15 marzo 2018

«Un'altra vita. Conversazione con Diego De Leo» di Doriano Fasoli



Diego De Leo è uno psichiatra di fama internazionale. La sua specialità riguarda lo studio dei comportamenti suicidari, cui ha dedicato l’intera carriera, creando anche la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio (10 settembre di ogni anno), un evento oggi seguito da più di cento nazioni. Professore emerito di psichiatria alla Griffith University di Brisbane, Australia, dove ha lavorato negli ultimi 20 anni dirigendovi l’Australian Institute for Suicide Research and Prevention, De Leo ripropone, a distanza di alcuni anni dalla fortunata prima edizione, una seconda uscita del suo libro Un'altra vita. Viaggio straordinario nella mente di un suicida (Alpes Editore, Roma). Pubblicato in origine con il titolo di Turning Points, il libro raccoglie le storie di persone scampate per puro caso a un tentativo letale di suicidio; anche persone che, invece, un proprio caro l’hanno perso definitivamente vi narrano la propria esperienza di ‘sopravvissuti’.

Doriano FasoliProfessor De Leo, Lei è abituato a scrivere testi scientifici, come mai questo libro per il grande pubblico?

Diego De LeoPerché la prevenzione del suicidio riguarda tutti, non solo gli esperti del settore. Volevo quindi cercare di aumentare la conoscenza e la consapevolezza dei lettori sui molti motivi diversi che spingono un individuo a darsi la morte. Per raggiungere questo scopo non intendevo far ricorso al linguaggio tecnico ma usare le parole dei protagonisti delle storie stesse. Il volume raccoglie così una selezione di esperienze umane fortunosamente non conclusesi con la morte del loro interprete principale, che nel libro diventa narratore dell’avventura vissuta. Meglio di qualsiasi testo specialistico, queste storie riescono a rappresentare con formidabile immediatezza quell’escalation di avvenimenti ed emozioni che ha portato i soggetti a desiderare di morire.

Dunque è per questo che Lei ha parlato di «viaggio straordinario» nel titolo del libro?

Di suicidio, in genere, si parla poco e male. Quando lo si fa, magari in un articolo di stampa, o si sensazionalizzano le storie o si semplificano all’eccesso, data la difficoltà di fornire un quadro comprensibile del contesto esistenziale della persona suicidatasi. Oppure ci si confronta con il linguaggio scarno del demografo o quello distaccato del medico legale. In questo libro, una serie di persone narra con il linguaggio della vita di tutti i giorni la propria terribile esperienza e la decisione di darsi la morte. Questa poi non è sopraggiunta per ragioni del tutto imprevedibili o fortuite, come può essere miracoloso sopravvivere ad un colpo di arma da fuoco alla testa o alla precipitazione dal terzo piano. È chiaro che queste persone avrebbero potuto morire: il sopravvivere a quella scelta estrema dà invece loro la forza per ricominciare una vita diversa, «un’altra vita», appunto, come indica il titolo del libro. E questo è il messaggio principale del mio volume, e cioè che il desiderio di morire e il tentativo di suicidio rappresentano l’acme di una crisi, passata la quale però si può tornare a vivere, spesso più forti di prima.

E quindi la straordinarietà è data dalla peculiarità delle storie?

Le storie sono estratte dal mio archivio, che ne contiene forse più di duecento. Alcune sono di australiani, la maggior parte di italiani. C’è anche la storia di una persona dall’Olanda, paese dove ho fatto il mio dottorato di ricerca e vissuto. Le storie sono state scelte sulla base della loro originalità e ricchezza di contenuti, che spero servano a dimostrare che non tutto è etichettabile come dovuto alla malattia mentale e che il suicidio è un’ipotesi con la quale molti di noi potrebbero essere chiamati a confrontarsi nel corso della vita, qualora le condizioni diventassero troppo difficili per continuare a condurre un’esistenza accettabile. Alla fine di ogni storia c’è un mio breve commento, in modo da costituire una specie di road map per orientare il lettore nella comprensione di quanto descritto dagli autori dei racconti. D’altra parte, per la conoscenza dei comportamenti suicidari, soprattutto quelli fatali – i suicidi – psichiatri e psicologi si avvalgono generalmente di una letteratura scientifica basata quasi esclusivamente sull’uso dell’‘autopsia psicologica’, cioè di quella tecnica che permette di ricostruire attraverso le testimonianze di chi conosceva bene la persona suicidatasi le caratteristiche personologiche, gli eventuali elementi clinici e le circostanze di vita del suicida. È chiaro che questo metodo è basato sulle opinioni di questi ‘sopravvissuti’ (famigliari, congiunti, amici), visto che i morti non parlano, e che il margine di soggettività è quindi molto elevato. In caso di soggetti conducenti vite solitarie, la disponibilità di conoscenti può risultare del tutto assente, per cui l’autopsia psicologica non risulta praticamente realizzabile.

Per quanto invece riguarda i comportamenti non fatali, cioè i tentativi di suicidio, esiste il problema di determinare la reale intenzione suicidaria dei soggetti che li hanno effettuati. Generalmente in un affollato Pronto Soccorso ospedaliero non esistono le condizioni favorevoli per un’indagine difficile come quella di capire se un soggetto volesse davvero morire oppure richiamare attenzione su di sé, dormire un po’ di più, scaricare tensione e rabbia, oppure verificare quanto gli altri tenessero realmente a lui/lei. Ecco dunque che disporre di racconti di persone scampate per un soffio a morte certa rappresenta un’opportunità di grande interesse umano e scientifico. Inoltre credo ci sia la possibilità di capire, attraverso le storie, la reale complessità dei fattori che possono determinare una scelta suicidaria, e quindi comprendere come l’etichetta ‘disturbi mentali’ non possa bastare a spiegare il tutto. Tutti noi, prima o dopo nel corso della vita, possiamo essere indotti da circostanze particolarmente avverse a considerare anche l’opzione suicidaria…

Il libro è avvincente e si legge come un thriller. Uno resta sbigottito dalla singolarità delle storie…

Ne sono lieto. D’altra parte il suicidio è la peggiore delle tragedie umane, quindi un tema molto difficile da ‘reggere’; la gente preferirebbe ignorarne l’esistenza o – appunto – saperlo confinato a pochi malati mentali gravi. In realtà la vita può riservarci soprese di ogni genere cui non sempre siamo in grado di reagire adeguatamente. Le sofferenze che ne derivano possono portare a quel dolore psichico, profondo, che non ci permette di vedere vie d’uscita e che giorno dopo giorno diventa sempre meno sopportabile. Rispetto alla prima edizione, c’è la storia di un ragazzo olandese che si butta sotto il treno ma ne sopravvive con entrambi gli arti inferiori amputati appena sotto il bacino. Poi ci sono tre nuove storie di mamme che hanno dovuto resistere alla morte per suicidio di un loro figlio e quella di una moglie che ha perso il marito. In tutti questi casi si tratta di persone di grande spessore umano, che hanno trovato la forza di sopportare il loro indicibile lutto con attività di volontariato, scrivendo libri sulla loro esperienza o realizzando pièce teatrali, come nel caso di Evelina Nazzari, figlia d’arte del grande Amedeo. Le storie di sopravvissuti al suicidio costituiscono la terza parte del volume, anch’essa un messaggio di speranza, dal momento che illustra esempi di come si possa riedificare la propria vita dopo tsunami esistenziali come quelli prodotti dalla morte innaturale di un proprio caro. La prima parte del volume – anch’essa aggiornata – è costituita dalla mia presentazione del tema del suicidio e dalle ragioni che mi hanno indotto a dedicarvi la mia vita.

Un’anticipazione, al riguardo?

Ero ancora uno specializzando di Psichiatria e mi interessavo di ormoni dello stress e di psicosomatica. Il suicidio di un giovane collega mi turbò al punto di cambiarmi la vita (un turning point). Sconvolto dalla consapevolezza di non aver saputo comprendere in alcun modo la sofferenza che doveva albergare nel mio amico, decisi di dedicarmi allo studio delle condotte suicidarie e lo feci con interesse e passione crescenti, data la grande complessità dell’argomento ma anche il suo indubbio fascino (l’unico vero problema filosofico, come ebbe a dire Albert Camus nel suo Mito di Sisifo). Dopo qualche anno riuscii a fondare l’associazione italiana per lo studio e la prevenzione del suicidio, a organizzare servizi clinici e unità di ricerca, la pubblicazione di una rivista, ecc. fino a spenderci l’intera carriera accademica. Oggi dirigo un centro internazionale di ricerca in Slovenia (nazione con un tasso di suicidio quasi triplo di quello italiano) ma soprattutto cerco di aiutare le persone che hanno sofferto la perdita di una persona cara per suicidio o altra causa di morte traumatica, come un incidente stradale o sul lavoro o una catastrofe naturale. De Leo Fund è una onlus che opera da Padova su tutto il territorio nazionale; si avvale dell’aiuto di medici, psicologi e volontari che offrono i propri servizi gratuitamente anche al telefono o via Internet.

Purtroppo le persone spesso fanno fatica a chiedere aiuto, è d’accordo?

Sì, ha ragione. Soprattutto i maschi trovano difficile dimostrare le proprie debolezze e inquietudini. Eppure è il passo, l'unico, non solo verso l'elaborazione del lutto ma verso la propria salvezza. Perché solo condividendo il dolore si riesce a trasformarlo. E nella trasformazione del dolore si scopre la bellezza della vita, si capisce perché sia fondamentale prendersene cura. Comprensione alla quale nel mio libro arrivano tutti i protagonisti che ruotano attorno a quel finale senza tragico esito, ovvero tutti quelli che, decisi a compiere il passo senza ritorno, si trovano invece miracolosamente graziati da questa tragica scelta.

Come se ne esce, quindi?

Come dicevo all’inizio, la prevenzione del suicidio è un problema che deve riguardare tutti. Parlare di suicidio, nel modo giusto, aumenta la consapevolezza del problema e combatte lo stigma che ancora lo circonda. Una delle conseguenze più nefaste della stigmatizzazione è la sua capacità di interferire con la richiesta d’aiuto. La società non può rimanere indifferente a questi aspetti. Chi è lasciato solo a gestire le conseguenze delle proprie tragedie si ammala o si dà la morte. Dobbiamo aiutarci tutti. È molto difficile dare un senso alla propria esistenza soprattutto per chi non ha fede in alcuna religione; trovo che dare una mano a chi soffre aiuti molto a rendere la vita degna di essere vissuta.

Grazie, Professore.


(Febbraio 2017)






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