Giovanni Sias è psicoanalista. Vive e lavora a Milano, dove si occupa, in particolare, della formazione degli psicoanalisti. Studioso e teorico della psicoanalisi fa parte dell’Area Mediterranea di Psicanalisi, un collettivo di lavoro che raccoglie psicoanalisti italiani, francesi di area provenzale e occitana, e spagnoli. La sua ricerca teorica si rivolge in particolare alle strutture fondanti la pratica della psicoanalisi e alla rielaborazione costante dei principi primi della conoscenza psicoanalitica: Edipo, Mosè e il pensiero sapienziale (Presocratici e profeti), le forme di elaborazione e trasmissione della psicoanalisi (il teatro, la letteratura, l’arte) e dei suoi rapporti con il pensiero scientifico moderno. A Milano collabora con la Fondazione Humaniter istituita dalla Società Umanitaria, dove tiene un seminario sulla Cultura della psicoanalisi. Dalla Fondazione «Dino Terra» e dal Comune di Lucca è stato nominato direttore scientifico del convegno internazionale Letteratura e psicoanalisi del marzo 2012. I suoi lavori più importanti sono pubblicati in Italia e in Francia, oltre ad articoli pubblicati in inglese, spagnolo, portoghese, greco e turco. Tra i tanti si ricordano: «L’artista e la follia», in Cristaldi, Miriam (a cura di), Arte come evocazione, L’Uovo di Struzzo, Torino 1990; Inventario di psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1997; «Clinica del ritratto», in Raimondi, Ezio (a cura di), Ritratto della poesia, Quaderni del Circolo degli Artisti di Faenza, Faenza 1998; «Nel nome del padre», Bibbia e Oriente, vol. 43, n. 210, 2001; Fuga a cinque voci. L’anima della psicanalisi e la formazione degli psicoanalisti, Antigone, Torino 2008; «logos. Il ritorno della sapienza antica nell’esperienza della psicanalisi», Kamen’, n. 34, gennaio 2009, pp. 91-131; «Il motto di spirito nei suoi rapporti con la verità», in AA.VV., Atti del Convegno internazionale di studi sull’umorismo, Lucca 6-8 aprile 2009, a cura di Daniela Marcheschi; Appunti per una nuova epistemologia. La psicanalisi, la scienza, la verità, Zona Franca, Lucca 2011; «ובד. Il ritorno della sapienza antica nell’esperienza della psicanalisi», Enthymema, n. 9, dicembre 2013, pp. 334-369; «La psicoanalisi dopo José Ortega y Gasset», Studi Ispanici, Anno 40, 2015, pp. 147-176.
La presente conversazione prende origine dall'uscita dell'ultimo libro di Sias: La Follia ritrovata. Senso e realtà dell’esperienza psicoanalitica, Alpes Italia, Roma 2016.
Doriano Fasoli: Come nasce il suo ultimo lavoro, dottor Sias?
Giovanni Sias: La Follia ritrovata nasce da un articolo di alcuni anni fa, scritto per il blog di un’amica cantante jazz e psicanalista, Laura Pigozzi, in cui affrontavo alcuni temi riguardanti la follia, in particolare in relazione alla musica, e a cui aggiunsi, come sintomo della moderna mentalità intorno alla follia, e in forma di elogio, un paio di pagine sull’autismo. I temi toccati erano la letteratura, in particolare in relazione al lavoro di Giuseppe Pontiggia, la filosofia, il teatro. Era comunque un articolo breve che non approfondiva in maniera sufficiente nessun aspetto. Insomma, un articolo che mi lasciava insoddisfatto, soprattutto per il suo sorvolare sui vari e tanti temi che apriva. Cosa, questa, per me un po’ particolare e fino allora estranea al mio modo di scrivere che si è sempre sviluppato in modo piuttosto omogeneo lungo un solo tema, mentre in questo libro i temi sono molti. Ma soprattutto la riflessione sulla follia, il tema dell’articolo, mi sembrava eccessivamente incompleta e inconclusa.
A riaprire la mia attenzione verso il tema del mio articolo, un paio di anni dopo, o forse anche tre, fu un articolo di un filosofo russo, Vitalij Machlin, pubblicato sulla rivista di letteratura Enthymema, dell’università Statale di Milano, dal titolo «Oltre l’interpretazione», dove l’autore, prendendo spunto dal lavoro scientifico di Bachtin, si fa portatore di una nuova proposta di dialogo fra autore e lettore. Si riaprirono così temi rilevanti del mio percorso di ricerca, come la traduzione, la lettura, il sogno e così via. Insomma i temi toccati nel libro la cui occasione di pubblicazione mi fu offerta da Doriano Fasoli per i tipi di Alpes Italia.
La scrittura restava però sul piano della domanda. Alla fine mi sono reso conto che intorno al tema centrale, la follia, e gli altri temi che in relazione si aprivano, potevo avvicinarli solo per domande; di ciò che mi ero proposto di sviluppare non riuscivo a dire nulla di conclusivo, non andavo oltre il domandarmi, oltre all’articolazione della domanda e l’accostamento dei temi trattati. Alla fine, questo piccolo libro, così diverso da tutti gli altri scritti, mi è risultato forse più soddisfacente, più libero, senza eccessive griglie interpretative che, alla fine, lasciano sempre un testo apparentemente concluso ma anche rinchiuso in un involucro di finitezza. L’apertura della domanda, invece, è resa infinita dall’assenza di risposta, di una risposta univoca. La risposta, in effetti, impedisce quel processo di conoscenza che l’interrogazione avvia. In una esperienza psicanalitica non ci sono risposte, ma una continua articolazione della domanda, spinta sempre a livelli superiori, e cioè l’articolazione della domanda è l’apertura a un’altra domanda più complessa e più impegnativa.
Cosa suggerisce il titolo?
Il titolo richiama, da una parte, una necessità intellettuale. Ovvero la necessità che la follia sia riportata alla sua realtà «storica» e non a una presunta patologia. Che la follia sia una patologia è un affare che nasce e si consolida nelle società capitalistiche, a partire dal Settecento. Su questo piano resta ancora essenziale lo studio di Michel Foucault. Restituirla alla sua dimensione storica, togliendola dal pregiudizio psichiatrico, è uno dei modi, forse il più idoneo, a mettere in evidenza come, nel parlare della follia, si tratti di una questione di mentalità. È il modo, cioè, di mettere a nudo l’handicap intellettuale che ci costituisce quando cadiamo nella superstizione che, nel caso della Follia ritrovata, riguarda le credenze intorno alla patologia psichiatrica o alle risibili affermazioni psicologiche.
In secondo luogo rilevare l’evidenza che la follia è costitutiva dell’umano, e che nasce proprio dall’impossibile sapere dell’uomo su di sé e sul mondo. La follia è il piano della coscienza più profonda di questo impossibile, ed è il modo e il tentativo di gettare una sguardo che va oltre l’apparenza che ci angoscia, ci assilla e ci condiziona. Il piano più proprio della follia è quella facoltà che Freud individua nella Versagung, il rifiuto. E nel caso della follia, la Versagung è una parola che va presa nei termini più radicali. Il no, che oppone un rifiuto, è assoluto, non condizionato né ammorbidito dai verbi servili; non si tratta cioè di verificare di non potere, o non dovere o non volere, si tratta di un no!, totale, assoluto, con tutto il dramma e il disorientamento che questo suono trascina con sé.
Una terza considerazione è che la psicanalisi nasce proprio in opposizione alle superstizioni intorno al modo di considerare la follia. Anzi, già al tempo della protopsicanalisi, e mi riferisco ai casi di isteria riportati da Freud alla fine dell’Ottocento, lo sguardo freudiano era completamente diverso e in opposizione a quello psichiatrico. Si tratta dunque di ricuperare quell’origine, e di ripartire dalla considerazione della follia se si vuole rilanciare la ricerca psicanalitica.
Ho riportato, nel libro, alcuni esempi di questa radicalità, ma anche della apertura e delle chance che la follia porta agli uomini. Ho molto limitato questi esempi. Ma avrei potuto citarne moltissimi, dal Don Quijote a Orlando, da Schreber a Nižinskij ad Artaud e così via.
Ma la questione importante che ho cercato di sottolineare è che la follia è il piano dell’individuazione umana. Il no, il rifiuto radicale che l’uomo porta con sé aprendogli cammini estremi è sempre in connessione con il sapere. Il folle è quello che vede e sa cose che gli altri, i cosiddetti normali, non vedono e non sanno. La questione è antica quanto tutta l’elaborazione sull’umano. È la questione edipica (sul versante greco): in Sofocle è Edipo che vuole sapere: vuole sapere da chi è nato, vuole sapere chi è, contro ogni considerazione che lo sollecita a lasciar perdere. Il suo sapere lo porterà a una vita randagia e senza requie, cieco e solo. Ed è la questione ebraica che si apre con Eva e Adamo dal momento in cui mangiano il frutto proibito, il frutto della conoscenza. È a partire da queste narrazioni che l’uomo scopre di essere un errante sulla terra, dopo essere stato cacciato dal giardino terrestre, o dalla città, originando quella stirpe che sono «gli uomini», costretti all’erranza e all’ignoranza, spinti dalla follia del sapere.
Dunque, è già a partire dall’origine della cultura occidentale che l’interrogazione sulla follia è da sempre connessa al sapere e a un piano che possiamo definire quello della spiritualità. L’opposizione più radicale al sapere, e alla spiritualità che si trascina, è portato dalla donna, dalla madre, o si se vuole dalla metafora della «protezione» e della «sensibilità», in quanto proteggersi dal sapere è il modo di condurre una vita piana che s’illude di essere al riparo dalla follia ma anche evita la «santità». È quel piano per cui Giocasta prega Edipo, se gli son cari gli dèi e la vita, di lasciar perdere, di non indagare oltre. Su questo piano l’eterna Giocasta è sempre all’opera, a dividere l’uomo dal suo possibile, incerto e claudicante sapere, a proteggerlo dalla follia portata dal sapere. Sul piano dell’elaborazione ebraica la cosa è più complessa, perché anche la «sensibilità» concorre al sapere, un sapere a cui i «sensi» partecipano e portano il piano della «spiritualità», e cioè dell’astrazione indotta dal linguaggio, a una immediatezza che chiamerei fisica. Per questo nella elaborazione ebraica la pratica è già teoria, perché il processo della conoscenza è connesso e dipendente dal «mangiare». La conoscenza è in diretta relazione con il desiderio, e qui, sul piano ebraico, la donna gioca una parte completamente diversa dal piano greco, in quanto è lei stessa a istigare la conoscenza.
Ci troviamo dunque, noi umani, in un doppio movimento: non solo il sapere apre alla follia, ma la follia è anche condizione del sapere. È l’atto folle, il folle volo dell’uomo nel voler sapere come può essere nel mondo, e qual è il mondo in cui si trova, essendo il suo un mondo costituito dalle parole con cui lo nomina e lo rappresenta.
I piani più rilevanti in cui la follia si mostra con tutta la sua forza dirompente sono dunque la moltiplicazione del senso (la poesia), e lo scardinamento di ogni senso possibile della lingua, e in cui la parola non serve a niente (musica).
A che tipo di pubblico si rivolge?
Se teniamo conto dei tre motivi presenti nel libro, così come li ho prima descritti, direi che il libro si rivolge a quanti non si accontentano di classificazioni o di facili risposte, da chi ha il desiderio di allontanarsi da luoghi comuni, l’handicap (quello vero!) della nostra epoca.
Direi anche che ho scritto per gli psicanalisti. Ma qui si apre una voragine spaventosa. Dal momento in cui gli psicanalisti si sono considerati dei «curatori», dei «guaritori», dei terapeuti di non saprei dire bene di quali patologie che, appunto, non riguardino la loro mentalità e il senso comune. È anche la loro pretesa di essere riconosciuti per una competenza dalla società. Per questo hanno voluto rientrare nei ranghi offerti loro dagli statuti sociali e legislativi. Il problema è che per far questo hanno dovuto smettere di fare ciò che possono fare e che solo dovrebbero saper fare, e cioè «ascoltare». Dal momento che hanno ottenuto la pretesa «patente» sociale, come quel Rosario Chiarchiaro reso celebre da Pirandello, hanno dovuto abdicare alla loro vocazione e alla loro realtà. Mi auguro che qualche psicanalista mi legga, e anche che voglia discutere, io proverò a propormi ai colleghi in questo senso, con la massima apertura al dialogo, alla polemica, alla revisione.
E poi il libro si rivolge alla generazione che succede alla mia. Vorrei esortarli a non temere la follia, anzi a lasciarla esplodere in tutta la sua potenza dentro queste forme sociali che si presentano nel futuro prossimo e che hanno tutta l’aria di voler essere particolarmente costrittive, oppressive e in cui l’uomo è pensato e «usato» solo come un mezzo per accrescere la potenza della tecnica (coniugata in tutte le sue forme possibili).
Anche qui mi ha sollecitato una domanda di Machlin: perché la contemporaneità non si è realizzata? Intendendo per contemporaneità quella generazione nata nel Dopoguerra, che è quella a cui appartengo. Ecco, vorrei portare alla generazione che mi succede, e che dovrà preparare la prossima, la testimonianza della disfatta di un’intera generazione, che è restata vittima di se stessa, che al massimo si è veicolata attraverso l’epigonismo ma che non ha espresso niente di rilevante, niente di dirompente che la proiettasse nel mondo, e in cui il mondo diventa specchio di tale proiezione. Siamo rimasti inani, prigionieri delle espressioni dei padri senza averne più lo spirito, il coraggio, lo slancio rivoluzionario.
Quella posta da Machlin è una domanda terribile nella sua radicalità. Perché vuol dire che la mia generazione non ha prodotto alcunché di valore, non ha prodotto una teoria del mondo, non ha prodotto mondo; se non si è realizzata vuol dire che è rimasta inane, sterile e quindi il mondo in cui viviamo è più piccolo di quello dei nostri padri, più banale, e noi siamo rimasti prigionieri del nostro nulla, del nostro asfittico epigonismo.
Qual è il suo approccio al disagio mentale?
Non credo di avere un approccio al disagio mentale. Il concetto di disagio mentale mi sembra un po’ ideologico. È un concetto in cui si resta impigliati. L’hanno tirato fuori gli psicanalisti, credo, intorno agli anni Settanta–Ottanta del secolo scorso, con la formulazione di «disagio psichico». Fu un linguaggio, soprattutto in ambito lacaniano, che voleva evitare la terminologia psichiatrica. E devo dire che ebbe un certo successo non solo in ambito psicoanalitico, ma in generale in tutti gli approcci terapeutici, anche psichiatrici. Evitava, è vero, il concetto di «malattia mentale» ma, insomma, continuava a conservarne il sapore, come spesso accade nel linguaggio quando le parole mascherano concetti senza volerli nominare. E cioè se il concetto di follia, essendo storico, non è altro che quello della mentalità di un’epoca intorno alla follia stessa; quello di disagio psichico o mentale continua a conservarlo in sé, in una linea di patologizzazione della follia evitando di chiamare in causa la malattia. Si tratta di una mancata elaborazione della follia e della malattia, dovuta all’incapacità teorica prodotta dall’assenza di ricerca che ha caratterizzato la psicoanalisi e gli psicanalisti dagli anni Sessanta in poi.
Resta, in questo modo, rapportando tutto al concetto di «cura» (si intende cura medica o psicologica), una costante necessità terapeutica che ha dato luogo alle cosiddette relazioni di aiuto, o alle terapie dette di sostegno che, in qualche modo, hanno influenzato anche molti settori della psicanalisi. Insomma si è introdotta una psicanalisi terapeutizzata che risponde a un’ideologia della cura che si sostiene su una logica ortopedica.
In questo senso non aveva torto lo scrittore Giuseppe Pontiggia quando, negli anni Ottanta, individuava nello psicanalista un «retore del vuoto», che è quello che tiene il suo paziente al riparo dalle verità che lo riguardano, lo accudisce, lo ammansisce, lo addormenta, lo protegge. È una sorta di psicoanalisi domestica. E in più diventa una psicanalisi romanzata, condotta sul piano della chiacchiera, che vale allo stesso modo sia sul piano del suo uso nella critica letteraria o d’arte, sia nella scrittura della teoria psicoanalitica. Questi psicoanalisti hanno prodotto una banalizzazione della psicoanalisi, l’hanno trasformata in una pratica in cui tutto, a partire dall’inconscio, sembra addomesticabile, controllabile, conoscibile e anche modificabile secondo quanto richiesto dalle esigenze politiche e produttive del controllo sociale. È il pegno pagato dagli psicoanalisti nel Dopoguerra alle teorie psicologiche dell’adattamento, pegno con cui si sono garantiti il loro inserimento nel mercato delle vacche grasse della malattia.
Ma il desiderio, e la follia che trascina con sé, è l’assoluto disadattato, ed è l’asociale, impossibile da normalizzare. Lacan e Bion in particolare, solo per citare i due analisti che più di ogni altro avevano riportato la questione psicoanalitica alla sua essenzialità originaria, hanno restituito all’inconscio la sua radicalità e hanno rilanciato la teoria nella psicanalisi, rendendola di nuovo, nella sua esperienza, occasione per ritrovare e recuperare la radicalità del desiderio. Ma poi, l’epigonismo ha banalizzato anche loro. Sono stati vanificati soprattutto nei loro richiami etici.
Resta la follia, ed è in quanto apportatrice di verità che va ascoltata. In questo senso è decisamente disagevole. Chi ascolta la chiamata della verità si troverà in una erranza continua della sua vita, incarnerà cioè l’essere più profondo dell’uomo, la sua più autentica condizione di esistenza. Sarà errante, ma mai schiavo. L’incontro con la tragicità dell’umano, e di un destino che non lascia posto alla tranquillità, e cioè all’«essere», mi sembra il tema più profondo e veritiero portatoci da Freud nella descrizione dell’esistenza «psichica». Quando Freud elenca i motivi che lo hanno condotto a scrivere la Psicopatologia della vita quotidiana, e cioè i lapsus, gli atti mancati e così via, a scrivere cioè una «favola» scientifica, non fa che evidenziare questo impossibile dell’uomo a sapere, pur avvertendo che c’è un luogo in cui questo sapere esiste ed è attivo, e costringe al di là di ogni volontà personale in direzioni incomprensibili e spesso anche dolorose, sottolineando come in una economia psichica il tentativo è sempre di economizzare il dispiacere, anche se questo, di solito, non riesce.
Vorrei che si notasse, finalmente, che Freud introduce un concetto inesistente prima, che è quello di «patologia della quotidianità», della vita quotidiana, che non ha niente a che vedere con una psicopatologia umana. Nessuno che io sappia, e neppure gli psicanalisti a partire dalla seconda generazione, hanno tenuto in conto tutto ciò. Si tenga presente un elemento storico, e cioè che pochi anni prima, nel 1886, Krafft-Ebing pubblicò un libro storico, in cui classificò e descrisse le perversioni e in genere le patologie relative alla sessualità. Freud, uscendo dal concetto di una psicopatologia umana, in buona sostanza lo rifiuta e assegna alla quotidianità il carattere di «patologico». È qualcosa, in una società in cui è sempre più trionfante la cultura della medicalizzazione, difficile da intendere e da prendere in considerazione. Ma è appunto qui che si attesta l’esistenza tragica dell’uomo, nel fatto che la «quotidianità» in cui la vita si dipana ci presenta condizioni a cui cerchiamo continuamente di sottrarci, a partire dalla opposizione del bambino all’educazione coatta, familiare o scolastica che sia. Fino alla ribellione estrema dell’adolescente, per il quale solo una sordità idiota ha permesso le assurdità acquietanti della sociologia che conia la teoria del branco. La follia portata dal bambino e dall’adolescente è talmente dirompente e inquietante da richiedere, per avere l’illusione di dominarla, la sua patologizzazione, dalla sua psichiatrizzazione fino alla repressione giudiziaria. Le società borghesi e il modo di produzione capitalistico necessitano della «normalizzazione» degli individui per continuare a esistere. Non a caso le teorie psicologiche e terapeutiche dell’adattamento hanno avuto tanta fortuna, sia in società democratiche, sia nella loro variante dittatoriale. E sempre più il concetto astruso di «normalità» ha permesso la patologizzazione del desiderio e dei sintomi che pongono in rilievo la sua presenza. Sempre più le società sembrano richiedere esseri senza desiderio. E questo è il segno della deriva autoritaria delle società del nostro tempo, dove il pericolo (per l’uomo intendo) più grande è la libertà. C’è un’ampia letteratura di ordine narrativo o poetico, teatrale e cinematografico a questo proposito. Narrativa e poesia hanno saputo mettere bene in rilievo questa condizione umana e la sua imprescindibilità nella vita.
È il desiderio che richiede l’esistenza del concetto di follia, ed è il motivo essenziale per cui l’esistenza è tragica in tutti i suoi aspetti. E non basteranno certo le grottesche della psicologia o le repressioni della psichiatria a modificare questa realtà.
La Follia ritrovata è un libro di domande senza risposta, un libro che non propone soluzioni né consiglia prescrizioni di sorta. Qual è il suo pubblico ideale?
È la generazione nata alla fine del Novecento, la generazione dei miei figli, per intenderci. Pongo delle domande, senza avere la pretesa di risolverle. Anche perché la mia generazione, quella nata nei primi anni del Dopoguerra, quella della ricostruzione prima e del Sessantotto poi, ha rincorso le risposte, gli adeguamenti a risposte condivise. Non che questo sia in sé negativo, solo che le risposte si sono rivelate adeguamenti del pensiero. Che si trattasse di Lacan, di Heidegger o di de Saussure, beh, sembrava che le risposte fossero già tutte lì e che fosse sufficiente riproporle tali e quali. Nessuna domanda, niente ricerca, solo pensieri già pensati a cui sembrava sufficiente adeguarsi. Ancora oggi è così e, come nella seconda metà del Novecento, gli autori che aprono problemi con le loro domande non sono apprezzati, mentre gli epigoni, sostenuti mediaticamente, sembrano essere particolarmente apprezzati. Ripetere una risposta già data è particolarmente tranquillizzante perché la ripetizione dà a quella risposta una parvenza di verità, e di riconoscimento. Ma lo psicanalista, se si fonda sulla sua esperienza di ascolto, non è colui che ripete cose già dette, ma è chi elabora quel linguaggio che consente di esprimere ciò che non è ancora stato detto. Nella scrittura vale per un analista esattamente ciò che è il lavoro degli analizzanti.
Sembrava, al tempo della mia formazione, all’inizio degli anni Settanta, nel pieno del vigore dello strutturalismo, che questo desse a noi giovani ventenni, attraverso i suoi nuovi e rivoluzionari maestri, l’esaltato contatto con la nuova verità, o meglio quella nuova illusione di verità. Ne eravamo tutti pregni, discutevamo di strutture e di significanti, quei maestri ci sembravano insuperabili e non avevamo nessuna possibilità di discuterli. Eppure in quel 1970 Gershom Scholem scriveva inascoltato: «La grande crisi del linguaggio che stiamo vivendo consiste allora nel fatto che anche l’ultimo lembo di quel mistero – il mistero che nella lingua aveva un tempo dimora – ci risulta inafferrabile. I cabbalisti ritenevano che la lingua potesse essere parlata in virtù del Nome che è presente in essa. Ma quale sarà la dignità di un linguaggio dal quale Dio si è ritirato? Questa è la domanda che si deve porre chi ancora crede di percepire l’immanenza del mondo, l’eco della parola della creazione, ormai scomparsa». Ma sembrava, allora, che nessuno potesse cogliere la radicalità di una tale domanda. Anzi, ci sembrava che costui vaneggiasse, forse non aveva letto Lacan o Lévi-Strauss.
E per questa via, la via che evita la domanda, ci siamo isteriliti, e per quel che riguarda il campo psicanalitico non c’è stata più ricerca né autentica formazione degli analisti. Sembrava che tutto fosse già stato detto. La risposta soddisfaceva ogni tensione al cercare, al trovare, al pronunciare una parola propria.
Io stesso fui preso nella rete, e sembrava che non dovessi cercare altro avendo già tutto. Bastava leggere quei libri, seguire quei maestri.
Poi, a metà degli anni Ottanta feci un incontro che avrebbe sovvertito completamente il mio pensiero e anche la mia vita. Conobbi, a Parigi, Edmond Jabès. Non mi resi subito conto dell’importanza di quell’incontro. Nel tempo lessi poi i suoi lavori, tutti, sia in francese che nella traduzione italiana. Libri carichi di domande, interrogativi insolubili che lanciavano il lettore in un infinito carico d’inquietudine in cui l’ospitalità, prima fra tutte l’ospitalità della lingua, era sempre al centro della riflessione. A quell’epoca non avevo ancora compreso la radicalità della domanda e la sua apertura verso un’infinito impossibile da contenere nella risposta, e non avevo ancora portato la mia riflessione sul «tragico» che è la via che ho poi percorso nella ricerca teorica e che devo interamente all’incontro con Jabès.
Più tardi conobbi lo scrittore italiano Giuseppe Pontiggia a cui mi legai per molti anni in amicizia e insegnamento, e da cui ho tratto molto della mia riflessione sul linguaggio. La lettura, poi, di Mario Lavagetto aprì porte davvero insperate ancor prima dell’incontro con lui. Ecco la mia formazione di psicanalista, quella in cui oggi mi riconosco procede da questi personaggi, forse più di quanto la debba agli psicanalisti che mi sono stati maestri. Non che non li riconosca, e non abbia nei loro confronti la gratitudine dell’allievo, ma l’apporto di quei tre studiosi che ho citato è stato davvero determinante. La loro frequentazione, l’ascolto della loro parola libera ha aperto a me le porte di una libertà di pensiero e di scrittura che non avrei osato immaginare prima di sperimentarla.
Posso dire di avere imparato molto dagli amici, dalla lettura dei loro lavori come dalla discussione con loro. Oltre agli autori citati ricordo Giancarlo Ricci (che è stato il mio primo analista, di grande libertà e onestà intellettuale, e scrittore di grande leggerezza a differenza dei tanti analisti che mi è capitato di leggere), Fabrizio Scarso e Gigi Odone, Moustapha Safouan, Michel David, Giangiorgio Pasqualotto e Carlo Sini, Amedeo Anelli e Daniela Marcheschi, Daniel Bonetti e Jacques Nassif, e molti altri ancora. Posso dire di avere imparato da ciascuno di loro. Ai quali aggiungo una vasta letteratura che per me è stata importante. Fondamentale è stata, sul piano della riflessione filosofica, l’opera di Ortega y Gasset, poi quella di tanti autori da Bachtin a Blanchot, da Propp a Foucault, Nietzsche a Pessoa e all’opera in prosa di Leopardi, Benjamin e Scholem, l’immensa letteratura sui Presocratici e sui sapienti ebrei, in primo luogo quella dei profeti, e poi, in particolare, l’opera di Giorgio Colli e le sue riflessioni sulla filosofia, così come le nuove e rivoluzionarie etimologie di Giovanni Semerano. Letterati, poeti, psicanalisti, matematici… la mia formazione nel tempo ha percorso queste vie.
All’inizio degli anni ’90 incominciai a tenere una serie di seminari all’Università di Genova, prima alla cattedra di Psicologia dello sport, tenuta da uno psicanalista, Gigi Odone, che mi chiamò all’insegnamento, e poi in specialità, a Psicologia clinica. Uno di questi seminari, credo quello dell’anno 1993, fu dedicato al caso di Dora. Mi accorsi allora che qualcosa era cambiato. La mia lettura, pur coerente con il testo freudiano, aveva qualcosa che riguardava un cambiamento nel mio percorso di lettore e che, intesi più tardi, era un effetto della mia frequentazione di Pontiggia. Mi accorsi che il mio pensiero era più libero, non richiedeva più una fedeltà formale al testo freudiano ed era in grado di sviluppi personali, in particolare sul concetto di «interpretazione», che non avrei pensato possibili fino ad allora.
Dopo l’incontro con Pontiggia e con Lavagetto, a metà degli anni ’90 incominciai a scrivere il mio primo libro, Inventario di psicoanalisi, pubblicato dall’editore Bollati Boringhieri. Era la scrittura di quel seminario di Dora tenuto all’università. La scrittura apriva davvero possibilità non ancora contemplate, e la lettura di Lavagetto permetteva incontri inediti con il testo freudiano. Il primo a leggere quei testi e a sostenermi fu Michel David, che all’epoca viveva a Genova e con cui avevo stretto un’amicizia discreta, direi quasi ottocentesca. Fu un periodo formidabile per me. La psicanalisi si apriva alla mia comprensione come non avrei mai sospettato.
Dora era il tragico della vita che si squadernava davanti ai miei occhi con evidenza lampante. Nella scrittura ritrovai quei tratti e i cinque capitoli che si succedettero riempivano e davano senso al mio percorso.
L’esperienza della psicoanalisi come incontro con il tragico. La psicanalisi come ritorno del rimosso dell’Occidente. La psicanalisi come reintroduzione del tragico nella civiltà occidentale al tempo del pensiero scientifico. L’interpretazione sganciata dalle suggestioni ermeneutiche e ricondotta all’esperienza teatrale. Questi i temi essenziali di quel primo libro che ebbe una sua piccola fortuna, in particolare fra letterati e filosofi, poco fra gli psicanalisti, sia in Italia che in Francia. Ma questi sono anche i temi essenziali della mia ricerca, coniugati in vari lavori da allora in avanti, sia in lingua italiana che francese e spagnola.
La riflessione intorno alla produzione storica della psicoanalisi, per quanto la riguarda, su quali autori si è concentrata?
Su pochi autori, comunque a lungo esplorati. In primo luogo l’opera di Freud, la cui lettura non smette di aprire temi e riflessioni. Vi riconosco certo anche alcune problematicità, in primo luogo una tendenza terapeutica che non mi ha mai convinto. Certo, occorre con Freud riconoscere almeno tre stagioni della sua opera. La sua grandezza è stata appunto quella di aver saputo sempre rincominciare e rivalutare le sue osservazioni. Ma è indubbio che si trascinasse fra un versante medico e uno più propriamente spirituale. E questo è dato dal fatto che entrando per strade mai prima di allora percorse non sempre sapesse, o si rendesse conto, delle derive. Ma la meditazione sul suo testo resta per me imprescindibile. E questo credo che sia sufficientemente evidente in tutta la mia produzione letteraria. Inoltre la meditazione sull’ebraismo mi ha concesso di rivalutare molto le metafore freudiane, che sono pregne di cultura ebraica oltre a ogni intenzione del suo autore. E questo vale anche per il senso della pratica della psicanalisi. A questo c’è da aggiungere che con l’introduzione della psicanalisi Freud spinge all’inverosimile l’introduzione della cultura giudaica nell’Occidente e anche nel pensiero scientifico. Con Freud, e questo è completamente interno al giudaismo, la pratica è già teoria, riflesso di quella teoria della conoscenza che procede dal «mangiare». Infatti la psicanalisi è solo ed esclusivamente una pratica. Per questo la psicanalisi non è filosofia perché, anche se la teoria non può astenersi dalla riflessione filosofica, non è su questa che si sostiene ma sull’esperienza concreta e materiale della vita. Per intenderci la psicanalisi non è un «punto di vista» sull’inconscio, il sintomo e così via. La psicanalisi è essenzialmente ed esclusivamente un «incontro», un appuntamento. Un incontro con la materia di cui si vive. Per questo più di una volta, e con molte resistenze da parte degli analisti, ho affermato che la psicanalisi in quanto tale non esiste, nel senso che non è affatto quella prodotta dal testo di un analista. Ma di psicanalisi ce ne sono infinite, almeno una per ogni analizzante, in quanto l’analizzante è colui che la «produce». A questo punto il testo di un analista (e qui ritorna la scrittura di Freud in tutta la sua estensione e potenza) non è che una interrogazione intorno a quanto si dispiega in una esperienza (e voglio sottolineare il termine) di analisi. Infine il testo freudiano è stato la reintroduzione del tragico nel tempo della scienza e nella civiltà occidentale, e questo è il motivo della sua fortuna, dell’enorme interesse e coinvolgimento che nel tempo ha destato nelle diverse frange dell’intellettualità artistica e scientifica.
Successivamente, almeno a partire dal congresso di Parigi del 1938, tutto ciò non fu più contemplato ed è stato l’inizio della deriva del discorso psicanalitico e dell’allontanamento della psicanalisi dalle istanze più progredite della ricerca artistica e scientifica. Deriva legata a uno scivolamento prodotto dalla psichiatrizzazione della esperienza analitica, attuata con l’assunzione di un linguaggio gergale.
Se in qualche modo ho colto la centralità dell’analizzante in ogni esperienza (e voglio continuare a sottolineare il termine) psicanalitica, questo lo devo alla riflessione intorno all’opera di Ferenczi che si opponeva a Freud e alla sua volontà attiva (e anche al suo linguaggio medico) nella conduzione dell’analisi. È stato Ferenczi il primo (e all’epoca anche il solo) a contestare a Freud la sua pratica, sostenendo appunto che il paziente non è affatto un soggetto passivo, che riceve, per così dire, le cure, ma è il soggetto attivo di un’esperienza analitica; cosa che ho tradotto come il personaggio che agisce nel romanzo, o l’attore che interpreta dal palcoscenico. Un collega di Strasburgo, allievo di Winnicott, anni fa scriveva che l’analizzante è come un personaggio in cerca del suo palcoscenico (o della sua pagina).
Parliamo ora della sua formazione: come si è svolta?
La mia formazione si è svolta tutta in ambito lacaniano, nella durata di almeno un quindicennio con riprese successive, quindi in un modo che si potrebbe definire «classico». Lacan è stato il più fertile lettore di Freud, e la sua fertilità è dovuta al fatto che ha commisurato il testo di questo alla sua esperienza clinica e intellettuale. Gli epigoni ne hanno fatto una divinità, togliendogli così tutta la potenza e la sapienza infusa nella sua opera, ma questo non vieta il richiamo a una lettura attenta e, soprattutto, interrogante del suo testo.
Nel tempo a Lacan ho aggiunto un altro autore che per me è stata un’autentica rivelazione, e cioè Bion, la cui interrogazione clinica e teorica ha qualcosa di dirompente nell’ambito psicanalitico. La potenza dei suoi ultimi tre libri (Memoria del futuro), poco letti e ancor meno meditati dai suoi epigoni, hanno qualcosa di travolgente e sono sul piano letterario un’autentica novità nel campo psicanalitico, oltre che di una qualità quasi irraggiungibile. Più o meno come il testo di Lacan che venne qualificato da Éluard con la definizione di «poesia involontaria». Questi due autori hanno avuto la forza intellettuale di rielaborare il testo freudiano senza aver bisogno di ripeterlo: di elaborare un loro proprio linguaggio e, ultimo non ultimo, di rielaborare la teoria psicanalitica sulla scorta della loro esperienza clinica.
L’attenzione verso questi autori, la cui discendenza, o comunque la profonda attenzione all’opera di Ferenczi è abbastanza evidente, mi ha condotto verso le riflessioni che sono state al centro della mia ricerca.
Ai quali voglio aggiungere i testi dell’elaborazione di Moustapha Safouan che ha saputo, a mio avviso, portare l’elaborazione lacaniana al suo più profondo senso etico e che ha tenuto sempre uno stretto contatto con il testo freudiano. Non a caso è considerato il più freudiano dei lacaniani. Il suo richiamo costate alla necessità della ricerca, in un tempo in cui gli analisti si preoccupano solo di organizzazione, è stato per me un richiamo importante. Così come L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari mi ha concesso riconsiderazioni importanti intorno all’inconscio, e di prendere una certa distanza dalla formulazione strutturalista di Lacan, e mutuata da Lévi-Strauss, di un inconscio strutturato come un linguaggio.
Verso quale direzione muove ora la sua ricerca?
La direzione su cui ora muove la mia ricerca è relativa a due filoni essenziali, fra loro intimamente connessi e che riguardano lo specifico dell’esperienza analitica e della formazione degli analisti. Temi che nascono e che si sviluppano a partire dalle riflessioni sull’inconscio e sull’interpretazione. Quest’ultimo, in particolare, è quello che più ha caratterizzato l’elaborazione che maggiormente mi ha distinto dalle posizioni dei miei colleghi, e spesso anche dall’uso di luoghi comuni. Erano gli anni in cui abbandonavo lo strutturalismo dopo aver rivolto la mia attenzione alla «morfologia della lingua» sulla scorta di alcune indicazioni di Pontiggia, in particolare con lo studio di Propp e Bachtin. Ma anche in relazione a una necessità di approfondire il pensiero sapienziale ebraico, in particolare il giudaismo antico e classico, attraverso i profeti antichi e, soprattutto, i sapienti medievali e rinascimentali sotto lo stimolo dei grandi lavori di Scholem e di Giulio Busi. E poi la lettura di Benjamin che aprì luoghi davvero importanti, e per me anche esaltanti sulla lingua e sul linguaggio.
Certo, i miei riferimenti filosofici e culturali non furono un’abbandono delle elaborazioni che mi hanno preceduto e su cui mi sono formato a partire dal testo di Freud, ma l’occasione per un loro ripensamento, un riferirmi alla tradizione psicanalitica potendola ampliare, arricchendola di altri possibili significati, attraverso ciò che mi si mostrava nell’esperienza clinica: un tentativo di rileggere la tradizione non più a partire dalle categorie fissate e in uso, quanto da un tentativo di ricerca e di elaborazione della mia esperienza.
Da quando, nella metà degli anni ’90 del secolo scorso, intesi che l’autentica interpretazione è quella dell’analizzante, e che il sogno, nel suo racconto e in quanto sognato, è già un’interpretazione, la logica dell’interpretazione teatrale mi è parsa evidente. E così via. D’altra parte se si pensa che tutta l’elaborazione freudiana di quella esperienza che va sotto il nome di psicanalisi è contenuta all’interno di due nomi, Edipo nell’avvio e Mosè nella sua conclusione, questo avrà pure un senso, così come il lascito del testamento intellettuale di Freud, letto dalla figlia Anna al Congresso di Parigi del 1939, è contenuto in una frase che richiama il trionfo della spiritualità sulla sensibilità, che sta fra le conclusioni teoriche del suo Mosè. Ebbene, se vogliamo capire tutto ciò e dargli un senso nella nostra pratica si dovrà pur procedere alla ricerca di ciò che questo significa.
È a partire da questi elementi che la mia ricerca di questi anni si svolge su due piani che sono fra loro connessi. Il primo è quello sapienziale, ovvero intorno a quella esperienza della conoscenza che procede dal piano dell’ignoranza, e in cui filosofia e religione si sono opposte fin dal loro inizio. Ecco, direi che le domande della psicanalisi sono completamente differenti dalle risposte filosofiche e religiose. Come cogliere tutto ciò e tradurlo in esperienza pratica? Da qui i miei studi sulla sapienza antica, prefilosofica e non religiosa sia sul versante greco, i Presocratici, sia su quello della sapienza ebraica.
Sono in attesa della traduzione francese del mio lavoro sulla sapienza ebraica. Quello sulla sapienza greca è già stato tradotto in Francia nel 2013 e di cui è uscita in questi giorni la ristampa nei tascabili. Ora sto riunendo i due scritti in un unico libro sia in italiano sia in francese che dovrebbe essere pronto per la fine dell’anno o per l’inizio del prossimo.
È stata un’esperienza particolare in quanto questi due scritti sono nati come studi preparatori per un altro libro sulla formazione degli analisti, che è stato pubblicato nel 2008 dall’editore Antigone di Torino con il titolo di Fuga a cinque voci. La cosa curiosa è che questi due studi preparatori hanno avuto molta più fortuna del libro per cui erano stati elaborati. Il saggio sulla sapienza greca riguarda il logos ed è uno studio su Eraclito condotto sulla traduzione, in particolare, di Giorgio Colli; quello sulla sapienza ebraica riguarda il davar e si basa sulle traduzioni di Busi e di Scholem. Questi testi, a differenza di altri, come Empedocle e Parmenide per esempio, non trovarono un loro posto nell’economia del libro. Sono diventati, cioè, un altro libro, che si discosta da quello precedente per la sua attenzione ai temi del linguaggio e dei suoi rapporti con il reale e con la realtà.
Un altro filone di ricerca, connesso al precedente in quanto procede da Edipo, è quello intorno alla libertà in opposizione alla democrazia. È un tema più politico e filosofico, forse, anche se l’aggiunta di una enorme bibliografia ragionata mi sembra renda, almeno per ora, una complessità e una interrelazioni di discorsi che, almeno a me che lo sto scrivendo, appare particolarmente impegnativa.
Infine sto raccogliendo le lettere sulla psicanalisi scritte in un quindicennio, fra il 2000 e il 2015, italiane, francesi e spagnole, e che dopo una rivisitazione e qualche correzione, pubblicherò in un unico volume e nelle tre lingue in cui sono state scritte.
Qual è lo stato attuale di salute della psicoanalisi?
Ragionare sullo stato di salute della psicanalisi mi sembra piuttosto complesso. Direi che non sta per niente bene, e questo vale per tutta l’Europa. Qualche spunto interessante sta arrivando dall’America Latina, Brasile e Argentina in particolare. In Europa ci sono alcune situazioni, in Italia, in Francia e in Belgio, di un certo interesse, anche se non sono situazioni di grandi numeri.
Complessivamente la psicoanalisi, e con questo termine mi riferisco solo a quanto tradizionalmente chiamiamo psicoanalisi, e cioè qualcosa che ha a che vedere con il percorso esperienziale di un analizzante e, insieme, anche a una cultura di tutta la società, della scienza, dell’arte, così come si è prodotta in particolare fino agli anni Settanta del secolo scorso. Ora la situazione è radicalmente cambiata, e la psicanalisi è accettata e pensata solo come terapia, col nome appunto di psicoterapia, dove non c’è più ricerca né formazione, se non in casi abbastanza rari e presso alcuni, non molti per la verità, psicanalisti rimasti legati alla tradizione. Questi analisti lavorano, in particolare in Italia, con grandi rischi soprattutto negli ultimi anni, da quando la magistratura ha optato per una visione della psicanalisi quale cura medica e di particolari patologie. Naturalmente, su questo piano, Karl Kraus aveva perfettamente ragione. Solo che i magistrati probabilmente non conoscono Karl Kraus. Questo snaturamento della psicanalisi in terapia sta ostacolando la ricerca. Di tutto questo, naturalmente, la magistratura non ha colpa. La responsabilità è interamente da ascrivere agli psicanalisti, sia per essersi risolti a essere soltanto epigoni, cosa che li ha portati a interrompere la ricerca perché credevano di avere già tutto a disposizione, detto e scritto dai maestri, sia perché non si sono opposti alla medicalizzazione che richiede protocolli e gestione di informazioni e che non hanno niente a che vedere con quanto si è storicamente elaborato come psicanalisi. Quasi tutto ciò che va sotto il nome di psicanalisi non ha niente a che vedere con essa, è solo un nome che non contiene nulla. Di fatto è tutta psicoterapia, compresa quella che va sotto il nome di psicoterapia analitica. Questo significa che quanto oggi socialmente è indicato come psicanalisi partecipa della grande famiglia delle psicoterapie che è ricca di 364 (sembra incredibile) famiglie, e tutte che promettono benesseri miracolosi e garantiscono le loro illusioni. È incredibile il potere di lusinga del mercato.
Alcuni spunti innovativi, ancorché deboli, in questi anni si sono comunque prodotti e sono un tentativo di rielaborare sia il linguaggio sia la modalità di incontro. Da molti anni, per esempio, partecipo a un’esperienza che vede coinvolti psicanalisti di area omogenea (il Mediterraneo) e che raccoglie analisti italiani, francesi e spagnoli. Non si è in molti, una settantina, ma si è dei singoli, per quanto si possa far parte di associazioni. Ma lì in quell’esperienza, all’Area Mediterranea di Psicanalisi, si va a parlare per se stessi e non in nome di una associazione, di una idea o di una causa, e ci si gioca la propria esperienza nel confronto con esperienze di un’area omogenea di linguaggio attraverso il grande sforzo, e anche la sfida, a cui ci costringe la lingua. Si tratta di parlare nella propria lingua e di ascoltare nella lingua dell’altro. Cosa decisamente molto impegnativa e che porta ciascuno dei partecipanti a una costante rielaborazione del proprio linguaggio. Inoltre non è un’associazione ma un tempo di incontro in luoghi sempre diversi, e uno stile di lavoro in comune.
Un’altra esperienza interessante sta partendo da Torino e sta coinvolgendo alcune associazioni in Italia, per ora sulla traiettoria Milano-Firenze, che sono interessate alla formazione dell’analista, come formazione sia culturale e sia clinica.
Anche sul piano letterario troviamo piccole cose ma importanti perché, anche se non dispongono di attenzioni mediatiche, hanno un loro rilievo nella circolazione fra analisti. Mi riferisco in particolare ai lavori del francese Jacques Nassif (che sto traducendo e cercherò di far circolare in Italia) o del belga Daniel Bonetti che è stato in grado di parlare della clinica attraverso dei piccoli racconti di casi, in cui il linguaggio si attesta su un versante quasi poetico e la lingua non si spertica in ripetizioni quasi protocollari di concetti presi par cœur, libro che ho tradotto e che sarà a disposizione già alla fine di maggio. Ci sono, insomma, delle scritture decisamente innovative che fanno sperare, sia pure in tempi non brevi, a una ripresa della ricerca psicanalitica. A questi vorrei aggiungermi anch’io dove i mei testi circolano, sia in paesi francofoni e anche in lingua spagnola, portoghese e inglese, oltre a un testo in lingua turca frutto di un convegno franco-turco tenuto a Istanbul nel 2009 dalla prima e quasi nascente associazione psicanalitica turca affiliata all’I.P.A.
Non ultimo il lavoro ormai sessantennale di quel maestro che è Moustapha Safouan che ci ha sempre sollecitati alla ricerca e a non rincorrere temi solo organizzativi, e soprattutto a non attestarci unicamente sui maestri, perché il linguaggio nella società è in continuo movimento e trasformazione.
Insomma, abbiamo segni, semi che speriamo possano crescere e maturare. Con lavoro da contadini e senza nessuna garanzia di frutti; ma devo dire che in questi anni bui è una speranza che tiene acceso il nostro desiderio e lo rilancia anche con un certo entusiasmo, e anche se sappiamo che non avremo mai finito di rielaborare il discorso psicoanalitico. Là è il nostro desiderio, anche se è una battaglia perduta.
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