Traducendo Il meraviglioso mago di Oz di Frank Baum, mi sono imbattuta in un curiosissimo saggio di Ray Bradbury sul meraviglioso mago («Per le cose meravigliose che fa», prefazione a Il meraviglioso mago di Oz, Feltrinelli, trad. mia, di prossima pubblicazione). Bradbury propone un piccolo test al lettore: scegliere un amico, bendarlo, fargli fare un giro nella stanza e poi condurlo davanti a un tavolo dove sono stati sistemati due libri (in questo caso Il meraviglioso mago di Oz, appunto, e Alice nel Paese delle Meraviglie) e a quel punto chiedergli di abbassare piano piano la mano fino a toccare uno dei due libri. Come avverrà la scelta? Bradbury parla di una temperatura del libro, di una sorta di atmosfera, di clima che trasuda in alto, in direzione delle dita ancora indecise.
Dal Paese delle Meraviglie un paesaggio invernale, dove, quando i personaggi parlano, se ne vede il fiato. Una temperatura intorno a zero gradi. Da Oz un’aria da panetteria. Oz è la terra dell’agosto perenne, accarezzata dai venti di scirocco che soffiano dai deserti che la circondano, da ogni lato.
Il traduttore, quindi, ancor più del lettore, dovrebbe essere capace, avvicinando le dita al libro sul tavolo, di stabilirne la temperatura.
Traducendo «Un viaggio all’estero» (tit. or. «One trip abroad»; in Francis Scott Fitzgerald, Racconti, Feltrinelli, a cura di Franca Cavagnoli, Milano 2013), coevo a Tenera è la notte, mi sono chiesta, dunque, che temperatura avesse e se questa temperatura fosse la stessa della scrittura di Fitzgerald in generale. Mi sono accorta che il viaggio dei Kelly, di Nelson e Nicole, la giovane coppia di americani protagonista della storia, altro non è che un progressivo e ineluttabile movimento da sud verso nord, dal caldo al freddo.
In «Un viaggio all’estero», la temperatura s’abbassa lentamente, grado dopo grado, pagina dopo pagina. Si parte da Algeri, dai margini del deserto ai confini con l’Egitto, si passa per Sorrento, Parigi, Montecarlo e la Costa Azzurra e si finisce in Svizzera, paese «dove cominciano poche cose, ma molte finiscono». È Fitzgerald stesso a suggerirci, all’inizio della quarta e ultima parte del racconto, che l’elemento geografico (e quindi climatico, aggiungerei) non va trascurato.
In Algeria, ai margini del deserto, la temperatura è notoriamente alta. Man mano che i Kelly si allontanano dall’equatore, si abbassa ma resta comunque calda: a Montecarlo è piena estate e Nelson e Nicole passano molte serate all’aperto, in compagnia di “gente che conta”. A Parigi continuano a frequentare feste lungo la Senna a bordo di yacht. Anche qui, le temperature si mantengono estive.
Ma è proprio a bordo della chiatta del Marchese de la Clos d’Hirondelle, a dispetto dell’allegria degli abiti estivi, della musica e del tepore di una bella notte d’estate, che Nicole ha come un collasso, fisico e mentale al tempo stesso. All’improvviso è come se sentisse, tutto insieme, un gran freddo, un freddo smisurato, un freddo che viene da dentro e che trasforma in un paesaggio invernale, in un paesaggio di morte, il lungosenna parigino.
A ben guardare, però, quel freddo – dentro – c’è sempre stato ed è presente, sotto forma di neri presagi, in vari punti del racconto. Una specie di gelo secco che nemmeno il sole tropicale riuscirebbe a sciogliere. Come non si sciolgono i fiocchi di neve nera dell’incipit: la tempesta di locuste che s’abbatte sul pullman di turisti. Come per le cavallette dell’Esodo, l’ottava piaga d’Egitto, «esse cadranno fino a ricoprire il paese, così da non potersi più vedere il suolo». Fiocchi di neve nera che nessun raggio di sole potrà mai sciogliere.
Non c’è calore reale, calore che scalda davvero, in «Un viaggio all’estero». Non c’è luce duratura, solo «flashing phantoms», illusioni scintillanti, abbagli che durano il tempo di un battito di ciglia.
Di questa mancanza congenita di luce e calore, i personaggi, soprattutto Nicole, hanno una vaga percezione, via via sempre più netta fino all’epifania finale, nell’onnipresente sentimento del rimpianto: «regret», parola chiave dell’intero racconto.
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