10 dicembre 2019

«Uomini e sogni. Conversazione con Vincenzo Marsili» di Doriano Fasoli



Vincenzo Marsili ha iniziato la propria formazione psicologica lavorando con i bambini nel Servizio di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale di Pisa e poi di Lucca e successivamente ha lavorato per più di trent’anni con gli adulti nel reparto psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale di Lucca. È socio fondatore dell’Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica (ARPA) e membro didatta dell’International Association for Analytical Psychology (IAAP). Ha scritto i libri Tempo e Anima (Moretti e Vitali, Bergamo 2008); Sottile come il domani. Storie di un mondo ossessivo (Armando, Roma 2014); Madri Assassine. Tre letture di Euripide (Alpes Italia, Roma 2017). Il suo ultimo volume, Uomini e sogni, è stato recentemente pubblicato da Alpes Italia e su di esso si incentra questa conversazione.

Doriano FasoliDottor Marsili, come è nata l’idea di Uomini e sogni?

Vincenzo Marsili: È nata da due occasioni di riflessione. Una è legata ad un viaggio nel deserto del Nord Australia. Le tribù nomadi primitive che attraversavano il deserto si fermavano a fare culti (e forse a raccontarsi i sogni, come sostiene qualche esperto) presso le montagne sacre del Kata Tjuta che datano cinquecento milioni di anni. In questo scenario di arenaria rossa che sembra nato da un sogno risiedono ancora degli aborigeni che appartengono alla tribù degli Anangu. Nelle grotte di queste montagne sono ancora visibili le loro pitture. Gli Anangu definiscono Tjukurpa, o Dreaming, il tempo della creazione. All’inizio dei tempi la terra era piatta, oscura e priva di forme. Dalle sue viscere sono emersi poi gli esseri ancestrali, i quali, sognando, si sono fatti strada attraverso la landa desolata, e, prima di tramutarsi in quelle montagne, hanno lasciato dietro di sé delle orme, le prove del loro passaggio e i segni delle strade che hanno aperto. Tutto quello che c’è da sapere per sopravvivere in un deserto terribile, freddissimo e infuocato, pieno di cespugli dalle lame taglienti, insetti velenosi, ragni e serpenti mortali, è in questi sogni sognati che sono visibili nelle tracce che essi hanno lasciato dietro di sé. Il deserto e le leggi che lo governano sono un libro di sole immagini dove è scritta la conoscenza che proviene dal sogno degli esseri ancestrali. Sognando, l’uomo si connette col Sogno della creazione, e ciò permette di ritrovare le informazioni celate ovunque nella natura che servono per poter vivere in armonia con essa. In questo libro il sogno è analizzato proprio nella duplice funzione che gli attribuiscono gli Anangu: quella di dare immagini alle sensazioni, alle percezioni, e ai pensieri diurni, e quella di fare luce in un ammasso informe fornendo la conoscenza che apre strade. 

L’altro spunto di riflessione mi è venuto da un film recente: Maximilian. Il gioco del potere e dell’amore di Andreas Prochaska. Nel film c’è una scena che mi ha molto colpito. Siamo nel 1479: Massimiliano è stato mandato dal padre Federico III d’Asburgo a Gand nelle Fiandre, per prendere in sposa Maria che, dopo la morte del padre in battaglia, è rimasta unica erede del vasto e ricco ducato della Borgogna: in questo modo il ducato verrà strappato al Re di Francia Luigi XI che ne reclama il legittimo possesso, e annesso all’ impero asburgico. Da un matrimonio di interesse, tra i due diciottenni è nato un amore profondo. Maria viene imprigionata dai nobili borgognoni che vogliono costringerla a sposare il delfino del Re di Francia, un bimbo di sette anni. Per evitare di essere intrappolato in congiure e in una lunga guerra di logoramento, Massimiliano, pur disponendo di uno scarso contingente di mercenari e di contadini, ha deciso di uscire in campo aperto e di battersi contro l’esercito francese, uno dei più forti eserciti del mondo. Ora è lì, sulle alture di Guinegatte, in testa alle sue truppe, la picca in pugno, appiedato, con ai lati i suoi fidi compagni, che aspetta di veder comparire dall’orizzonte la fila dei cavalli nemici alla carica. Dall’esito di quella battaglia dipenderà il suo destino, quello del suo amore e del suo regno. Il prode luogotenente che è al suo fianco è preoccupato perché vede Massimiliano ancora provato dalle ferite riportate nell’attentato subito di recente; gli si avvicina per dirgli che è ancora in tempo per rinunciare. Massimiliano lo rassicura dicendogli con tono deciso: «Sono già stato qui». E, dopo una pausa, aggiunge: «In sogno». Alla fine di quella giornata di battaglia, Massimiliano attraverserà da vincitore un’immensa distesa di cadaveri, per correre nelle braccia dell’amata sposa che lo ha aspettato in preghiera. Ha avuto la meglio sull’esercito francese anche grazie all’impiego di una nuova, geniale tattica militare. 

Questa sequenza del film mostra un aspetto importante del sogno, di solito non abbastanza considerato. Dicendo «Sono già stato qui», Massimiliano non fa alcuna distinzione tra ciò che ha vissuto in sogno e ciò che lo aspetterà tra poco sul campo di battaglia. Questa qualità esistenziale del sogno si è perduta nel nostro senso comune, dove il sogno ci appare fatto di un’altra sostanza rispetto alla vita: una sostanza immateriale e immaginaria. In realtà è scientificamente provato che noi sogniamo durante il giorno (il cosiddetto «sogno della veglia») e durante tutte e cinque le fasi del sonno (non solo nella fase REM); e mentre sogniamo attiviamo la muscolatura, respiriamo (a volte affannosamente), e abbiamo palpitazioni più o meno intense; muoviamo sempre gli occhi (anche nella fase del sonno profondo), vediamo cose, proviamo emozioni, facciamo considerazioni e ascoltiamo discorsi: insomma prendiamo parte alla vita, anche se il corpo è pressoché immobile. E, a meno di disturbi nella coesione del nostro sé, appena svegli, riprendiamo a vivere nello stato di veglia senza la difficoltà di dover saltare un fossato che divida due mondi. Eppure siamo portati a non considerare importante questa continuità e dal sentimento del tempo scomputiamo quello passato nel sognare, come se fosse un tempo nullo, che viene iscritto nella nostra età ma senza avere un peso. Nel libro ho cercato di approfondire questo aspetto ‘pensante’ del sogno, che viene mostrato così bene nella sequenza di questo film: il sogno come esercizio preliminare, come progetto che anticipa future azioni. 

Quali sono le tematiche del libro?

Nel libro ho raccontato i sogni dei miei pazienti come veri e propri fatti di vita, inclusi in maniera attiva dentro la loro vita. Ho mostrato come la loro vita (e quella che l’analista vive con loro) diventi il sogno e viceversa, fino alla perdita di ogni distinzione statica. I personaggi del libro sono tutti imprigionati in qualcosa: prigioni vere e proprie come i lager, la cocaina, gli oggetti, le azioni, gli altri. Ho raccontato i loro sogni come si può raccontare la storia di una vita: una vita altrettanto reale dentro la vita che consideriamo reale (sappiamo che non possiamo distinguere lo statuto della realtà da quello del sogno). Li ho immaginati come una sorta di strada parallela che guida verso la libertà.

A quale pubblico è rivolto il libro?

Il libro racconta delle storie di persone infelici che si sono salvate grazie ai loro sogni. Attraverso la semplicità della narrazione ho cercato di far intravvedere i problemi molto complessi posti dalla psicoanalisi e dalla ricerca filosofica riguardo alla problematica del sognare e al suo rapporto con la vita. Il libro ha perciò molte anime: quella psicoanalitica, quella filosofica e quella letteraria ed è rivolto non solo a pazienti e psicoterapeuti, ma anche a filosofi e amanti di racconti. 

Quali sono i suoi punti di riferimento fondamentali?

I miei punti di riferimento fondamentali sono due: Samuel Taylor Coleridge e Carl Gustav Jung. Il primo ha saputo cogliere in maniera poetica, la natura del sogno. Grazie alla gentile disponibilità dell’associazione The Friends of Coleridge ho potuto leggere in fotocopia i suoi Notebooks che non sono stati mai pubblicati. Coleridge credeva che i sogni non fossero ombre ma vere e proprie sostanze, e, nel tentativo di spiegare la sostanza dei sogni, in un primo momento ha utilizzato l’immagine di un pendolo autocosciente e animato che si muove tra due modalità dell’immaginazione, quella notturna e quella diurna. Poi, forse per escludere la scomparsa, anche solo momentanea, di una delle due lungo anche solo una porzione dell’arco del movimento, e per rendere meglio l’idea di una loro reciproca inclusione, ha pensato ad un polipo-fiore (il polyp form del phylum Cnidaria) che al suo centro ha una vita la quale a sua volta è dentro l’unica vita del fiore: «una vita-in-fiore nel centro del polipo-fiore, una vita dentro la vita, la quale costituisce una parte della vita che la include». Questo è esattamente quello che pensa anche la psicoanalisi contemporanea circa l’attività del sognare: la principale manifestazione dell’immaginazione notturna conserva al suo centro l’attività immaginativa del giorno e viceversa: la mente notturna e quella diurna sono profondamente compenetrate l’una nell’altra. I casi raccontati in questo libro esprimono la profonda verità di questa immagine poetica. Il modo in cui sono stati affrontati i sogni porta alle estreme conseguenze il concetto di sostanza, includendovi l’esperienza reale, il pensiero in tutte le sue molteplici forme, nella sua modalità conscia e inconscia e nella sua progettualità.

Riguardo a Jung, il suo pensiero sul sogno è molto moderno. Jung si è avvalso della frequentazione e del carteggio con i fisici quantistici come Pauli per sviluppare una teoria del sogno che rovescia il rapporto tra «realtà» e «irrealtà» e sposta il baricentro dall’immaginazione conscia a quella inconscia. La fisica quantistica ha messo in crisi il concetto dell’ubicazione (che Einstein aveva mantenuto) e ha scoperto che nello stesso istante di tempo il quanto si trova spostato nello spazio. Jung sembra applicare queste scoperte nel suo principio di sincronicità. Anche per quanto riguarda il sogno, in «Considerazioni sulla psicologia del sogno» egli sostiene che, come l’inconscio ha una funzione compensatrice e relativa al contenuto della coscienza, così dobbiamo considerare che lo stesso avvenga da parte del contenuto della coscienza relativamente al contenuto inconscio momentaneamente costellato: di conseguenza il sogno acquista il valore di un’idea guida positiva e di una rappresentazione finalistica e prospettica d’importanza vitale. Jung giunge così logicamente a sostenere che il sogno ha un’importanza superiore al contenuto della coscienza momentaneamente costellato poiché l’inconscio è più grande della porzione della coscienza e procede dalla fusione di elementi subliminali alla combinazione dei frammenti delle sensazioni alle percezioni ai sentimenti e ai pensieri che, data la loro debole accentuazione o l’impostazione troppo unilaterale della coscienza, sono sfuggiti a quest’ultima.

La mia descrizione dei casi trattati nel libro si muove nel solco di questa teoria di Jung (nata dalla sua collaborazione con Maeder) riguardo ad una funzione inconscia finalistica del sogno che anticipa future azioni consce o avvia la soluzione di conflitti e problemi attuali mediante un esercizio mentale preparatorio (come nella sequenza del film Maximilian).

C’è poi un altro aspetto del sogno che ho preso da Jung e che ho sviluppato soprattutto nel racconto dei primi due casi nel capitolo «Sopravvivere», i casi di due sopravvissuti dai campi di sterminio. Jung, raccogliendo le suggestioni di Nietzsche di cui era grande lettore, scrive: «Il sogno è come una piccola porta occulta che conduce alla parte più nascosta e intima dell’anima, aperta sull’originaria notte cosmica che era anima ancora prima che esistesse una coscienza dell’io, e che sopravviverà come anima a tutti i prodotti della coscienza dell’io, giacché ogni coscienza dell’io è isolata e conosce il singolo in quanto divide e separa e vede solo ciò che ha rapporto con questo io». Le vicissitudini di Bruno e di Agostino che racconto in questo libro ci fanno oltrepassare i confini di un io che divide e separa portandoci dentro la storia e attraverso di essa ancora oltre, nell’uomo ancora immerso nell’oscurità di questa notte primitiva in cui egli era il tutto e il tutto era in lui. Da un ammasso di vite come quelle gettate nei campi di concentramento possiamo entrare in contatto con la potenza della natura (comprese la sua ferocia e le sue atrocità), priva di ogni differenziazione e di ogni ‘essere io’. Ma se è proprio da tale oscura incomprensibile profondità che nasce il sogno, dall’atra parte, circolarmente, è l’anelito a differenziarsi di questi uomini che esso raccoglie e che, attraverso me, può ancora vivere e percorrere l’impersonalità del mondo.

Lei non crede che il sogno abbia anche una funzione di nascondere o falsificare dei desideri, come pensava Freud?

Freud ha il grande merito di aver per primo considerato il sogno come una via regia all’inconscio. Tuttavia la visione di Freud del sogno come camuffamento di pulsioni sessuali ha un’utilità marginale nella clinica. L’importanza centrale dei sogni è data dal fatto che essi sono fenomeni naturali e non artefatti linguistici. I sogni non ricorrono a sotterfugi o artifizi per celarci qualcosa: lungi dal nascondere, enunciano ciò che essi sono e ciò che essi intendono, nel modo per essi più chiaro possibile. L’esperienza clinica come quella che emerge dal racconto dei casi del libro ci mostra che i sogni si sforzano sempre di esprimere qualcosa che l’io non sa e non capisce. L’analista semplicemente aiuta a rileggerli per capirli meglio, utilizzando tutto il materiale che è disponibile (associazioni libere, gli altri sogni, i ricordi, le conoscenze culturali, etc.) per coglierne tutta la ricchezza di significato.

Ma se i sogni sono fenomeni naturali, qual è la funzione, lo scopo naturale a cui servono?

Se si osservano tutti questi sogni che ho raccontato nel libro possiamo vedere come essi siano accomunati da una costante funzionale: essi tendono a ricreare l’unità del Sé attraverso un processo di individuazione che è il bisogno fondamentale dell’essere umano. Esso viene attivato dall’integrazione dei contrari: una comprensione emotiva, per esperienza vissuta, delle forze che sono in contrasto all’interno del sé. Questo processo naturale deve spesso affrontare la resistenza dell’individuo imponendosi con la forza su una situazione troppo unilaterale della coscienza. Il processo ha per senso e meta la realizzazione della personalità come totalità, originariamente contenuta nel germe embrionale in tutti i suoi aspetti. 

Qual è l’originalità del suo libro?

Nel libro vado oltre la distinzione tra conscio e inconscio su cui si attesta anche Jung e porto alle estreme conseguenze il concetto di Coleridge dell’immaginazione del sogno come sostanza. Nel concetto di sostanza includo l’esperienza reale e il pensiero in tutte le sue molteplici forme, nella sua modalità conscia e inconscia e nella sua progettualità. Ho cercato di trasportare il lettore in questa dimensione alternante in cui il personaggio non sa se sta vivendo dentro il sogno o dentro la realtà. La trama del sogno in certi momenti sembra sdipanarne una copia nella vita reale e viceversa. L’impressione che volevo far nascere nel lettore è proprio quella di non poter sapere esattamente quale di quei due domini in quel momento abbia il primato. Questo avviene anche nell’analista: penso di aver mostrato ad esempio come il racconto di Bruno delle peripezie della guerra e degli orrori del campo di concentramento mi abbia stordito facendomi entrare in un sogno: avevo la testa confusa e le gambe malferme ed era come se rivivessi in sogno tutto quello che lui mi stava raccontando come reale. Il sogno che aveva salvato Bruno si riattualizzava anche in me e in qualche modo era venuto a salvare anche me. 


(Ottobre 2019)






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