Ottavio Fatica è nato a Perugia e vive a Roma. È riconosciuto come uno dei più eccellenti traduttori italiani. Una vera vocazione, la sua, coltivata con rigore ormai da decenni. Ha lavorato per Teoria, per Einaudi e soprattutto per Adelphi, presso cui ha tradotto di recente i diari di George G. Byron Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno e Poesie scelte di W. H. Auden. Ricordiamo la sua prima raccolta di poesie, Le omissioni, edita da Einaudi nel 2009.
Doriano Fasoli: Un vaso d’alabastro
illuminato dall’interno: perché la scelta di questo titolo, Fatica?
Ottavio
Fatica: Perché
ha un immediato, indubbio fascino, come quello che ‘emanava’ dall’autore.
Dovrebbe averlo detto Walter Scott quando si conobbero (i due si stimavano
molto) e Byron lo ripete con qualche variante anche in un verso del Don Juan.
Com’è costruito questo volume dei Diari?
Sono i soli diari
sopravvissuti. È bastato disporli cronologicamente per avere, certo con qualche
sbalzo temporale, una parabola che copre tutto l’arco di vita del poeta.
Un’edizione così non c’è neanche in inglese, dove i Diari sono inseriti nel ricchissimo carteggio e, per consultarli,
bisogna disporre dei 13 volumi dell’epistolario. Non che sia una brutta idea
averli – e leggerli; sono di un interesse e di un piacere non comuni.
Che cosa trasmettono al lettore?
Una scossa. L’uomo è
corso da un brivido elettrico in quasi tutto quel che dice e fa che si
trasmette in via diretta al lettore. Per giunta da due poli opposti: lo smodato
romantico ha un doppio settecentesco a fulminarlo col suo sguardo cinico, roué. Dall’incontro o meglio dallo scontro
nascono scintille. Poi ci sono gli infiniti aneddoti mondani e personali,
intimi, piccanti, anche scabrosi da gustare.
Byron fu riconosciuto dai suoi contemporanei?
Purtroppo per lui fu
idolatrato e poi, come di norma, ripudiato, gettato con disgusto, ma con gusto,
nel fango. Come un amore mal riposto: fa tutto chi lo inscena e poi lo
perpetra: non può che sbagliare e far del male – ma è quello che vuole –
all’idolo presunto. In una breve, caustica, tipica poesia Robert Frost metteva
in guardia proprio da questo. A Byron è toccata in misura esemplare e con effetti
deleteri una simile sorte.
Come avvenne la sua morte?
Era andato – sempre
all’inseguimento di un sogno, un Ideale – ad aiutare il popolo greco a trovare
l’indipendenza dai turchi. Lo aveva fatto come un Garibaldi incrociato con un
Mishima, con tanto di piccolo esercito al seguito e tanto di uniformi disegnate
da lui stesso. Come avrebbe potuto dirgli bene? L’eroica morte, sublimata nei
quadri e nell’immaginario, fu una fine atroce, sordida, risibile, quella di un
povero cristo coronato di sanguisughe, panacea di allora.
Perché molti dei suoi scritti sono andati persi?
Persi è un eufemismo. Le
memorie furono bruciate subito dopo il decesso da un manipolo di solerti
parenti e amici terrorizzati dalle rivelazioni sui suoi trascorsi di
omosessuale (sbagliando per inadeguatezza: Byron era onnisessuale), questo per
salvaguardare un improbabile, improponibile santino, ma soprattutto dalle
eventuali ricadute sulla loro vita.
C’è chi sogna ancora che ne sia rimasta copia in qualche fondo letterario ottocentesco
non ancora setacciato.
Conosce il saggio che Emilio Cecchi gli dedicò nel libro I grandi romantici inglesi?
Magnifico. L’ho riletto
durante la lavorazione e malgrado ne dica peste e corna è un gran bel saggio,
stimolante, pieno di spunti all’occorrenza ribaltabili con profitto. Il fatto è
che Cecchi sapeva scrivere come pochi; e come pochissimi saggisti. C’è sempre
da guadagnarci a leggerlo.
Come fu la vita di Byron?
Dipende dall’ottica. Un
disastro, un capolavoro, un fallimento. L’una e l’altra cosa. In ogni caso all’atto pratico una giostra
frenetica, spossante, una fuga perenne che lo lascerà spossato sulle sponde
dell’Egeo a trentasei anni.
E Auden, le cui poesie lei ha tradotto mirabilmente di
recente, è tra i suoi autori più amati?
No. Auden, per restare
ancora un attimo su Byron, ha scritto di lui cinque o sei volte, anche se in un
paio di casi riciclando i materiali, e almeno un paio di saggi rigurgitano di
considerazioni assennate e acute sul Lord, come c’era da aspettarsi dall’Auden
saggista. Ma no, non è tra i miei poeti prediletti. Sono un grande ammiratore a
volte assai irritato dall’ininterrotto lavoro certosino di questo mostruoso
orefice del verso. Per il traduttore però è una sfida delle più invitanti
proprio perché delle più ardue. Non si può non accettarla. Ma nella lunga
seconda stagione gira spesso – pur se stupendamente in senso tecnico – a vuoto.
Mi riferisco all’Auden ‘transatlantico’, che si picca ahimè di stare tra Orazio
e Goethe. A quel punto i lettori nella vecchia patria lo avevano abbandonato.
In America ha avuto la massima influenza nel primo dopoguerra: Elizabeth
Bishop, per dire, alle prime prove era ritenuta piuttosto audenary, imitava cioè il maestro come tutti, robetta di ordinaria
amministrazione insomma, anche se non ci avrebbe messo molto a dimostrare il
contrario. Qui non ha influenzato mai nessuno; quand’era il momento, da noi si
arrancava appresso ai grandi modernisti della generazione precedente, leggendoli
per giunta in cattive traduzioni. Non è il termine giusto, in versioni
incomprensibili, perché semplicemente non comprendevano l’originale. Ma non
vorrei rifare la storia della poesia italiana…
Quali sono le maggiori difficoltà incontrate nel corso della
traduzione?
Dato il tipo,
riproporre, cioè riprodurre – risolte e ricomposte – le complessità, le
complicazioni, le complicanze, alla lettera, dei versi. Non so se qualcuno se
n’è accorto ma Adelphi ha pubblicato ben tre versioni della fin troppo celebre O tell me the truth about love – e
quest’ultima si distacca in toto dalle precedenti per il rispetto delle rime,
della metrica, della musica evidente, evidentissima del testo.
Qual è la sua cifra stilistica?
Auden aveva a
disposizione l’intera panoplia degli strumenti poetici e ne ha usato e abusato
a piacimento, anzi, se si può a dire, a compiacimento. Ha costruito un’infinità
di cattedrali puntilliste e puntigliose, secondo le varie ‘religioni’ praticate
nelle varie fasi della vita, tutte alquanto discutibili, dal marxismo alla
psicanalisi, alla vera e propria irreligione anglocattolica dell’ultima
stagione, quella più civile e perbenista, serafica e banale. Poesie che, temo,
finiranno per non essere più lette, come i sonetti ecclesiastici di Wordsworth,
peraltro di gran lunga superiori. Ma la perizia, somma, il lavoro di cesello,
(quasi) sempre ineccepibile, quello non viene mai meno, e per il traduttore è
(quasi) tutto. Come si può esser
traduttori se non si è masochisti?
In ambito poetico, quali sono le sue predilezioni?
Troppe. Noioso provare a
elencarle. Potrei passare da un colosso come Milton a un Housman, autore di una
singola, breve raccolta, a un Paul-Jean Toulet, che avrà scritto tre, forse
quattro chiuse perfette, in tutti i sensi, delle sue già tanto rarefatte Contrerimes. Ho sempre amato la stagione
russa che va da Annenskij a Chodasevič, e si concentra intorno a Blok, Mandel'štam,
Achmatova, Pasternak e Cvetaeva – irripetibile. Nella poesia russa, anche alla
più estrema complessità non va mai disgiunta l’immediatezza; l’effetto d’urto è
fortissimo. Certo, lavorando soprattutto sull’inglese, conosco e apprezzo anche
i minori, i minimi di questa lingua; ma torno sempre a figure come Yeats o
Eliot, di recente prese così accanitamente di mira in patria. Buona parte della
poesia contemporanea è accademica; quella americana in chiave più “modernista”,
quella inglese più tradizionale; e poi c’è sempre qualche irlandese col suo
estro. I due contemporanei, non più di primo pelo, ma senz’altro di vaglia, le
voci più autorevoli diciamo, sono Geoffrey Hill e, nel deserto francese, Jude
Stéfan.
E in ambito narrativo?
Nella narrativa i
romanzi che più mi hanno segnato sono il Voyage
céliniano e L’uomo senza qualità di
Musil. Ma sono sempre stato attratto dalle opere inqualificabili: i testi di Roger-Gilbert
Lecomte o di Artaud, le prose di Gottfried Benn; una certa impossibile
saggistica che va da Hamann a Weininger, passando per Novalis, Kassner, Lessing
e simili. Prendiamo L’anatomia
dell’inconscio fisico di Bellmer, da me tradotto, in che categoria
piazzarlo?
«Il traduttore, una lastra di vetro il cui unico compito è
lasciar passare la luce? Un messaggero, un go
between che trasmette il messaggio e forse tanto meglio quanto più ignora
tutto delle intenzioni dell’emittente e delle intenzioni del ricevente?»: sono
alcune immagini proposte dallo psicoanalista J.-B. Pontalis nel suo libro Perdere di vista. Cosa vuol dire per lei
tradurre?
Tante cose:
un’attrazione medusea; accettare una sfida; imitare nel senso degli antichi, a
ben vedere tutti traduttori; vivere per un po’ all’ombra di grandi opere, e
tentare di adombrarle; il gusto dell’emulazione. Più il piacere di contorcersi
acrobaticamente, di trovare nuovi modi per il corpo della mente di disporsi, in
questo strano spazio tra due lingue, prima di riportare il testo nella propria.
E poi una perversione personale: per non scrivere.
Come dev’essere una traduzione perché lei possa giudicarla
di alto livello?
Di alto livello deve
essere anzitutto l’originale; dopo di che è questione di resa. Se hai a che
fare con un sommo stilista come Evelyn Waugh, per dire uno che conosco bene,
avendolo tradotto, uno che mette su dialoghi luciferini e ineffabili in
inglese, questo si dovrebbe sentire in traduzione. Eppure la stragrande
maggioranza delle traduzioni in circolazione non ne dà minimamente conto.
Quando hai a che fare con scrittori del calibro di Virginia Woolf o Proust o
Rilke, qualcosa comunque trapela, si ha per forza una vaga idea di quello che
dovrebbe esserci dall’altra parte, ma non basta: è quanto riesci a riportare indenne, a ricreare nella tua lingua a
fare la differenza. Per le altre traduzioni può bastare un onesto ma pur sempre
solido, scaltrito mestiere; non è poco, non è affatto poco.
Doriano Fasoli
(Marzo 2018)
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