26 dicembre 2017

«I figli crescono. Intervista a Silvia Gregory» di Doriano Fasoli



Silvia Gregory, dopo una laurea in Medicina e chirurgia alla Sapienza di Roma, si è specializzata nel 1987 in Pediatria e nel 1992 in Neuropsichiatria infantile. Vive e lavora a Roma. L’occasione di questa conversazione è l’uscita del suo libro I bimbi crescono. Favole e Computer, edito in questi giorni da Alpes.

Doriano Fasoli: Dottoressa Gregory com’è nata l’idea di dare alle stampe questo suo lavoro: I bimbi crescono?

Silvia Gregory: Il libro è nato dalla richiesta di un genitore che, riflettendo con me sul modo migliore di affrontare alcuni temi quali ad esempio le bugie, il ruolo della tecnologia, la morte di una persona cara, mi ha spinto a scrivere su alcune delle richieste più comuni dei genitori utilizzando l’esperienza e il lavoro quotidiano.

Com’è costruito il libro?

È un libro discorsivo, uno spunto di riflessione e di confronto, spero, tra i genitori che avranno la curiosità di leggerlo e di rifletterci.

Com’è riuscita ad integrare le due competenze medica e psicologica?

Nella vita così come nella professione gli aspetti medici e psicologici sono intrecciati e la cura non può prescindere dalla considerazione per la persona nella sua interezza e, nel caso del bambino, anche dall’ambiente nel quale vive. Così l’integrazione delle competenze avviene direi in modo costante.

Quali sono i suoi principali modelli teorici di riferimento?

Da pediatra e da neuropsichiatra infantile gli studi mi hanno fatto conoscere Freud, Winnicott, Klein, Stern, Piaget, solo per citarne alcuni, e comunque tutti gli autori che si sono occupati dello sviluppo infantile nella sua complessità.

Come vive la relazione con i bambini e con la coppia genitoriale?

Ho sempre cercato di mettermi nella prospettiva del bambino e di parlare al genitore da questa angolazione, perché solo così ciò che il bambino fa diventa comprensibile e spesso acquisisce un significato diverso rispetto alla lettura che ne fa l’adulto. Il bello dei bambini è che sono uno stimolo costante alla riflessione e al cambiamento se li si sa ascoltare.

Quali sono le maggiori difficoltà incontrate nello svolgimento della sua professione?

La difficoltà forse maggiore nella mia professione è far capire al genitore che il bambino deve avere il suo spazio, che è lui il creatore della relazione con il medico ed ha il diritto di essere ascoltato. Per i genitori è spesso assai difficile lasciargli la possibilità di raccontare ciò che prova e ciò che sente, di lasciarlo solo con il suo dottore se il bambino lo desidera, di accettare il suo punto di vista  e riflettere senza chiudersi in difesa come se punti di vista differenti fossero solo critiche e non la possibilità di un arricchimento reciproco.

Come dovrebbe essere da parte dei bambini l’approccio verso la tecnologia?

Il problema non è dei bambini, ma del ruolo educativo dei genitori che spesso hanno difficoltà nel porre limiti all’uso dei videogiochi ed evitare che diventino il compagno di giochi ideale e/o la nuova forma di babysitting.

Come è percepita e vissuta la morte nel mondo infantile?

Lei coglie un problema cruciale: come presentare la morte quale evento naturale e non come qualcosa da nascondere o addolcire. Il fatto che oggi si muoia sempre meno in casa, che i cimiteri siano luoghi lontani dal contesto cittadino e la morte sia relegata fuori dal vivere quotidiano rende la morte un argomento difficile da spiegare, un evento da esorcizzare. Ma direi che sono gli adulti ad averne più timore dei bambini e, con il pretesto di non farli soffrire, evitano di parlarne arrivando persino ad escluderli: mentre, se adeguatamente sostenuti, i bambini sono in grado di capire ed elaborare il dolore.

Come giudica l’odierno insegnamento scolastico rispetto al passato?

Mi sembra che oggi la scuola, soprattutto dalla materna alle medie, sia lo specchio dei problemi di questa società (disagio genitoriale, bullismo, integrazione culturale) e che spesso gli insegnanti si trovino a dover gestire situazioni difficili e complesse senza alcun sostegno, a volte anche dei genitori stessi, e senza il riconoscimento del loro impegno. Purtroppo una società che non capisce il ruolo educativo e formativo che gli insegnanti svolgono e non ne tutela e rispetta il lavoro che fanno, considerando che un bambino inizia la scuola al più tardi a 3 anni e ne esce a 18, passando nella scuola la maggior parte del tempo, è una società che ha scelto di non investire nel suo futuro.


(Dicembre 2017)




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