La polemica tra Foucault e Derrida si accende attorno alle tre pagine che Foucault in Storia della follia dedica al cogito cartesiano (pp. 51-53) [1] trovando il suo punto di origine nella conferenza di Derrida Cogito e storia della follia, tenuta il 4 marzo 1963 al Collège philosophique, successivamente pubblicata nella «Revue de métaphysique et de morale» (1963: nn. 3-4), e infine inserita fra i saggi de La scrittura e la differenza (1967).
La conferenza di Derrida, che era stato allievo di Foucault, pur manifestando riconoscenza e apprezzamento per il lavoro del maestro, è un’analisi fortemente critica dell’opera, che mette in discussione una delle tesi fondamentali della Storia della follia, il cogito cartesiano come presupposto ideologico del Grande internamento e della radicale inversione di tendenza, rispetto alla Renaissance, nella valutazione e nel trattamento della follia.
L’analisi di Derrida smonta pezzo per pezzo l’interpretazione del passo della Prima Meditazione di Descartes, che secondo Foucault sarebbe all’origine dell’espulsione della follia dal pensiero e della sua esclusione dal soggetto che dubita [2]. Per motivi di chiarezza espositiva, riporto qui integralmente il passo cartesiano:
Benché i sensi c’ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare, benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io sono qui, seduto accanto al fuoco, vestito d’una veste da camera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei? A meno che, forse, non mi paragoni a quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti, di essere vestiti d’oro o di porpora, mentre sono nudi affatto, o s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro [3]. Ma costoro son pazzi [amentes], ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio.
Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l’abitudine di dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte meno verosimili ancora, che quegl’insensati quando vegliano [& eadem omnia in somnis pati, vel etiam interdum minus verisimilia, quam quæ isti vigilantes]. Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte, che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio letto? [4] (corsivi miei)
Descartes prosegue rilevando che, tuttavia, almeno le immagini dei sogni, pur se prive di coerenza, corrispondono a qualcosa di reale, così come i Satiri e i Sileni dei pittori non potrebbero essere rappresentati senza i colori. E che pure ammettendo che siano tutte immaginarie anche queste cose, restano sempre le “qualità primarie” dei corpi, come estensione, figura, quantità, grandezza e il loro numero, vale a dire le qualità oggetto della matematica, della quale non possiamo dubitare [5].
Nel riesaminare questo passo Derrida rileva una forzatura nell’interpretazione foucaultiana del testo cartesiano, forzatura che sostanzialmente mette in crisi l’intero impianto dell’opera. «Nell’economia del dubbio», aveva scritto Foucault analizzando il passo, «c’è uno squilibrio fondamentale tra follia da una parte, sogno ed errore dall’altra. La loro situazione è differente nei confronti della verità e di colui che la cerca» [6]. Tale squilibrio secondo Foucault va a tutto vantaggio del sogno e dell’errore, che contengono almeno un nucleo di realtà, «la natura corporale in generale e la sua estensione», gli «inevitabili indizi di una verità che il sogno non giunge a compromettere» [7]. Questa asimmetria tra sogno e follia consente e produce quello che Derrida, esponendo la tesi di Foucault, chiama «l’imprigionamento filosofico della follia» [8], inevitabile preludio al suo imprigionamento «materiale».
Derrida osserva che Foucault è l’unico interprete della Prima Meditazione che isoli il delirio e la follia dalla sensibilità e dai sogni. In realtà da una lettura priva di “prenozioni” del passo di Descartes si evince chiaramente, secondo Derrida, non che la sensibilità e i sogni – come interpreta Foucault – contengano più verità dei deliri di un pazzo che crede di essere fatto di vetro, ma, tutto al contrario, che – come del resto recita la lettera del testo cartesiano – «spesso nel sogno mi rappresento le stesse cose, e ancora più inverosimili, di quelle che si rappresentano i pazzi quando vegliano». Quindi, conclude Derrida, secondo Descartes la follia non è che un caso particolare, e neppure il più grave, dell’illusione sensibile, il vero obbiettivo – questo, e non la follia – della critica cartesiana. «La follia non è che un errore dei sensi, […] molto meno grave, nell’ordine epistemologico, di quello a cui siamo soggetti continuamente nel sogno» [9].
A conferma che né i sensi né il sogno contengono – a differenza della follia – almeno un nucleo di realtà, Derrida fa un’osservazione importante, e cioè che se è vero che ci sono cose indubitabili contenute in essi, come estensione, figura, quantità, grandezza e il loro numero, «questa parte non è né sensibile né d’immaginazione: è intelligibile» [10], cioè è un prodotto autonomo della ragione. Descartes è molto esplicito su questo punto: ad es. l’estensione, egli scrive, «non v’è se non il mio intelletto che la concepisca [sola mente percipere]» [11]. Di conseguenza i sensi in quanto tali non hanno parte alcuna nell’operazione che discrimina il sogno dalla realtà: il loro apporto, da questo punto di vista, è pari a quello della follia.
Che poi la follia non venga affatto “esclusa dal soggetto che dubita” è dimostrato secondo Derrida dal suo riemergere nella figura del Genio Maligno, che ipotizza una situazione di follia totale nel contenuto del pensiero, a cui solo il cogito – ma in realtà la garanzia divina – può mettere rimedio.
Insomma, non solo la Prima Meditazione non è il motore ideologico del Grande internamento, ma è anche lecito, a questo punto, sollevare dubbi sulla reale matrice culturale del fenomeno, posto che il primato del logos, della ragione, non è un’invenzione di Descartes, ma caratterizza praticamente da sempre il pensiero occidentale [12].
Seguendo questa linea di pensiero, Derrida solleva poi un problema, tutt’altro che marginale. Tale problema, in effetti, era stato sollevato dallo stesso Foucault nella prefazione alla prima edizione dell’opera (1961) [13]. Esso riguarda la possibilità stessa di “dare voce alla follia”, cioè di rendere effettivo lo scopo che Foucault si era proposto scrivendo la Storia della follia. Infatti, anche ammettendo che “l’imperialismo della ragione” sia all’origine dell’esclusione della follia e del Grande internamento, per combattere la ragione non si può che fare appello, di nuovo, alla ragione stessa, ovvero affidarsi interamente al silenzio, che però è esattamente la condizione alla quale la ragione ha costretto la follia [14].
In questo contesto, e più o meno esplicitamente contro Foucault, Derrida avanza una diversa interpretazione del cogito cartesiano. Nascendo dal dubbio iperbolico, il cogito ne riporta comunque i segni, e non a caso è costretto ad affidarsi interamente alla garanzia divina. Tuttavia, una volta relegata sullo sfondo o eliminata del tutto questa garanzia, dal cogito inteso come il “lume naturale” nascerà il moderno pensiero critico, che vede nel dubbio un elemento necessario e ausiliario della razionalità [15].
Foucault non replicò immediatamente alle critiche di Derrida. Aspettò l’uscita della nuova edizione della Storia della follia (1972) per aggiungervi un’appendice, il saggio «Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco», in cui esamina minuziosamente gli argomenti di Derrida. Va rilevato, a tale proposito, che la critica di Derrida costringe Foucault a prendere in esame il passo della Prima Meditazione, successivo a quello da lui citato, che egli nella Storia della follia aveva troppo sbrigativamente trascurato [16].
Tuttavia l’esame di questo nuovo passo, secondo Foucault, non invalida affatto quella che potremmo chiamare la “differenza ontologica” fra follia e sogno. La differenza, dice Foucault, sta nel fatto che il sognatore resta un “soggetto meditante”, perché il sogno non gli impedisce di continuare a meditare, riconoscendo l’esistenza di un certo numero di cose o principi reali (come la natura del corpo e la sua estensione). La scena in cui si svolge il sogno continua ad avere i contorni abituali della realtà: la scena della follia, al contrario, sostituisce questa realtà con un’altra, ad es. quella dei corpi di vetro [17].
Analoghe considerazioni vanno fatte, secondo Foucault, per l’assimilazione, proposta da Derrida, del Genio maligno alla follia totale. Anche qui resta una differenza di fondo: il primo toglie realtà alle esperienze abituali, mentre la seconda assegna realtà ad esperienze eccentriche, come quella di essere fatto di vetro. Ovvero: mentre il primo mi spinge a non credere a cose reali, la seconda mi spinge a credere a cose irreali. La conclusione di Foucault ribadisce quindi quella della Storia della follia («Descartes si separa da tutti coloro per i quali la follia può essere, in un modo o nell’altro, portatrice o rivelatrice di verità») [18], e quindi la validità dell’impianto generale dell’opera.
Nella parte finale del saggio è difficile non rilevare un brusco cambiamento di tono da parte di Foucault, con la conseguenza che la critica a Derrida assume toni particolarmente aspri. Derrida viene accusato di essere ancorato alla lettera, e non allo spirito, dei testi che commenta. Derrida – scrive Foucault – è il rappresentante più decisivo, nel suo ultimo splendore, di una vecchia tradizione interpretativa, storicamente ben determinata, che riduce «le pratiche discorsive alle tracce testuali», mediante l’«elisione degli avvenimenti che vi si producono per trattenere solo dei segni per una lettura», trascurando con ciò di «analizzare le modalità d’implicazione del soggetto nei discorsi». Questa «piccola pedagogia […] insegna all’allievo che non c’è niente al di fuori del testo». Ma dietro questa «testualizzazione delle pratiche discorsive» si nasconde una vera e propria “chiusura mentale”, se non una vera e propria “metafisica”, secondo la quale solo nella griglia delle parole si rivela il senso dell’essere [19].
L’asprezza della risposta di Foucault provocò una temporanea interruzione dei rapporti con Derrida. Successivamente, dopo la morte di Foucault, Derrida tornerà a confrontarsi con il suo pensiero, ma stavolta parlando di Freud anziché di Descartes, concentrando la riflessione su una frase di Foucault contenuta nella Storia della follia: «bisogna essere giusti con Freud». Da questa frase si svilupperà la sua conferenza a Parigi nel 1991 che diventerà poi il saggio Essere giusti con Freud.
Note:
- Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, BUR, Milano 2010.
- Cfr. J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 55; e M. Foucault, op. cit., p. 52.
- Probabile allusione alla più celebre delle Novelle esemplari di Cervantes, la novella «L'avvocato Invetriata». In realtà la convinzione di essere fatti di vetro (glass delusion) è una patologia effettivamente esistente, ed era abbastanza diffusa in Europa tra il XV e il XVII secolo. Oltre che in Cervantes e Descartes vi sono riferimenti ad essa in Robert Burton e Constantijn Huygens.
- AT [ed. minor] VII 18-20; cfr. AT IX 14-16. Trad. M. Garin. Corsivo mio.
- AT VII Ibidem, AT IX Ibidem.
- M. Foucault, op. cit., p. 52.
- Idem, p. 51.
- J. Derrida, op. cit., p. 55.
- Idem, pp. 59-64. Si potrebbe aggiungere – cosa che Derrida non rileva – che nella tradizione platonica, nella quale Descartes può essere per questo aspetto inserito, non esiste nessuna differenza tra sfera dei sensi e sfera della follia: i sensi sono follia, perché il loro contatto fa dell’uomo esattamente un a-mens: un a-nous come leggiamo nel Timeo 42 e sgg.: 44 b 1.
- Idem, p. 61.
- Seconda Meditazione; AT VII 31.
- Idem, pp. 50 sgg.
- M. Foucault, «Prefazione a Storia della follia», in Id., Archivio Foucault I. 1961-1970, Feltrinelli, Milano 1996.
- J. Derrida, op. cit., pp. 45-46.
- Idem, pp. 69 sgg.
- «Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l’abitudine di dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte meno verosimili ancora, che quegl’insensati quando vegliano. Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte, che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio letto?». (AT [ed. minor] VII 18-20; cfr. AT IX 14-16. Trad. di M. Garin. Corsivo mio).
- M. Foucault, Storia della follia, cit., pp. 487 sgg.; cfr. p. 51.
- Idem, pp. 501-507.
- Idem, p. 508.
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