Il
celebre storico Carlo Ginzburg,
figlio del letterato antifascista Leone e della scrittrice Natalia, si è
occupato prevalentemente di storia della mentalità e della cultura popolare tra
il XVI e il XVII secolo con particolare attenzione ai problemi metodologici e
ai rapporti tra ricerca storica e altri ambiti disciplinari. Nella sua lunga
attività accademica e scientifica e nei suoi numerosi libri, tradotti in oltre
venti lingue, ha condotto una profonda riflessione sul mestiere di storico nel
solco di uno dei suoi maestri, Marc Bloch. Ha insegnato nelle università di
Bologna, Harvard, Yale e Princeton, alla UCLA (Università della California, Los
Angeles) e alla Normale di Pisa. Tra le sue opere si ricordano: I
benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento (1966); Il
nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nell'Europa del '500 (1970);
Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500 (1976); Indagini su Piero. Il Battesimo; Il ciclo di Arezzo; La flagellazione di Urbino (1981);
Miti emblemi spie. Morfologia e storia (1986); Storia notturna. Una
decifrazione del sabba (1989). Nel 1991 ha pubblicato il pamphlet Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri. Dopo Nessuna isola è un'isola. Quattro sguardi sulla letteratura inglese (2002), rilettura di alcune opere di
autori inglesi tra cui Thomas Moore e
Robert Louis Stevenson. Nella raccolta di saggi Il filo e le tracce (2006) ha sviluppato le traiettorie analitiche
già esplorate in Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza (1998) e Rapporti di forza. Storia, retorica, prova (2000), delineando una teoria della scrittura storica che prende le
mosse dall’indagine della complessa relazione tra verità, finzione e menzogna.
Doriano
Fasoli: Professor Ginzburg, nel 1966, allora
ventisettenne, lei diede alle stampe la sua prima ricerca storica: I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra
Cinquecento e Seicento. Quando avvenne l’incontro con la morfologia chiamata
in causa in Storia notturna (oggi
ripubblicato per Adelphi)?
Carlo Ginzburg: Nel
1976, leggendo le Note di Ludwig
Wittgenstein al Ramo d’oro di Frazer. Qualche anno dopo, mentre
ero sprofondato nella ricerca sul sabba
(che poi diventò Storia notturna), mi
resi conto che una delle strade che
stavo percorrendo era quella della morfologia. Il sottotitolo della raccolta di saggi che pubblicai da
Einaudi nel 1986 – Miti emblemi spie
– era per l’appunto Morfologia e storia. Sul rapporto tra
morfologia (o meglio, ‘morfologie’) e storia, ho continuato a riflettere: a
questo tema è dedicata la postfazione
alla nuova edizione di Storia notturna,
pubblicata da Adelphi, «Medaglie e
conchiglie».
Perché ha deciso ora di
rieditare questo libro da Adelphi? E cosa ricostruisce precisamente Storia notturna?
Il
mio ultimo libro, Paura reverenza terrore,
era stato pubblicato da Adelphi, con l’aiuto di collaboratrici straordinarie.
Ho accettato subito l’invito a ripubblicare Storia
notturna, aggiungendo una postfazione. Il tema del libro è annunciato nel
sottotitolo: Una decifrazione del sabba.
Che cosa si nascondeva dietro l’immagine dei convegni notturni di streghe e
stregoni, che emerge dai processi celebrati per alcuni secoli in gran parte d’Europa?
Il libro cerca di ricostruire l’intreccio che portò all’imposizione di questa
immagine, in cui erano confluite l’ossessione del complotto contro la società –
attribuito via via a lebbrosi, ebrei, musulmani, streghe e stregoni – e uno
strato di credenze contadine, forse di lontanissima ascendenza sciamanica.
«Qualche volta», ha
scritto, «bisogna cercare di sottrarsi al rumore incessante delle notizie che
ci arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo
di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a
guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un
cannocchiale rovesciato». Cosa intende precisamente con queste parole?
Viviamo
nel presente, quindi tendiamo a dare il presente per scontato. Ma ciò che diamo
per scontato è per definizione sottratto alla conoscenza. Per capire la realtà
che ci circonda dobbiamo imparare a guardarla da lontano, non solo: dobbiamo
imparare a guardarla come qualcosa di opaco, di incomprensibile, per arrivare a
capirla meglio. È la tesi proposta da Viktor Šklovskij nel suo famoso saggio sullo
straniamento. In un capitolo del libro Occhiacci
di legno. Nove riflessioni sulla distanza (Feltrinelli, 1998), intitolato
per l’appunto «Straniamento», ho cercato di ricostruire la lunga, complessa preistoria
di quest’idea. Formuliamo domande al passato partendo dal presente; ma anche il
passato pone, in maniera indiretta e obliqua, domande al presente.
Nell’ultimo libro, Paura reverenza terrore, che sono anche
i sentimenti che attraversano il nostro attuale sentire, sembra avvertire che
il mondo nel quale viviamo è per molti versi simile a quello descritto nel Leviatano.
È così?
Non
esattamente. Alla fine del mio saggio sul frontespizio del Leviatano di Hobbes ho avanzato un’ipotesi: se il tasso
d’inquinamento dell’acqua e dell’aria diventasse insostenibile, la
sopravvivenza della specie homo sapiens
potrebbe imporre un patto che limiterebbe le libertà individuali in una misura
molto superiore a quella immaginata da Hobbes. Un’ipotesi, aggiungevo, che
speriamo rimanga per sempre tale.
Su cosa
vertono i cinque saggi che compongono il libro?
Su
oggetti molto diversi. Procedendo in ordine cronologico inverso: Guernica di Picasso; il manifesto in cui
Lord Kitchener si rivolgeva, nel 1914, ai potenziali volontari con il dito
puntato (“YOUR COUNTRY NEEDS YOU”); il Marat all’ultimo respiro di David; il
frontespizio del Leviatano di Hobbes;
un vaso di bronzo dorato dell’inizio del ‘500, fabbricato ad Anversa. Sono saggi,
come avverte il sottotitolo, di iconografica politica.
Nei primi anni Ottanta
lei dedicò uno straordinario lavoro a Piero della Francesca, Indagini su Piero: perché prestò una
particolare attenzione a questo artista?
La
pittura mi appassiona, fin da quando ero ragazzo. Il primo incontro con gli
affreschi di Piero ad Arezzo (avevo diciassette anni) è rimasto per me
indimenticabile. Non avrei mai immaginato, allora, di scrivere un giorno un
libro su Piero. L’idea mi venne mentre stavo lavorando da anni sul sabba
stregonesco. Solo retrospettivamente capii che questa improvvisa digressione aveva,
senza che me ne rendessi conto, un motivo: esplorare i rapporti tra morfologia
e storia. Nel caso di Piero decisi di mettere tra parentesi i dati morfologico-stilistici
per analizzare l’intreccio tra iconografia e committenti. Ma l’esperimento aveva
ripercussioni anche stilistiche: la Flagellazione
di Piero è un’opera giovanile (come aveva sostenuto Roberto Longhi) o un’opera della
maturità, che presuppone il soggiorno romano, come argomentai nel mio libro?
Quanta importanza
ha avuto per lei la grande lezione di Aby Warburg?
Grandissima.
È una lezione che mi fu trasmessa prima di tutto dalla sua straordinaria biblioteca
(dove fui introdotto, agli inizi degli anni Sessanta, da Delio Cantimori) e poi
da un’ampia scelta dei suoi scritti, tradotti in italiano da Emma Cantimori
Mezzomonti (Sansoni, 1965). Più di cinquant’anni fa scrissi un saggio intitolato
«Da Warburg a Gombrich» (1966, poi ristampato in Miti emblemi spie); recentemente, Warburg e le sue Pathosformeln mi hanno guidato attraverso
i saggi raccolti in Paura reverenza
terrore. È una riflessione che continua.
Quali
culture entrano in gioco nella sua educazione intellettuale?
Prima
di tutto, com’è ovvio, quella della famiglia in cui sono nato. Il privilegio di
crescere in una casa piena di libri mi ha facilitato la comunicazione con altre
culture. Ma non si finisce mai d’imparare. Ricordo ancora lo choc provato durante
il mio primo viaggio negli Stati Uniti, a Princeton (avevo più di trent’anni),
di fronte a uno stile di discussione molto diverso da quello cui ero abituato.
Qual è oggi il suo livre de chevet?
La
Commedia di Dante.
Ha seguito via via con
interesse il pensiero di maîtres à penser
francesi quali Blanchot, Foucault, Deleuze, Derrida?
No.
Farei una parziale eccezione per Foucault, di cui ho discusso alcuni scritti,
criticandoli, nell’introduzione a Il
formaggio e i vermi (Einaudi, 1976).
Doriano
Fasoli
(Dicembre
2017)
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