Dionys Mascolo e Marguerite Duras |
«L’intento di queste riflessioni non era di produrre qualche giudizio in più sul ‘caso Heidegger’, e più precisamente sul coinvolgimento del filosofo oltre mezzo secolo fa. Non si poteva d’altronde evitare di tenerne conto. L’intenzione era in effetti quella di interrogarsi su quella che sembra una generale crisi degli spiriti di fronte ai tradizionali compiti della conoscenza, e del processo filosofico in particolare.» È così che Dionys Mascolo (nato a Saint Gracian, Parigi, nel 1916 e scomparso all’inizio del nuovo millennio) in Bassezza e profondità. Saggio su Heidegger – pubblicato in Italia dagli Editori Riuniti – intraprendeva una critica che andava oltre l’esegesi filosofica per appuntarsi sul «pensiero tecnico» di Heidegger preso qui a modello. Pensiero atomizzato, specializzato che, nelle sue pretese di obiettività, fornisce in effetti gli strumenti per nascondere e sottomettere alla censura di un Super-Io filosofico la «stupidità» del pensiero. È solo a partire dalla diffidenza del pensiero verso se stesso che si rivela possibile un «pensiero integro» quale «pensiero che si forma nello scambio di parole a viva voce o per iscritto» e il cui luogo privilegiato sono i rapporti d’amore e d’amicizia.
E di ciò Mascolo (che viveva a Parigi e del quale molti ricorderanno il libro intitolato Le Communisme, edito da Gallimard nel 1953) è in grado – in questa intervista inedita – di dare tracce, riferendo, com’era solito fare, pensiero, frasi, battute di coloro che gli sono stati interlocutori: Queneau, Breton, Bataille, Blanchot…
Doriano Fasoli: Mascolo, perché chiama la filosofia un «pensiero specialistico» oppure una «tecnica di pensiero»?
Dionys Mascolo: Perché non è il vero pensiero. È il pensiero che ubbidisce alla logica, alla ragione, alle categorie, e non tiene conto delle passioni, dell’animo, del cuore, del sesso eccetera. I grandi pensatori non sono dei filosofi.
Come considera allora figure, ad esempio, quali Bataille, Blanchot…
Non come dei filosofi. Nemmeno Diderot è un filosofo. I filosofi del diciottesimo secolo non sono dei filosofi: sono degli intellettuali, dei pensatori. Essi rappresentano l’intelligencija, non la tecnica di pensiero che richiede la metà di quanto vi è di umano nell’uomo. La tecnica del pensiero può essere inumana. Di conseguenza, prendo Heidegger come esempio perfetto di quell’atteggiamento filosofico che accetta tutto, che è indifferente a tutto e che perciò può accettare Hitler, accettare il nazismo. È una specie di pamphlet contro Heidegger ma, nello stesso tempo, portando questo filosofo appunto come esempio di un certo atteggiamento di pensiero, il mio libro è anche un po’ un pamphlet anti-filosofico.
Come le appare oggi il panorama culturale francese?
È difficile rispondere a una domanda come questa. Meglio di me saprebbe forse risponderle un sociologo. Si corre il rischio di dire delle banalità, di affermare luoghi comuni come «mi dispiace che la Televisione giochi un ruolo troppo grande nella società», oppure che «la lettura non giochi un ruolo abbastanza grande». Certo, c’è anche questo… Così come mi dispiace per l’abbandono dell’idea rivoluzionaria. Non del comunismo staliniano, ma dell’idea comunista. Oggi trovo che molti intellettuali tradiscono la loro propria missione respingendo l’idea comunista contemporaneamente allo pseudocomunismo leninista-staliniano. L’edificio di Lenin, la dittatura del proletariato di Lenin, non era però il comunismo. Di conseguenza io rimango fedele a un’idea comunista che oggi non ha più dei contenuti. Ma trovo che nel vocabolario attuale, dominante, si fa un uso davvero improprio della parola ‘comunista’.
In chi ha sentito di poter trovare una profonda intesa intellettuale?
In molti esseri umani. In Robert Antelme, ad esempio, l’autore de L’Espèce humaine, o in quella che è stata la mia compagna per circa dodici anni, Marguerite Duras; o, ancora, in Queneau, Bataille (che è stato l’amico che vedevo forse più spesso), Blanchot…
Avendo conosciuto personalmente Bataille, che ricordo ne conserva?
È estremamente difficile dare una definizione di Bataille. Era l’uomo dal più grande scrupolo intellettuale. Lui diceva qualcosa come provavo io a dirlo prima… Ad esempio, disprezzava la filosofia in senso stretto e rispettava profondamente tutto ciò che è irrazionale nel mondo e nell’essere umano. Diffidava invece di ogni razionalizzazione.
E di altri maîtres à penser, come Barthes, Foucault, Deleuze, Derrida, che opinione ha?
Credo sia Deleuze il pensatore più complesso, più sensibile, si può dire il più profondo. Foucault mi è sempre parso un po’ troppo perentorio, un po’ troppo pretenzioso e non ho mai del tutto sposato il modo di procedere di Roland Barthes, che ha detto indubbiamente cose molto interessanti. Derrida mi sembra sia stato eccessivamente influenzato da Heidegger e forse gioca un po’ troppo su più fronti. Certe volte, con lui, non sai bene se hai di fronte un filosofo travestito da poeta o un poeta travestito da filosofo…
Qualcuno, nell’ambiente culturale francese, l’ha sempre considerata una sorta di eminenza grigia. Sa spiegarne il motivo?
L’eminenza grigia è colui che trama nell’ombra pur agendo in piena luce. Non è stato il mio caso. Si dice forse questo perché si sa che fui io ad avere l’idea di promuovere una certa dichiarazione sul diritto all’insubordinazione, attribuita spesso a Sartre, che non scrisse invece una parola. Nonostante, ripeto, fossi io l’ideatore, la mia firma finì col non apparire perché il numero dei firmatari arrivò a superare i cento…
Come si può interpretare il successo che stanno ottenendo in questi ultimi anni i libri della sua ex compagna Marguerite Duras?
Nel corso degli anni Marguerite ha trovato uno stile tutto suo, particolare, una scrittura che spessissimo somiglia al linguaggio parlato, senza lunghi periodi, senza proposizioni subordinate, con un concatenamento di proposizioni principali. È ciò che i linguisti chiamano stile paratattico, fatto cioè soltanto di proposizioni principali: «Sono qui, ti sento, ti aspetto, mi vedi, ti vedo, ti rispondo, mi risponderai», eccetera. Lo stile paratattico è questo. E adesso lei domina completamente questo tipo di scrittura. Ha sempre lavorato con grande scrupolo ed ha via via superato tutte le insicurezze. È difficile tentare di spiegare il perché del successo che ottiene un autore in un preciso momento e che non ha mai riscosso in passato facendo cose magari anche migliori. Ciò resta un mistero. Non ho affatto pretese di obiettività, ma se mi si chiede un giudizio personale sulle opere cinematografiche e letterarie di Marguerite, posso dirle che pongo il film India Song al di sopra di tutti gli altri suoi film e al di sopra di tutti i suoi libri…
E di ciò Mascolo (che viveva a Parigi e del quale molti ricorderanno il libro intitolato Le Communisme, edito da Gallimard nel 1953) è in grado – in questa intervista inedita – di dare tracce, riferendo, com’era solito fare, pensiero, frasi, battute di coloro che gli sono stati interlocutori: Queneau, Breton, Bataille, Blanchot…
Doriano Fasoli: Mascolo, perché chiama la filosofia un «pensiero specialistico» oppure una «tecnica di pensiero»?
Dionys Mascolo: Perché non è il vero pensiero. È il pensiero che ubbidisce alla logica, alla ragione, alle categorie, e non tiene conto delle passioni, dell’animo, del cuore, del sesso eccetera. I grandi pensatori non sono dei filosofi.
Come considera allora figure, ad esempio, quali Bataille, Blanchot…
Non come dei filosofi. Nemmeno Diderot è un filosofo. I filosofi del diciottesimo secolo non sono dei filosofi: sono degli intellettuali, dei pensatori. Essi rappresentano l’intelligencija, non la tecnica di pensiero che richiede la metà di quanto vi è di umano nell’uomo. La tecnica del pensiero può essere inumana. Di conseguenza, prendo Heidegger come esempio perfetto di quell’atteggiamento filosofico che accetta tutto, che è indifferente a tutto e che perciò può accettare Hitler, accettare il nazismo. È una specie di pamphlet contro Heidegger ma, nello stesso tempo, portando questo filosofo appunto come esempio di un certo atteggiamento di pensiero, il mio libro è anche un po’ un pamphlet anti-filosofico.
Come le appare oggi il panorama culturale francese?
È difficile rispondere a una domanda come questa. Meglio di me saprebbe forse risponderle un sociologo. Si corre il rischio di dire delle banalità, di affermare luoghi comuni come «mi dispiace che la Televisione giochi un ruolo troppo grande nella società», oppure che «la lettura non giochi un ruolo abbastanza grande». Certo, c’è anche questo… Così come mi dispiace per l’abbandono dell’idea rivoluzionaria. Non del comunismo staliniano, ma dell’idea comunista. Oggi trovo che molti intellettuali tradiscono la loro propria missione respingendo l’idea comunista contemporaneamente allo pseudocomunismo leninista-staliniano. L’edificio di Lenin, la dittatura del proletariato di Lenin, non era però il comunismo. Di conseguenza io rimango fedele a un’idea comunista che oggi non ha più dei contenuti. Ma trovo che nel vocabolario attuale, dominante, si fa un uso davvero improprio della parola ‘comunista’.
In chi ha sentito di poter trovare una profonda intesa intellettuale?
In molti esseri umani. In Robert Antelme, ad esempio, l’autore de L’Espèce humaine, o in quella che è stata la mia compagna per circa dodici anni, Marguerite Duras; o, ancora, in Queneau, Bataille (che è stato l’amico che vedevo forse più spesso), Blanchot…
Avendo conosciuto personalmente Bataille, che ricordo ne conserva?
È estremamente difficile dare una definizione di Bataille. Era l’uomo dal più grande scrupolo intellettuale. Lui diceva qualcosa come provavo io a dirlo prima… Ad esempio, disprezzava la filosofia in senso stretto e rispettava profondamente tutto ciò che è irrazionale nel mondo e nell’essere umano. Diffidava invece di ogni razionalizzazione.
E di altri maîtres à penser, come Barthes, Foucault, Deleuze, Derrida, che opinione ha?
Credo sia Deleuze il pensatore più complesso, più sensibile, si può dire il più profondo. Foucault mi è sempre parso un po’ troppo perentorio, un po’ troppo pretenzioso e non ho mai del tutto sposato il modo di procedere di Roland Barthes, che ha detto indubbiamente cose molto interessanti. Derrida mi sembra sia stato eccessivamente influenzato da Heidegger e forse gioca un po’ troppo su più fronti. Certe volte, con lui, non sai bene se hai di fronte un filosofo travestito da poeta o un poeta travestito da filosofo…
Qualcuno, nell’ambiente culturale francese, l’ha sempre considerata una sorta di eminenza grigia. Sa spiegarne il motivo?
L’eminenza grigia è colui che trama nell’ombra pur agendo in piena luce. Non è stato il mio caso. Si dice forse questo perché si sa che fui io ad avere l’idea di promuovere una certa dichiarazione sul diritto all’insubordinazione, attribuita spesso a Sartre, che non scrisse invece una parola. Nonostante, ripeto, fossi io l’ideatore, la mia firma finì col non apparire perché il numero dei firmatari arrivò a superare i cento…
Come si può interpretare il successo che stanno ottenendo in questi ultimi anni i libri della sua ex compagna Marguerite Duras?
Nel corso degli anni Marguerite ha trovato uno stile tutto suo, particolare, una scrittura che spessissimo somiglia al linguaggio parlato, senza lunghi periodi, senza proposizioni subordinate, con un concatenamento di proposizioni principali. È ciò che i linguisti chiamano stile paratattico, fatto cioè soltanto di proposizioni principali: «Sono qui, ti sento, ti aspetto, mi vedi, ti vedo, ti rispondo, mi risponderai», eccetera. Lo stile paratattico è questo. E adesso lei domina completamente questo tipo di scrittura. Ha sempre lavorato con grande scrupolo ed ha via via superato tutte le insicurezze. È difficile tentare di spiegare il perché del successo che ottiene un autore in un preciso momento e che non ha mai riscosso in passato facendo cose magari anche migliori. Ciò resta un mistero. Non ho affatto pretese di obiettività, ma se mi si chiede un giudizio personale sulle opere cinematografiche e letterarie di Marguerite, posso dirle che pongo il film India Song al di sopra di tutti gli altri suoi film e al di sopra di tutti i suoi libri…
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