Silvia
Gregory, dopo una laurea in Medicina e chirurgia
alla Sapienza di Roma, si è specializzata nel 1987 in Pediatria e nel 1992 in
Neuropsichiatria infantile. Vive e lavora a Roma. L’occasione di questa
conversazione è l’uscita del suo libro I bimbi crescono. Favole e Computer, edito in questi giorni da Alpes.
Doriano
Fasoli: Dottoressa Gregory com’è nata l’idea di
dare alle stampe questo suo lavoro: I bimbi
crescono?
Silvia Gregory: Il libro è nato dalla richiesta di un genitore
che, riflettendo con me sul modo migliore di affrontare alcuni temi quali ad
esempio le bugie, il ruolo della tecnologia, la morte di una persona cara, mi
ha spinto a scrivere su alcune delle richieste più comuni dei genitori
utilizzando l’esperienza e il lavoro quotidiano.
Com’è costruito il
libro?
È
un libro discorsivo, uno spunto di riflessione e di confronto, spero, tra i
genitori che avranno la curiosità di leggerlo e di rifletterci.
Com’è riuscita ad
integrare le due competenze medica e psicologica?
Nella
vita così come nella professione gli aspetti medici e psicologici sono
intrecciati e la cura non può prescindere dalla considerazione per la persona
nella sua interezza e, nel caso del bambino, anche dall’ambiente nel quale
vive. Così l’integrazione delle competenze avviene direi in modo costante.
Quali sono i suoi
principali modelli teorici di riferimento?
Da
pediatra e da neuropsichiatra infantile gli studi mi hanno fatto conoscere
Freud, Winnicott, Klein, Stern, Piaget, solo per citarne alcuni, e comunque
tutti gli autori che si sono occupati dello sviluppo infantile nella sua
complessità.
Come vive la relazione
con i bambini e con la coppia genitoriale?
Ho
sempre cercato di mettermi nella prospettiva del bambino e di parlare al
genitore da questa angolazione, perché solo così ciò che il bambino fa diventa
comprensibile e spesso acquisisce un significato diverso rispetto alla lettura
che ne fa l’adulto. Il bello dei bambini è che sono uno stimolo costante alla
riflessione e al cambiamento se li si sa ascoltare.
Quali sono le maggiori
difficoltà incontrate nello svolgimento della sua professione?
La
difficoltà forse maggiore nella mia professione è far capire al genitore che il
bambino deve avere il suo spazio, che è lui il creatore della relazione con il
medico ed ha il diritto di essere ascoltato. Per i genitori è spesso assai
difficile lasciargli la possibilità di raccontare ciò che prova e ciò che sente,
di lasciarlo solo con il suo dottore
se il bambino lo desidera, di accettare il suo punto di vista e riflettere senza chiudersi in difesa come
se punti di vista differenti fossero solo critiche e non la possibilità di un
arricchimento reciproco.
Come dovrebbe essere da
parte dei bambini l’approccio verso la tecnologia?
Il
problema non è dei bambini, ma del ruolo educativo dei genitori che spesso
hanno difficoltà nel porre limiti all’uso dei videogiochi ed evitare che
diventino il compagno di giochi ideale e/o la nuova forma di babysitting.
Come è percepita e
vissuta la morte nel mondo infantile?
Lei
coglie un problema cruciale: come presentare la morte quale evento naturale e
non come qualcosa da nascondere o addolcire. Il fatto che oggi si muoia sempre
meno in casa, che i cimiteri siano luoghi lontani dal contesto cittadino e la
morte sia relegata fuori dal vivere quotidiano rende la morte un argomento
difficile da spiegare, un evento da esorcizzare. Ma direi che sono gli adulti
ad averne più timore dei bambini e, con il pretesto di non farli soffrire,
evitano di parlarne arrivando persino ad escluderli: mentre, se adeguatamente
sostenuti, i bambini sono in grado di capire ed elaborare il dolore.
Come giudica l’odierno
insegnamento scolastico rispetto al passato?
Mi
sembra che oggi la scuola, soprattutto dalla materna alle medie, sia lo
specchio dei problemi di questa società (disagio genitoriale, bullismo,
integrazione culturale) e che spesso gli insegnanti si trovino a dover gestire
situazioni difficili e complesse senza alcun sostegno, a volte anche dei
genitori stessi, e senza il riconoscimento del loro impegno. Purtroppo una
società che non capisce il ruolo educativo e formativo che gli insegnanti
svolgono e non ne tutela e rispetta il lavoro che fanno, considerando che un
bambino inizia la scuola al più tardi a 3 anni e ne esce a 18, passando nella
scuola la maggior parte del tempo, è una società che ha scelto di non investire
nel suo futuro.
(Dicembre 2017)
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