Cristina Chiarato è laureata in Filosofia e in Psicologia e si è specializzata presso la Scuola di formazione de «Lo Spazio Psicoanalitico» di Roma. È psicoterapeuta e per oltre trenta anni è stata psicologo dirigente in un Servizio Materno Infantile di Roma. È autrice di diversi articoli pubblicati su riviste scientifiche. Bambini ad oltranza (pubblicato in questi giorni dalle Edizioni Polìmata) è il suo primo libro.
Doriano Fasoli: Perché ha deciso di scrivere questo libro, dottoressa Chiarato?
Cristina Chiarato: Nella mia esperienza clinica ho incontrato molti genitori incerti, incastrati in dinamiche che li facevano sentire in balìa dei figli; impotenti rispetto a bambini che giudicavano ingestibili; incapaci di dare regole e confini, quando non angosciati dal sentire che la presenza del figlio è per sempre. E, di conseguenza, mi sono occupata di bambini, anche molto piccoli, confusi, rabbiosi, ‘viziati’, sempre più richiedenti, bulimici di cose, insonni. Ho ascoltato tanti adolescenti o giovani incastrati in climi famigliari fusionali che, seppure vissuti con una sensazione di protezione, in realtà privano di autonomia e da cui è molto difficile, o almeno molto complicato, uscire. Ho visto coppie che si formano, quando si riescono a formare, con legami molto precari, spesso vivendo la propria autonomia come un ‘tradimento’ rispetto alle famiglie di origine, quasi colpevoli dei propri distacchi.
Dunque ciò che mi appare, sia a livello dei singoli individui che delle coppie, e anche della società – mi riferisco alla società attuale occidentale, – è una sorta di ‘mutazione’, di cui non è possibile precisare l’origine temporale, che si esprime in vari modi, sintomi, segnali. È l’epoca, ad esempio, nella quale si tende a rallentare la crescita dei grandi e ad accelerare quella dei bambini, limando così le differenze generazionali e proponendo rapporti alla pari che generano confusione; nella quale tende a prevalere l’imperativo del godere, di un forsennato carpe diem, piuttosto che l’impegnativa costruzione dell’amore; e nella quale, quindi, prevale il rimpiazzo, la rapida sostituzione del partner, quando una coppia non funziona, anziché la riparazione del legame.
Nella quale l’agire, sempre più spesso, prende il posto del pensare, del sostare a riflettere, ‘preferendo’ lo scarico immediato di una tensione: ne sono eloquenti esempi i terrificanti fatti di cronaca che quotidianamente si presentano come una terribile e agghiacciante impossibilità a elaborare un dolore, una perdita, una separazione. Nella quale, mentre si rincorre lo smantellamento di tanti tabù, sembra al contrario rafforzarsi il tabù della separazione, vissuto come il tradimento dell’illusione di un limbo eterno in cui non si cresce. Eccoci al punto. Sono state tutte queste riflessioni scaturite dalle delineate esperienze cliniche che mi hanno indotto a scrivere e riassumere l’anima del mio scritto in tre parole: Bambini ad oltranza.
È certo che, di per sé, l’infanzia non è una malattia. Rischia, però, di diventarlo se psichicamente viene protratta ad oltranza, se si proclama una sorta di sciopero, che la stessa parola evoca, dalle ‘fatiche’ del crescere. Perché crescere è un lavoro costante, è una continua modificazione degli assetti precedenti, è l’attraversamento delle varie fasi della vita, è, fondamentalmente, l’abbandono dell’illusione onnipotente di non dover fare i conti con al separazione, il dolore, lo sforzo, l’impegno, i limiti, che troppo spesso vengono identificati con il trauma.
Con quale intento l’ha scritto?
Come dicevo, sia per le esperienze maturate nei tanti anni in cui ho lavorato nelle varie istituzioni pubbliche, quali Servizio Materno Infantile, Consultorio Famigliare, rapporti col Tribunale dei Minori, e sia per le molteplici osservazioni su ‘che cosa ci sta succedendo?’, ho sentito l’esigenza, ma anche l’urgenza, di una riflessione collettiva, di uscire dal piano della risposta individuale a un problema individuale, anche se ritengo fondamentale che il singolo in difficoltà sia ascoltato, compreso, aiutato. Se monta la marea nera, è utile ripulire le ali del cormorano dal catrame, cercare di rimetterle in moto perché riprenda il volo, ma non basta. Bisogna anche fare qualcosa per fermare o quantomeno circoscrivere il disastro della marea o, meglio ancora, prevenire possibili futuri inquinamenti.
Fuor di metafora, i sintomi individuali e sociali sono inquietanti, forte è il rischio di una deriva perversa nelle relazioni, nel modo di concepire se stessi e gli altri, dove il potere, l’uso, il commercio dell’altro si stanno proponendo come ‘valori vincenti’. A questo proposito Meltzer scrive: «L’essenza del modo perverso di relazione consiste proprio nel trasformare la relazione d’oggetto in relazione di potere.». L’impressione generale è, dunque, quella di una ‘maniacalizzazione’ dell’esistenza, una sorta di parossistico vivere alla ‘si salvi chi può’ anche in relazione ad un futuro che spesso ha connotazioni di incertezza, quando non di degenerazione ambientale, sociale. Penso, di conseguenza, a una psicoanalisi che ‘scende dal lettino’ o, forse, che ‘esce dalla stanza d’analisi’, pur conservandone tutte le caratteristiche e non snaturando il suo valore, che è clinico ma anche di ricerca. In questa direzione P.-C. Racamier (Lo psicoanalista senza divano, per citare un suo testo) è stato un grande punto di riferimento, di suggestione.
Quale è l’oggetto del libro?
Come si può percepire da quanto ho detto sin qui, ritengo che attualmente sia sempre più diffusa, sia a livello dei singoli individui e sia delle famiglie e, quindi, della società, la tendenza-tentazione a nutrire l’onnipotenza o la sua illusione, invece di elaborarne la perdita. Un fattore incrementante è l’accelerazione che hanno portato le tecnologie, che sono diventate grandi complici nello sdoganamento del ‘si può fare’, ‘che problema c’è?’, che ci seducono nell’area dell’onnipotenza, anziché aiutarci a farne il lutto.
Ma «lutto» che vuol dire? E «lutto» di che cosa?
«Il lutto originario,» come scrive Racamier in Il genio delle origini, «è il processo psichico fondamentale per il quale l’Io, fin dalla prima infanzia, prima ancora di emergere fino alla morte, rinuncia al possesso totale dell’oggetto, compie il lutto di un’unione narcisistica assoluta e di una costanza dell'essere indefinita e, tramite questo lutto, che fonda le sue stesse origini, opera la scoperta dell’oggetto e del Sé e inventa l’interiorità.» Il lutto è, dunque, l’uscita dalla dimensione onnipotente, quella dell’illusione di non avere limiti, confini, inizio e quindi fine, e il conseguente ingresso nella realtà vera di noi stessi e quindi dell’Altro.
Quando osservo la difficoltà o l’incapacità di dare regole, confini, limiti ai bambini, penso che siano allevati nell’illusione onnipotente di poter far tutto, di poter avere tutto. Una sorta di ‘bolla onnipotente’. Quando ascolto coppie che non riescono a slegarsi dai legami infantili con le rispettive famiglie di origine, penso che stiano costruendo tra loro un rapporto molto faticoso e costoso, pur di non affrontare il lutto. Come ci si può scegliere, legare nella libertà, se si è condizionati dal non poter lasciare la postazione infantile, pena, come troppe volte ascoltato, l’angoscia del ‘tradimento’ dei propri genitori? Quando vedo generazioni confuse, che slittano una dentro l’altra, penso che, troppo spesso, si vogliano evitare i confini generazionali e, così, si generino situazioni in cui nessuno riesce a stare al proprio posto, nella sana alternanza dei cicli della vita, e in cui i rapporti tendono a diventare alla pari, in una falsificazione interpretativa dei ruoli. Quando ‘soffro’ vite di bambini e ragazzi intrappolati nelle esigenze narcisistiche di un genitore che li pretende non autonomi, penso ad una richiesta di unisono narcisistico, che non concepisce la separazione, ma spesso solo il distacco espulsivo o la sua minaccia.
Quando la società lima in modo forsennato i confini, pretendendoli solo come espressione del progresso, penso che sia un modo di evitare il più possibile il lutto. E a livello del singolo individuo, le declinazioni dell’illusione onnipotente sono varie: si trovano nell’escursione tra «sono un dio o una nullità» oppure, nella relazione con l’altro: «sei tutto mio/a o niente» o, ancora, «senza di te non vivo» o, il suo contrario, «mi basto da solo». In questa prospettiva Adamo ed Eva possono rappresentare la ribellione ai limiti posti dalla condizione umana. Con il desiderio di mangiare l’unico frutto proibito, quello della conoscenza, esprimono il desiderio dell’umanità, fin dalle origini, di essere come Dio, l’Onnipotente, per avere tutti i poteri, non ultimo quello di sconfiggere la morte. Dunque, il peccato originale è identificabile con il desiderio di onnipotenza ed è il ‘segno’ della ribellione della ‘creatura’.
Che significa il lavoro del lutto?
Il lutto non è la ricerca del giusto mezzo, perché nella dimensione dell’assoluto il giusto mezzo non esiste e non è neppure un compromesso: è l’uscita da tale dimensione «È possibile che il lutto originario non sia altro che una seconda e lunga nascita,» scrive Racamier. Il lavoro del lutto, così come lo definisce Racamier, è una vera e propria nascita psichica, è l’uscita dall’ingaggio onnipotente. In questa ottica, il lavoro del lutto sembra l’unica possibilità per uscire dalla dialettica dell’assoluto, che oscilla tra il tutto e il niente, come ad esempio nelle relazioni fondate sul «non vivo senza te» o al contrario sul «non ho bisogno di niente e di nessuno», e cioè essere incollati all’altro per avere un senso o esserne assolutamente distaccati per non perdere l’identità. L’uscita è concepire e poi sperimentare, con autentico travaglio, che esiste l’alternativa a tale dinamica che inchioda nella ripetitività, alternativa che promuove un vero movimento verso se stessi e verso l’altro per arrivare a concepirsi in proprio, protagonisti della propria storia e non succubi del destino.
Se il lavoro del lutto non si mette in moto, nell’individuo e poi nella coppia che si forma, si perpetuano climi fusionali, che si propongono e si impongono come regimi «siamo un tutt’uno o niente», dove la separazione è vissuta come catastrofe o abbandono. Clima narcisistico ad oltranza, dove si alimentano talvolta legami ancora più complicati, come ad esempio nell’area dell’incestualità, così definita da Racamier: «L’incestuale è un clima, un clima in cui soffia il vento dell’incesto, senza che vi sia incesto. In questo clima i legami si alimentano non solo sul piano del rifornimento narcisistico, nei termini del rispecchiamento, ma anche dell’appagamento sessuale, pur se mai messo in atto, e in ciò è la distinzione dall’incesto. L’incestualità non è incesto, piuttosto è l’allusione ad esso senza che mai si realizzi, è «l’illusione che il figlio/a possa dare totale soddisfazione, sul piano narcisistico e sul piano libidico». Quello che producono tali ingaggi è una fascinazione difficile da identificare, ma estremamente potente, tanto da bloccare o da deformare le altre relazioni affettive e/o erotiche.
Ma anche al di fuori da simili legature, come le definisce Racamier, molte vite sono state e sono castrate o compromesse da dinamiche famigliari narcisistiche che si impongono come regimi, dove non esiste l’alternativa, ma solo spazio per strategie di sopravvivenza (come ad esempio vivere una doppia vita o nell’anticamera della vita, fuggire per poi ritornare colpevoli, vivere in un letargo emozionale), oppure per strategie perverse (come ad esempio sostituire e scambiare il piacere col dolore) oppure per soluzioni drastiche (come ad esempio sfondare il muro della realtà per fabbricarsene una nuova, alla faccia di essa, come nel delirio). Se non c’è lutto delle postazioni psichiche infantili, si usano gli altri proprio per non fare il lutto e spesso i primi altri sono i figli, usati per colmare i propri vuoti, per dare senso alla vita del genitore, per essere ‘il problema’, per incarnare fantasmi famigliari, per essere arbitro nei conflitti della coppia. «Ognuno fa i propri lutti, e non può farne altri,» scrive Racamier. «Si può accompagnare nel suo lutto una persona che si ama, ma non ci si può sostituire ad un altro per fare il lutto che gli spetta…»
Quali sono stati i punti di riferimento di questo testo?
Certamente uno degli autori che, come emerge dalle citazioni via via fatte, ho sentito più vicino è P.-C. Racamier, anche perché è stato uno psicoanalista che ha lavorato a lungo nelle istituzioni. A me sembra che la teoria del lutto e la sua affrontabilità, come elaborata da Racamier, sia una chiave di lettura ampia e profonda del disagio attuale senza inchiodarlo in categorie diagnostiche. È, dunque, anche una modalità di approccio che, consentendo di fare il punto sulla nostra crescita e riavviandone il processo, può produrre effetti terapeutici.
Non voglio, certo, affermare che questa interpretazione ‘spieghi’ tutto, ma a mio parere pone a nostra disposizione un contenitore in cui poter pensare se stessi e le relazioni, un contenitore che ci permette di collocarci per misurare quanta strada è stata fatta e quanta strada ci sia ancora da fare per crescere. In tal modo, il disagio singolo, famigliare, di coppia, viene tradotto anche come un modo per sopravvivere a certi climi famigliari, a certe ‘legature’, oppure come un modo per evitarle, quindi come ‘sintomo’, piuttosto che come sindrome a se stante.
Sono nata ‘psicoanaliticamente’ nello Spazio Psicoanalitico, fondato dal professor Paolo Perrotti. Erano anni di grande fermento culturale in cui si producevano molti convegni e incontri di formazione con vari analisti come la dottoressa Emiliana Mazzonis, e i professori Matte Blanco, Salomon Resnik, Francesco Corrao, Mauricio Abadi. E tutto questo ha incentivato in me la passione per la ricerca e per il confronto anche tra teorie diverse. Il libro ne è testimonianza.
A chi è rivolto?
È rivolto a tutti: agli addetti ai lavori e alle persone che hanno desiderio di una maggiore comprensione della propria storia sia come figli che come genitori, o comunque come persone adulte. Il testo, che non è un manuale sul cosa si deve o non si deve fare per ‘crescere’, si propone come un’occasione di riflessione così per gli operatori istituzionali e non, psicologi, psicoterapeuti, psicoanalisti, come per tutti coloro che sono attenti ai richiami e alla suggestione della propria vita interiore, che si interrogano sulle proprie difficoltà e sulle difficoltà della società in generale.
Una riflessione che è costantemente corredata di esempi clinici, ma anche di situazioni quotidiane, che ben rappresentano e significano la teoria. È un saggio scritto e formulato in modo che possa essere fruibile e utile anche a tante persone che, pur soffrendo un disagio o interrogandosi su ciò che stia loro accadendo, non inizierebbero una terapia. E quindi l’intento è anche quello di suscitare una maggiore consapevolezza del proprio esserci nelle varie tappe della vita.
(Aprile 2016)
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