24 dicembre 2017

«Storia notturna; Paura reverenza terrore. Conversazione con Carlo Ginzburg» di Doriano Fasoli



Il celebre storico Carlo Ginzburg, figlio del letterato antifascista Leone e della scrittrice Natalia, si è occupato prevalentemente di storia della mentalità e della cultura popolare tra il XVI e il XVII secolo con particolare attenzione ai problemi metodologici e ai rapporti tra ricerca storica e altri ambiti disciplinari. Nella sua lunga attività accademica e scientifica e nei suoi numerosi libri, tradotti in oltre venti lingue, ha condotto una profonda riflessione sul mestiere di storico nel solco di uno dei suoi maestri, Marc Bloch. Ha insegnato nelle università di Bologna, Harvard, Yale e Princeton, alla UCLA (Università della California, Los Angeles) e alla Normale di Pisa. Tra le sue opere si ricordano: I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento (1966); Il nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nell'Europa del '500 (1970); Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500 (1976); Indagini su Piero. Il Battesimo; Il ciclo di Arezzo; La flagellazione di Urbino (1981); Miti emblemi spie. Morfologia e storia (1986); Storia notturna. Una decifrazione del sabba (1989). Nel 1991 ha pubblicato il pamphlet Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri. Dopo Nessuna isola è un'isola. Quattro sguardi sulla letteratura inglese (2002), rilettura di alcune opere di autori inglesi tra cui Thomas Moore e Robert Louis Stevenson. Nella raccolta di saggi Il filo e le tracce (2006) ha sviluppato le traiettorie analitiche già esplorate in Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza (1998) e Rapporti di forza. Storia, retorica, prova (2000), delineando una teoria della scrittura storica che prende le mosse dall’indagine della complessa relazione tra verità, finzione e menzogna.

Doriano Fasoli: Professor Ginzburg, nel 1966, allora ventisettenne, lei diede alle stampe la sua prima ricerca storica: I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento. Quando avvenne l’incontro con la morfologia chiamata in causa in Storia notturna (oggi ripubblicato per Adelphi)?

Carlo Ginzburg: Nel 1976, leggendo le Note di Ludwig Wittgenstein al Ramo d’oro di Frazer. Qualche anno dopo, mentre ero sprofondato nella ricerca sul sabba (che poi diventò Storia notturna), mi resi conto che una delle strade che stavo percorrendo era quella della morfologia. Il sottotitolo della raccolta di saggi che pubblicai da Einaudi nel 1986 – Miti emblemi spie era per l’appunto Morfologia e storia. Sul rapporto tra morfologia (o meglio, ‘morfologie’) e storia, ho continuato a riflettere: a questo tema è dedicata la postfazione alla nuova edizione di Storia notturna, pubblicata da Adelphi, «Medaglie e conchiglie».

Perché ha deciso ora di rieditare questo libro da Adelphi? E cosa ricostruisce precisamente Storia notturna?

Il mio ultimo libro, Paura reverenza terrore, era stato pubblicato da Adelphi, con l’aiuto di collaboratrici straordinarie. Ho accettato subito l’invito a ripubblicare Storia notturna, aggiungendo una postfazione. Il tema del libro è annunciato nel sottotitolo: Una decifrazione del sabba. Che cosa si nascondeva dietro l’immagine dei convegni notturni di streghe e stregoni, che emerge dai processi celebrati per alcuni secoli in gran parte d’Europa? Il libro cerca di ricostruire l’intreccio che portò all’imposizione di questa immagine, in cui erano confluite l’ossessione del complotto contro la società – attribuito via via a lebbrosi, ebrei, musulmani, streghe e stregoni – e uno strato di credenze contadine, forse di lontanissima ascendenza sciamanica.

«Qualche volta», ha scritto, «bisogna cercare di sottrarsi al rumore incessante delle notizie che ci arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato». Cosa intende precisamente con queste parole?

Viviamo nel presente, quindi tendiamo a dare il presente per scontato. Ma ciò che diamo per scontato è per definizione sottratto alla conoscenza. Per capire la realtà che ci circonda dobbiamo imparare a guardarla da lontano, non solo: dobbiamo imparare a guardarla come qualcosa di opaco, di incomprensibile, per arrivare a capirla meglio. È la tesi proposta da Viktor Šklovskij nel suo famoso saggio sullo straniamento. In un capitolo del libro Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza (Feltrinelli, 1998), intitolato per l’appunto «Straniamento», ho cercato di ricostruire la lunga, complessa preistoria di quest’idea. Formuliamo domande al passato partendo dal presente; ma anche il passato pone, in maniera indiretta e obliqua, domande al presente.

Nell’ultimo libro, Paura reverenza terrore, che sono anche i sentimenti che attraversano il nostro attuale sentire, sembra avvertire che il mondo nel quale viviamo è per molti versi simile a quello descritto nel Leviatano. È così?

Non esattamente. Alla fine del mio saggio sul frontespizio del Leviatano di Hobbes ho avanzato un’ipotesi: se il tasso d’inquinamento dell’acqua e dell’aria diventasse insostenibile, la sopravvivenza della specie homo sapiens potrebbe imporre un patto che limiterebbe le libertà individuali in una misura molto superiore a quella immaginata da Hobbes. Un’ipotesi, aggiungevo, che speriamo rimanga per sempre tale.

Su cosa vertono i cinque saggi che compongono il libro?

Su oggetti molto diversi. Procedendo in ordine cronologico inverso: Guernica di Picasso; il manifesto in cui Lord Kitchener si rivolgeva, nel 1914, ai potenziali volontari con il dito puntato (“YOUR COUNTRY NEEDS YOU”); il Marat all’ultimo respiro di David; il frontespizio del Leviatano di Hobbes; un vaso di bronzo dorato dell’inizio del ‘500, fabbricato ad Anversa. Sono saggi, come avverte il sottotitolo, di iconografica politica.

Nei primi anni Ottanta lei dedicò uno straordinario lavoro a Piero della Francesca, Indagini su Piero: perché prestò una particolare attenzione a questo artista?

La pittura mi appassiona, fin da quando ero ragazzo. Il primo incontro con gli affreschi di Piero ad Arezzo (avevo diciassette anni) è rimasto per me indimenticabile. Non avrei mai immaginato, allora, di scrivere un giorno un libro su Piero. L’idea mi venne mentre stavo lavorando da anni sul sabba stregonesco. Solo retrospettivamente capii che questa improvvisa digressione aveva, senza che me ne rendessi conto, un motivo: esplorare i rapporti tra morfologia e storia. Nel caso di Piero decisi di mettere tra parentesi i dati morfologico-stilistici per analizzare l’intreccio tra iconografia e committenti. Ma l’esperimento aveva ripercussioni anche stilistiche: la Flagellazione di Piero è un’opera giovanile (come aveva sostenuto Roberto Longhi) o un’opera della maturità, che presuppone il soggiorno romano, come argomentai nel mio libro?

Quanta importanza ha avuto per lei la grande lezione di Aby Warburg?

Grandissima. È una lezione che mi fu trasmessa prima di tutto dalla sua straordinaria biblioteca (dove fui introdotto, agli inizi degli anni Sessanta, da Delio Cantimori) e poi da un’ampia scelta dei suoi scritti, tradotti in italiano da Emma Cantimori Mezzomonti (Sansoni, 1965). Più di cinquant’anni fa scrissi un saggio intitolato «Da Warburg a Gombrich» (1966, poi ristampato in Miti emblemi spie); recentemente, Warburg e le sue Pathosformeln mi hanno guidato attraverso i saggi raccolti in Paura reverenza terrore. È una riflessione che continua.

Quali culture entrano in gioco nella sua educazione intellettuale?

Prima di tutto, com’è ovvio, quella della famiglia in cui sono nato. Il privilegio di crescere in una casa piena di libri mi ha facilitato la comunicazione con altre culture. Ma non si finisce mai d’imparare. Ricordo ancora lo choc provato durante il mio primo viaggio negli Stati Uniti, a Princeton (avevo più di trent’anni), di fronte a uno stile di discussione molto diverso da quello cui ero abituato.

Qual è oggi il suo livre de chevet?
La Commedia di Dante.

Ha seguito via via con interesse il pensiero di maîtres à penser francesi quali Blanchot, Foucault, Deleuze, Derrida?

No. Farei una parziale eccezione per Foucault, di cui ho discusso alcuni scritti, criticandoli, nell’introduzione a Il formaggio e i vermi (Einaudi, 1976).

Doriano Fasoli

(Dicembre 2017)





Nessun commento:

Posta un commento