero opposti contraddittori, dei quali egli teorizza la inevitabile riunificazione in una unità superiore, la società comunista, che diventa così una sorta di versione secolarizzata del Geist hegeliano.

Arrivati a questo punto, l’unico modo di salvare il salvabile era tornare alla visione dellavolpiana del marxismo come scienza empirica (che poi era la stessa visione di Hilferding e della corrente di sinistra della Seconda Internazionale, quella da lui esecrata nel ’68). Se sviluppiamo coerentemente il discorso di della Volpe, scrive Colletti, dobbiamo arrivare necessariamente a queste conclusioni. Ciò che il marxismo hegeliano, e purtroppo lo stesso Marx, presentano come contraddizioni nella realtà, sono in effetti contrarietà, opposizioni reali, e quindi non-contraddizioni. Il marxismo può e deve continuare a parlare di conflitti e di opposizioni oggettive nella realtà, ma senza rivendicare a sé una logica speciale, la dialettica, a differenza e contro la logica delle scienze esistenti. Il marxismo può continuare a parlare delle lotte e dei conflitti oggettivi, nella natura come nella società, servendosi della logica non-contraddittoria della scienza, quindi facendosi scienza esso stesso.

In tal modo, continua Colletti, della Volpe recuperava un’aspirazione antica e profonda del marxismo, già enunciata da Hilferding nel Capitale finanziario: l’aspirazione del marxismo a costituirsi come scienza della società, scienza al modo stesso delle scienze della natura. Da questo punto di vista, Hegel e l’hegelismo non hanno nulla a che fare col Capitale.

Il conflitto fra capitale e lavoro salariato non è altro che una Realopposition, cioè un contrasto di forze non dissimile, in linea di principio, da quelli analizzati da Galilei e Newton: conflitto aspro e radicale e tuttavia (o, anzi, proprio per questo), da non confondere con la contraddizione dialettica. (Marxismo e dialettica, p. 95)

Riemergeva il Marx ‘Galilei delle scienze morali’ teorizzato da della Volpe, e liberato, come la statua del Glauco marino, da tutte le incrostazioni hegeliane. Si apriva così il campo ad una diversa concezione della storia, non teleologica e non finalistica, che faceva perno sul concetto delle ‘formazioni economico-sociali’. Marx era lo scienziato che aveva analizzato, o aperto il cammino, all’analisi di quelle particolari specie, artificiali o storiche, che sono i vari tipi di società succedutisi nel corso della vicenda umana.

Il testo che Colletti aveva utilizzato maggiormente, per fare piena luce su questo punto, era soprattutto uno scritto poco noto del Kant precritico, il Tentativo di introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative (1763). In questo scritto di una chiarezza cristallina Kant distingue due tipi di opposizione. 1) Opposizione logica o per contraddizione (A, non A), e 2) opposizione reale, senza contraddizione (A, B). La prima opposizione è impensabile, e gli opposti non possono convivere, uno deve essere necessariamente vero e l’altro falso, e quello falso va eliminato. La seconda opposizione è pensabile, gli opposti sono entrambi reali, e possono convivere. Esempi del primo caso sono le contraddizioni all’interno di una proposizione, esempi del secondo caso sono i numeri positivi e negativi nell’algebra o due forze che viaggiano in senso contrario nella fisica. Scritto contro il razionalismo di Leibniz, il Tentativo lancia un messaggio che colpisce indirettamente anche il neorazionalismo dialettico di Hegel, stabilendo che i principi logici tradizionali non possono governare tutta la realtà. Esistono infiniti tipi di realtà, infiniti tipi di opposizioni, che non sono governati dal principio di non contraddizione (o di contraddizione che sia). La loro comprensione richiede una logica diversa (che in Kant sarà la logica trascendentale, costitutiva dell’esperienza), le cui aspirazioni sono più modeste, perché non pretende di essere onnicomprensiva.

Non a caso Hegel accusò il colpo, e nella Logica usò gli stessi esempi di Kant per dimostrare che anche nella matematica e nella fisica regna la contraddizione. Si debbono concedere agli antichi dialettici – scrive ad es. Hegel – le contraddizioni che essi rilevano nel moto, ma da ciò non consegue che il moto non sia, ma che il moto è la contraddizione stessa come esistente (Logica, Roma-Bari 2008, II 490-95).

***

Credo che l’identità di vedute fra Colletti e Foucault sia già emersa chiaramente, ma a ulteriore conferma metto a confronto, uno dopo l’altro, due passi particolarmente significativi.

Colletti:

Il conflitto fra capitale e lavoro salariato non è altro che una Realopposition, cioè un contrasto di forze non dissimile, in linea di principio, da quelli analizzati da Galilei e Newton: conflitto aspro e radicale e tuttavia (o, anzi, proprio per questo), da non confondere con la contraddizione dialettica. […] Il marxismo può e deve continuare a parlare di conflitti e di opposizioni oggettive nella realtà, ma senza rivendicare a sé una logica speciale, la dialettica, a differenza e contro la logica delle scienze esistenti. Il marxismo può continuare a parlare delle lotte e dei conflitti oggettivi, nella natura come nella società, servendosi della logica non-contraddittoria della scienza, quindi facendosi scienza esso stesso. (Marxismo e dialettica, pp. 94-5)

Foucault:

Che lei abbia un lavoro e che il prodotto di questo lavoro, del suo lavoro, appartenga a qualcun altro è un fatto. Questa, comunque, non è una contraddizione né una combinazione reciproca: è l’oggetto di una lotta, di uno scontro. In ogni caso, il fatto che il frutto del suo lavoro appartenga a qualcun altro non è dell’ordine della dialettica. Non costituisce una contraddizione. Lei può pensare che sia moralmente indifendibile, che sia intollerabile, che sia necessario lottare contro questa situazione, sì certo. Ma questa non è una contraddizione, una contraddizione logica. E mi pare che la logica dialettica sia veramente molto povera – facile da usare, ma davvero molto povera – per chi spera di elaborare, in modo preciso, dei significati, delle descrizioni e delle analisi dei processi di potere. (Dialogo sul potere, pp. 53-4)

Questa uscita dal pensiero dialettico, da parte dei due pensatori, può trovare un’analogia solo nel passaggio ‘dal mondo chiuso all’universo infinito’ operato dalla Rivoluzione scientifica. La visione dialettica faceva della storia un cerchio, in cui il futuro era inscritto nel presente, e tutto risultava logicamente necessario. Tale visione, mutatis mutandis, affondava le sue radici ultime nella nozione neoplatonica di Nous, ed era a tutti gli effetti, insieme all’astrologia, un fossile precopernicano sopravvissuto alla Rivoluzione scientifica. Rotto il cerchio, tutto diventa aleatorio e provvisorio, nulla è scritto, e si naviga a vista. Le ‘magnifiche sorti e progressive’ dell’umanità sono relegate nel libro dei sogni, e ciò che appare ora alla vista è uno scenario hobbesiano, quello del bellum omnium contra omnes. La vittoria del proletariato non è più inscritta a caratteri d’oro nel libro della Storia, ma è solo una possibilità. Analogamente, nemmeno quella del liberalismo sull’assolutismo monarchico era garantita, si è dovuto lottare, e fiumi di sangue hanno macchiato le nuove carte costituzionali e i nuovi codici delle leggi.

Su questo ultimo punto Foucault è stato particolarmente esplicito nel corso del gennaio-marzo ’76 al Collège de France, Bisogna difendere la società (Milano 2010). Si tratta forse delle pagine più belle ed incisive che Foucault abbia mai dedicato al tema del potere, e se esiste la possibilità di studiare il rapporto tra Foucault e il marxismo è lì che bisogna cercarla. Ricostruendo la storia del liberalismo Foucault presenta come puramente ideologica la dottrina del diritto naturale. «Il diritto – dice Foucault – trasmette e mette in opera rapporti che non sono rapporti di sovranità, ma di dominazione», procedure di assoggettamento (p. 31). La dominazione comincia con ogni forma di potere. «Non esistono forme storiche di potere, quali che siano, che non possano essere analizzate in termini di dominazione degli uni sugli altri. […] Ogni legge, ogni forma di sovranità, ogni tipo di potere dev’essere analizzato non nei termini del diritto naturale e della costituzione della sovranità, ma come l’effetto del movimento indefinito – e indefinitamente storico – dei rapporti di dominazione degli uni sugli altri» (p. 97).

Il diritto, la pace e le leggi sono nati nel sangue e nel fango delle battaglie. […] La legge non nasce dalla natura presso le sorgenti a cui si recano i primi pastori. La legge nasce da battaglie reali: dalle vittorie, dai massacri, dalle conquiste che hanno le loro date e i loro orrifici eroi; la legge nasce dalle città incendiante, dalle terre devastate». E anche la pacificazione prodotta dalla legge è illusoria; «dietro la legge la guerra continua a infuriare all’interno di tutti i meccanismi di potere, anche dei più regolari. […] Dietro la pace occorre saper vedere la guerra: la guerra è la cifra stessa della pace. Siamo dunque in guerra gli uni contro gli altri; un fronte di battaglia attraversa tutta la società, continuamente e permanentemente, ponendo ciascuno di noi in un campo o nell’altro. Non esiste un soggetto neutrale. Siamo necessariamente l’avversario di qualcuno. (Bisogna difendere la società p. 49)

Chi racconta la storia del liberalismo – continua Foucault – è necessariamente situato da una parte o dall’altra. Chi fa valere il diritto e lo rivendica, in realtà reclama e fa valere i suoi diritti: diritti singolari, il diritto della sua famiglia o della sua razza, il diritto dell’anteriorità, il diritto delle invasioni trionfanti o delle occupazioni, siano esse recenti o millenarie.

In ogni caso abbiamo a che fare con un diritto ancorato a una storia e al contempo decentrato rispetto a un’universalità giuridica: E se il soggetto che parla del diritto (o piuttosto dei suoi diritti) parla della verità, sarà di quella verità che non è la verità universale del filosofo che egli parla. (Bisogna difendere la società, p. 50)

Ciò significa, continua Foucault, stabilire «un legame fondamentale tra rapporti di forza e relazioni di verità». Per un verso, si dirà tanto più la verità quanto più si è situati all’interno di un certo campo. Ma per un altro verso, la verità sarà ricercata «solo nella misura in cui potrà diventare un’arma all’interno del rapporto di forza». In queste pagine, Foucault sta abbandonando al suo destino lo storicismo della filosofia della storia, per approdare – svanita ogni residua illusione – alla storia reale.

Che cosa viene dunque posto all’origine della storia? In primo luogo, una serie di fatti elementari, fatti che si potrebbero già definire fisico-biologici: vigore fisico, forza, energia, proliferazione di una razza, debolezza di un’altra ecc.; una serie di casi, o comunque di contingenze: disfatte, vittorie, successi o insuccessi delle rivolte, fallimenti o riuscite delle congiure o delle alleanze. […] Secondo questo discorso ciò che costituisce la trama permanente della storia e delle società sarà un intreccio di corpi, di passioni e di casi. (Bisogna difendere la società, p. 52)

Ma tutto questo significa anche che cercare nella storia una razionalità fondamentale e permanente – come fa Hegel e lo storicismo di marca hegeliana – è una fatica vana. Tutta la razionalità che si può rinvenire nella storia è la razionalità «dei calcoli, delle strategie, delle procedure tecniche per conservare o per conseguire la vittoria, per serbare o rovesciare i rapporti di forza». Si può chiamare questa ragione ‘irrazionalità’ (si pensi ad es. alla Distruzione della ragione di Lukács), ma in essa si manifesta la verità. La ‘Ragione’ con la maiuscola, per contro, si trova dalla parte delle chimere (Bisogna difendere la società, p. 53).

Nell’esposizione di Foucault i sostenitori di questo approccio ‘irrazionale’ alla storia vengono identificati nei protagonisti della lotta all’assolutismo, sia in Inghilterra che in Francia, appartenenti ad una tradizione diversa dal giusnaturalismo. Foucault fa i nomi di Coke e Lilburne, dei Levellers e dei Diggers, di Boulainvilliers e di Fréret: tutti questi autori non facevano appello ai diritti innati-razionali del giusnaturalismo, ma a diritti storicamente consolidati attraverso lotte e conquiste. Anche se apparentemente Foucault sta facendo opera di scienziato e di analista, è evidente che è verso questo modo di scrivere storia che vanno le sue simpatie.

Non a caso segue, anche qui, un attacco deciso alla dialettica che sottende lo storicismo hegeliano. Si potrebbe pensare – scrive Foucault – che la dialettica e la contraddizione che la muove siano filosoficamente congeniali al discorso sulla storia che ho appena illustrato. Ma questo sarebbe un errore colossale.

La dialettica codifica la lotta, la guerra e gli scontri all’interno di una logica (o sedicente tale) della contraddizione: essa li ricomprende nel duplice processo di totalizzazione e di aggiornamento di una razionalità insieme finale e fondamentale, in ogni caso irreversibile. La dialettica infine assicura la costituzione, attraverso la storia, di un soggetto universale, di una verità riconciliata, di un diritto in cui tutte le particolarità avranno infine il loro posto ben ordinato. La dialettica hegeliana – e con essa, penso, tutte quelle che l’hanno seguita – deve essere compresa […] come la colonizzazione e la pacificazione autoritaria, da parte della filosofia e del diritto, di un discorso politico che è stato a un tempo una constatazione, una proclamazione e una pratica della guerra sociale. La dialettica ha colonizzato questo discorso […] il discorso amaro e partigiano della guerra fondamentale. (Bisogna difendere la società, p. 56) 
la guerra è la cifra stessa della pace. (Bisogna difendere la società, p. 49)

Nel contesto di queste affermazioni si inserisce anche una citazione da Marx che è passata inosservata, ma che mi sembra particolarmente interessante. Nel 1882, scrive Foucault citando a memoria, Marx scrive a Engels: «Sai molto bene dove abbiamo trovato la nostra lotta di classe: negli storici francesi che raccontavano la lotta delle razze». Una conferma di quanto diceva Marx viene proprio dalle battute di apertura del Manifesto:

La storia di tutta la società, fino ad oggi, è la storia della lotta delle classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, maestri capi delle arti e artigiani, in breve, oppressi e oppressori, furono continuamente in contrasto fra loro, e sostennero una lotta ininterrotta, a volte palese e a volte dissimulata; una lotta che è sempre finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la rovina totale delle classi in contesa.

Il Manifesto si apre dunque esponendo una visione della storia come eterna lotta di classe. Ma continua esponendo poi una teoria della fine di ogni lotta di classe. La borghesia e il modo capitalistico di produzione hanno unificato il mondo e semplificato i rapporti fra le classi, riducendole a due: borghesia e proletariato. In tal modo si sono creati i presupposti materiali per la fine delle lotte di classe. Più esattamente, per la fine della storia quale l’abbiamo conosciuta finora, e l’inizio di una storia diversa, la ‘vera’ storia dell’umanità sotto il comunismo planetario. Detto in altre parole, il Manifesto passa dalla storia alla filosofia della storia. Una filosofia della storia che verrà sempre più articolata utilizzando categorie hegeliane: alienazione, contraddizione, ecc. Non mi diffondo su questo punto, perché l’ha già fatto Colletti, in maniera insuperabile, in Marxismo e dialettica.

Ora, se noi separiamo il Marx storico della lotta di classe dal Marx filosofo della lotta di classe ci ritroviamo fra le mani esattamente la concezione della storia esposta da Foucault, che costituisce il punto di avvio del Manifesto e che riaffiora anche in molte pagine dell’Ideologia tedesca. Ma questa stessa visione della storia emerge, e non può non emergere, dall’operazione chirurgica messa in atto dalla scuola di della Volpe e da Colletti dopo il ’74 e oltre. Infatti se il conflitto fra capitale e lavoro salariato non è altro che una Realopposition, cioè un contrasto di forze, non ne conseguirà nessuna fine delle lotte di classe e nessuna palingenesi sociale, ma semplicemente la vittoria dell’una o dell’altra classe, ovvero una trasformazione della società, o forse «la totale rovina delle classi in contesa», come scrive lo stesso Marx ragionando da storico e non da filosofo della storia. Ci troviamo ormai nel regno del contingente, e quindi nulla è più scritto nel libro del destino.

***

Nel 1970 Colletti era già, da più di un anno, impegnato a fronteggiare e risolvere una serie di dubbi che attanagliavano la sua coscienza di filosofo marxista. Uno specchio di questi dubbi può essere considerata l’«Introduzione» ai Principi del leninismo di Stalin pubblicata nello stesso anno (Roma 1970). Più che una introduzione all’opera di Stalin lo scritto è un’introduzione all’operato di Lenin, e quindi al drammatico scontro fra la dottrina marxista e le dure repliche della storia. Lenin punta con decisione verso una rivoluzione comunista in Russia, ma nella piena coscienza che la Russia, anche nelle previsioni di Marx, era l’ultimo posto in cui una rivoluzione comunista dovesse scoppiare. Colletti sottolinea ripetutamente il fatto che Lenin vuole tornare in Russia ad ogni costo, sia pure sfruttando i capitali e i contatti di Parvus col governo tedesco, perché è consapevole del fatto che la Russia è l’anello più debole del sistema capitalistico, un luogo in cui si può utilizzare la guerra imperialistica – con la conseguente, e quanto mai opportuna, presenza di masse di operai e contadini in armi – per rovesciare il sistema. Ma è altresì consapevole che ‘la rivoluzione in un solo paese’ è priva di senso dal punto di vista marxista. Ad essa dovrà seguire, necessariamente, la rivoluzione nel resto dell’Europa.

Ma la rivoluzione in Europa fallisce. La socialdemocrazia, che ha votato a favore della guerra, è perduta per la causa della rivoluzione, e anzi nel gennaio del 1919 fa massacrare Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, chiudendo la porta in faccia a qualsiasi velleità rivoluzionaria. La Russia sovietica, aggredita all’interno e all’esterno, è costretta a chiudersi e ad arrendersi di fronte alla realtà. Le profezie fatte da Rosa Luxemburg nella Rivoluzione russa si avverano:

La forma di regime politico che la Rivoluzione d’ottobre realizzò in Russia non fu mai, neppure all’inizio, una dittatura del proletariato, ma una dittatura del partito per conto del proletariato. A causa del «basso livello culturale delle masse operaie – scriveva Lenin già nel ’19 – i soviet che, in base al loro programma, sono organi di amministrazione diretti dagli operai sono di fatto organi di amministrazione per gli operai diretti dall’avanguardia del proletariato, non dalle masse operaie.» «Introduzione» ai Principi del leninismo, p. 13)

D’altra parte lo stesso Lenin, nel Che fare?, aveva teorizzato che la coscienza di classe deve e può essere portata alla classe operaia solo dall’esterno, vale a dire dalle avanguardie intellettuali, quindi dal partito. La convinzione di essere nel vero giustifica, agli occhi di Lenin e degli altri, il prezzo salato da pagare, cioè il perenne stato d’assedio e il soffocamento della vita politica democratica in tutto il paese. Ma crea, nello stesso tempo, la struttura statuale che favorirà l’ascesa al potere di Stalin. Nella lettura di Colletti Stalin è la risposta della storia al tentativo dei dirigenti bolscevichi di sovrapporre alla storia stessa la filosofia marxista della storia. Stalin ha capito fino in fondo che ciò che è avvenuto in Russia non è l’inizio della rivoluzione comunista mondiale, ma può essere l’inizio di una nuova Russia, capace di occupare un posto di rilievo tra le altre nazioni europee, e forse addirittura di proporre un modello diverso di industrializzazione, che la farà emergere rapidamente sopra le altre nazioni europee.

Sintomaticamente, il saggio di Colletti si chiude riproponendo il dilemma: utopia marxista o Realpolitik. Il realismo politico ci dice che le energie morali non contano nulla, che tutto è solo forza, e che basta soltanto la forza per governare i popoli. Il marxismo oppone a questa visione una diversa visione della storia stessa. E tuttavia – conclude Colletti – «il marxismo teorico stesso è oggi a un banco di prova, dove sta anche a noi decidere se esso debba essere solo un chiliasmo o il forcipe capace di far partorire la storia».

Quattro anni dopo Colletti darà quella che ha tutta l’aria di una risposta definitiva. Purtroppo essa si trova nella parte non pubblicata del corso universitario. Se il conflitto tra capitale e lavoro salariato è una opposizione reale, come quella tra una nave e il vento contrario, dice Colletti, tale opposizione non chiede più di essere abolita, ed è moralmente indifferente. Se l’opposizione fra capitale e lavoro salariato è come quella fra una nave e un vento di prua, non ha nessun senso schierarsi per una parte o per l’altra. Il destino del marxismo come scienza, in una parola, è quello di non giustificare più in alcun modo (che non sia una decisione ‘irrazionale’ o una spinta di natura etica – il che è la stessa cosa) la necessità della rivoluzione e l’impegno a favore della classe operaia. Questa convinzione è stata espressa nel modo più incisivo da Hilferding – citato anche da Colletti – nella «Prefazione» al Capitale finanziario: il marxismo come teoria scientifica – scrive Hilferding – è esente da giudizi di valore.

È pertanto concezione errata, anche se diffusa intra et extra muros, identificare senz’altro marxismo e socialismo. Poiché, considerato logicamente, visto soltanto come sistema scientifico – prescindendo cioè dalla sua efficacia storica – il marxismo è solo una teoria delle leggi del divenire della società: leggi che la concezione marxista della storia formula in generale, e l’economia marxista applica all’epoca della produzione delle merci. Il socialismo è la risultante delle tendenze che si avviluppano e si combinano nella società produttrice di merci. Ma riconoscere la validità del marxismo […] non significa in alcun modo formulare valutazioni, né tanto meno significa additare una linea di condotta pratica. Perché una cosa è riconoscere una necessità, altra cosa è porsi al servizio di quella necessità. (Il capitale finanziario, Milano 1961, p. 6)

Colletti si trova quindi inesorabilmente sospinto verso una concezione dei conflitti sociali che somiglia molto a quella elaborata da Foucault in quegli stessi anni. Nel saggio su Kelsen dell’aprile 1979 il mito della società omogenea priva di conflitti sociali, meta finale del comunismo, viene giudicato da Colletti il frutto di un «ingenuo ottimismo antropologico». Non si può spiegare tutto, scrive Colletti citando Kelsen, a partire dai rapporti di produzione.

Vi sono momenti che non hanno nulla a che fare con la sfera economica e che tuttavia sono capaci di dividere gli uomini e di accendere tra loro conflitti. […] I conflitti di idee, i contrasti religiosi, le diverse concezioni del mondo […] sono già motivi più che sufficienti a provocare divisioni e lotte. (Tramonto dell’ideologia, 1986, p. 179)

L’ipotesi che emerge implicitamente da questo passo è che forse non sono i rapporti di produzione a generare i conflitti di classe, ma che i contrasti fra gli uomini, che sono alle radici di tutto, generano rapporti di produzione conflittuali.

L’idea di fondo, in conclusione, è che le società vivono in uno stato di guerra endemico, e i momenti di pace sono apparenti, perché la cifra della pace resta la guerra. Strumento principe di queste guerre non sono solo le armi, ma anche le parole. Già Hobbes, contro Aristotele che aveva definito l’uomo un animale politico, chiamava la parola ‘una tromba di sedizione’ che distingue inesorabilmente l’uomo dagli animali, perché gli animali non hanno la parola. Per mezzo delle parole si elaborano discorsi veri, ideologie, paradigmi che sono altrettanti strumenti di dominazione. Il punto di vista della classe operaia, quello sul quale Lukács ha costruito l’intera Storia e coscienza di classe, non è più il mistero rivelato della storia umana e la garanzia di una rinascita dell’umanità, ma è un punto di vista accanto a tanti altri, un’arma costruita ad hoc, un espediente retorico di una delle parti in lotta.

Quindi, nella misura in cui anche il marxismo mira a mettere in luce quali interessi contrapposti si nascondono dietro i discorsi di verità, il marxismo può ancora essere utile. Il punto di vista del proletariato può essere riutilizzato, weberianamente, come un elemento direzionale dell’indagine, quindi con valore euristico anziché normativo. E, nella misura in cui il marxismo elabora teorie scientifiche falsificabili, come la caduta tendenziale del saggio di profitto di Marx, o la teoria del sottoconsumo della Luxemburg, o l’analisi – per molti versi ancora attuale – del capitalismo finanziario di Hilferding, il marxismo è ancora vitale. Ma da ciò non nascerà più né una palingenesi sociale, né un mondo migliore.




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