20 dicembre 2018

«Il bagno di Diana. Conversazione con Giuseppe Girimonti Greco» di Doriano Fasoli



Giuseppe Girimonti Greco è traduttore e saggista. Si occupa principalmente di Proust. Fra i suoi ultimi lavori di traduzione: Vertigine di Julien Green (Roma, Nutrimenti; premio Bodini 2017), Racconti di Marcel Proust (Firenze, Clichy) e Fiabe di Charles Perrault (La Nuova Frontiera Junior, Roma), tutti e tre curati insieme allo scrittore Ezio Sinigaglia, con il quale forma un collaudato sodalizio da alcuni anni. Del 2017 è la sua traduzione dell’ultimo romanzo di Klossowski Il Bafometto, edito da Adelphi.

Doriano Fasoli: Girimonti Greco, qual è la genesi de Il bagno di Diana, pubblicato di recente da Adelphi? Perché Klossowski decide di dedicare un intero libro a questo mito?

Giuseppe Girimonti Greco: «Non sono uno studioso di Klossowski, ma proverò a rispondere ugualmente…» Questo era l’incipit della mia risposta alla tua prima domanda, prima che la collera di Diana si abbattesse su questo testo… Ma andiamo con ordine: ti rispondo – anche nella speranza di divertire i lettori – raccontando una storiella un po’ inquietante, se non altro per via della sua stregonesca e ‘diabolica’ (è il caso di dire) valenza simbolica. Avevo deciso di commentare l’incipit del libro, che è forse fra i più belli di tutta l’opera di questo autore. Nelle pagine introduttive Klossowski spiega, con inconsueta semplicità:

Vorrei parlarvi di Diana e Atteone: due nomi che evocano, nella mente del lettore, poche o molte cose: una situazione, delle posture, delle forme, il soggetto di un quadro, ormai quasi solo leggendario, poiché l’immagine e il racconto, divulgati dalle enciclopedie, hanno ridotto alla semplice visione di un gruppo di donne sorprese al bagno da un intruso questi due nomi, il primo dei quali è solo uno tra i mille con cui la divinità fu conosciuta da un’umanità scomparsa.

E ancora:

[S]e il lettore non è del tutto privo di memoria, e di ricordi trasmessi da altri ricordi, questi due nomi possono improvvisamente rifulgere come un’esplosione di splendori e di emozioni.

L’intento di Klossowski è chiarissimo, la sua strategia argomentativa ben precisa: fare piazza pulita di tutte le interpretazioni convenzionali che hanno addomesticato (e spesso snaturato) questo mito così arcaico e perturbante; tornare alle origini, alle fonti più antiche, al suo nucleo primigenio, da cui ci separano millenni di cultura, per così dire, ‘anti-pagana’; fornire una lettura non condizionata dalle innumerevoli incrostazioni iconografiche, letterarie (soprattutto classicistiche) che hanno trasformato quel mitologema (la scena culminante della ‘leggenda’) in un episodio di blando, aggraziato voyeurismo (ferocemente punito da una dea proverbialmente fiera e vendicativa); per far questo, Klossowski dice di voler approfittare della buona disposizione ‘culturale’ del suo lettore volenteroso, di voler far leva su quei pochi frammenti di memoria culturale che resistono nella contemporaneità, nel nostro immaginario (se non nell’inconscio collettivo contemporaneo, verrebbe da dire): reminiscenze di reminiscenze, bagliori fugaci, intermittenze in grado di funzionare come ‘illuminazioni retrospettive’, come «estasi metacroniche» (l’espressione la ricavo dai saggi proustiani di Francesco Orlando, un teorico che amo molto… e c’è da chiedersi che cosa Orlando avrebbe potuto dire su questo testo, così vistosamente imperniato sul ritorno del rimosso e del represso…).

10 dicembre 2018

«Sessantotto visionario. Conversazione con Renzo Paris» di Doriano Fasoli



Renzo Paris (Celano, 1944), poeta, romanziere e critico, ha tradotto le poesie di Tristan Corbière e di Guillaume Apollinaire. Tra le sue opere ricordiamo le raccolte di poesie Album di famiglia Il fumo bianco (Elliot, 2013), i romanzi Frecce avvelenateLa casa in comuneLa croce tatuataLa vita personaleCani sciolti (Elliot, 2016), Bambole e schiavi (Elliot, 2018) e le biografie romanzate La banda Apollinaire (2011), Alberto Moravia. Una vita controvoglia (Castelvecchi, 2013), Il fenicottero. Vita segreta di Ignazio Silone (Elliot, 2014) e Pasolini. Ragazzo a vita (Elliot, 2015). Ha insegnato letteratura francese in diverse università. Collabora con Il Venerdì di Repubblica. Da poco è uscito, sempre per Castelvecchi, Sessantotto visionario, che ci ha fornito il pretesto per incontrarlo.

Doriano Fasoli: «Sono uno di coloro che hanno vissuto gli anni Sessanta come una primavera che prometteva di essere interminabile. Per questo, mi risulta difficile dovermi abituare a questo lungo inverno.» Paris, sei d’accordo con queste parole pronunciate dal filosofo Félix Guattari?

Renzo Paris: La primavera di cui parla Guattari, che conobbi a Sabaudia, nella villa affittata da Laura Betti, è stata anche la mia. Andavo per mostre ogni pomeriggio e la sera mi vedevo un film. Leggevo libri di ogni tipo, soprattutto di critica, ma anche romanzi e ne parlavo con gli amici di allora, che li recensivano per il giornale dei socialisti, la cui pagina culturale era diretta da Walter Pedullà. Ero un cane sciolto fin d'allora e non volli scrivere per quel giornale, che vedeva le prime prove di Alfonso Berardinelli, Franco Cordelli e altri. L'inverno era quello del settarismo e dell'ideologia, che spense la bellezza dell'arte. Io però in quell'inverno non dimenticai la luce.

Chi era Paolo Rossi, il diciannovenne assassinato dai fascisti?

Paolo Rossi era un giovane universitario socialista che mi morì accanto. Eravamo in piedi sul muretto del pianerottolo della Facoltà di Lettere della Sapienza. Reagivamo a parole contro i fascisti che salivano quei gradini armati di bastoni con punteruoli di ferro. La polizia non interveniva. Vidi Paolo cadere come corpo morto fin sul pavimento, rompendosi la testa. Quella mattina era stato picchiato con un pugno di ferro dai fascisti che odiavano quel venticinque aprile di Resistenza. Fu il primo caduto della mia generazione. Avevano poco più di vent'anni quelli che dimostravano contro l'aumento delle tasse universitarie voluto dal ministro Gui. E fu l'inizio di quello che sarà, due anni dopo, il Sessantotto. Ho raccontato tutto nel mio Sessantotto visionario.

29 ottobre 2018

«Da Attilio Bertolucci a Pietro Citati, due libri. Conversazione con Paolo Lagazzi» di Doriano Fasoli



Entrare nel lavoro saggistico di Paolo Lagazzi è sempre un'esperienza particolare dati i non comuni interessi e le molteplici sfaccettature culturali, mentali e umane che stanno a monte di questo lavoro. Dopo aver prodotto sul poeta Attilio Bertolucci un'imponente quantità di studi e di scritti (monografie, saggi, antologie, l'edizione delle opere in un «Meridiano» Mondadori, perfino un’indimenticabile narrazione biografica, La casa del poeta, edita da Garzanti nel 2008, introdotta da Bernardo Bertolucci), Lagazzi è tornato da poco a pubblicare un volume che aggiunge una serie di tasselli importanti alle tante pagine da lui già dedicate al poeta. Lo incontro a Milano nel suo studio gremito non solo di migliaia di libri (moltissimi su argomenti magici, esoterici e orientali) ma anche ricco degli oggetti più disparati (statuette e maschere buddhiste, icone ortodosse, calligrafie giapponesi, attrezzi da prestigiatore, chitarre, flauti, spartiti di canti gregoriani…) per parlare anzitutto di questo libro che s'intitola Come ascoltassi il battito d'un cuore e che è pubblicato da Moretti & Vitali.

Doriano Fasoli: Da cosa viene questo titolo così musicale?

Paolo LagazziCome ascoltassi il battito d'un cuore è un endecasillabo appartenente a una poesia di Bertolucci molto intensa e commovente, «Ringraziamento per un quadro». È una poesia di Viaggio d’inverno dedicata a un pittore dilettante di Parma, Fiorello Poli, che un giorno d’estate del 1944 dipinse una veduta di quei campi di Baccanelli, a pochi chilometri dalla città, che appartenevano alla famiglia Bertolucci. Mentre lo guarda dipingere, il poeta sente la naturalezza, la verità del suo gesto artistico: per quanto umili, quei tratti di pennello sono come il battito d'un cuore che pulsa all'unisono con la vita, con la luce estiva che si sposta lentamente sulle cose… La Storia, appena evocata in quell’accenno al fatto che Poli era lì, in campagna, perché «sfollato», cioè fuggito dalla città (Parma ha subìto pesanti bombardamenti nella seconda guerra mondiale), sembra svaporare di fronte a quel piccolo quadro.

Il battito del cuore ha sempre avuto un'importanza primaria per Bertolucci e per la sua poesia…

Sì, tutti i suoi lettori sanno che soffriva di extrasistoli e che ha spesso affermato di comporre i propri versi seguendo il ritmo incerto del proprio cuore. Anche nella poesia dedicata a Fiorello Poli il ritmo dei versi appare dapprima sottilmente irregolare, ma, attraverso piccole crepe o sconnessioni, finiscono per prevalere gli endecasillabi, mentre il cuore del poeta, liberandosi via via della propria angoscia, si fonde col tranquillo battito cardiaco del piccolo pittore, un battito nutrito dalla bellezza semplice e immensa del mondo.

14 ottobre 2018

«Le complesse oscurità dell’“Edipo Re”» di Valter Santilli



La rappresentazione dell'Edipo re vista l'8 luglio, in prima mondiale, nella suggestiva e straordinaria cornice del Teatro Grande di Pompei – pieno di un pubblico giovane – non è propriamente la rappresentazione testuale della tragedia scritta da Sofocle, essa è certamente la pregevole realizzazione teatrale di un grande regista, Robert Wilson, considerato tra i più importanti artisti visuali e teatrali al mondo. Wilson ha rivolto il suo sguardo e la sua creativa sensibilità all'antico mito/leggenda del re Edipo. Wilson con linguaggio artistico multisensoriale/sinestesico, poliglotta e multiculturale, particolarmente espressivo, propone al pubblico un originale 'evento teatrale', uno spettacolo di grande potenza evocativa, fatto di danza, musica e poesia. Lo spettacolo è ispirato alla tragedia Edipo re, l'esemplare opera di Sofocle rappresentata la prima volta ad Atene nel 429 a.C. nel teatro di Dioniso, il teatro che servì da modello per la costruzione dell'antico Teatro Romano di Pompei.

Il regista americano in una intervista tiene a marcare le coincidenze che si sono date in un arco temporale che va ben oltre i due millenni: per questo l'Oedipus di Wilson, dopo Pompei, verrà replicato nel mese di ottobre a Vicenza, nel Teatro Olimpico del Palladio e poi di seguito a Napoli presso il Teatro Mercadante, nel gennaio 2019, prima della tournée internazionale.

Pierre Vidal-Naquet ha scritto, nel testo Mito e tragedia due, che la storia moderna del teatro di Sofocle comincia il 3 marzo del 1585, data in cui venne rappresentato Edipo tiranno nel Teatro Olimpico del Palladio a Vicenza. L'illustre grecista ha modo di commentare che, purtroppo, il cielo dipinto che domina la scena del Teatro Olimpico non può essere paragonato all'aria aperta del teatro greco. Da allora, scrive, ogni generazione tenta di scoprire il vero Sofocle e il vero Edipo, di comprendere quanto più possibile il significato che avesse, per il suo autore e per il pubblico ateniese del V secolo, la rappresentazione di questa straordinaria tragedia.

Nell'era moderna, durante il secolo a noi più vicino, Sigmund Freud è stato colui che più di altri è riuscito a 'rivitalizzare' i contenuti di questa antica e 'oscura' tragedia di Sofocle, rendendo di nuovo il nome e le vicende di Edipo culturalmente vivi, 'palpitanti' e popolari. Freud trasse dalla polverosa trama della antica tragedia alcuni attuali e profondi significati psicologici che egli legò a «un evento [psichico] generale della prima infanzia [...]. Se è così, si comprende il potere avvincente dell'Edipo re». In campo letterario, in epoca moderna, diversi grandi autori hanno sentito il bisogno artistico di rivisitare la tragedia di Edipo – secondo Aristotele essa era la tragedia per eccellenza – tra questi Hölderlin, Hofmannsthal, Gide, Cocteau per finire con Pasolini e la sua opera filmica Edipo re.

26 settembre 2018

«Paesaggi della cultura e trasmigrazione degli sguardi. Intrecci tra necessità rituale e libertà creatrice nell’arte dell’Estremo Oriente» di Giancarlo Micheli


Huīzōng, Piccione su ramo di pesco (1108).


La legge morale nella pelle del serpente


Qualcosa dissolve, a ritroso, nelle profondità della storia, si disfa in fondo ad uno sguardo che, nel tentativo di fissarsi ad un oggetto remoto, finisce per confonderne i contorni al nebbioso paesaggio che, poco fa, quando lo sguardo si levava appena e desideroso di sensibile corrispondenza, lo delimitava ancora entro una forma nitida e tersa.

Sulle antiche pitture vascolari della dinastia Shāng (1766-1122 a.C.) uno dei soggetti rappresentati con maggior frequenza è il demone tāotiè, una figura assai complessa, costruita unendo parti anatomiche di tori, tigri, arieti e serpenti. Della parola tāotiè si era andata perdendo la conoscenza del significato preciso a partire dal periodo feudale degli Stati Combattenti (403-221 a.C.) ed il concetto da essa designato già svaniva inesorabilmente nella cognizione dei cinesi delle dinastie Qín (221-206 a.C.) e Hàn (206 a.C.-220 d.C.), sotto le quali si compì l’unificazione dell’impero, che raggiunse allora un’estensione territoriale paragonabile a quella della attuale Repubblica popolare. Alla luce delle categorie dell’antropologia culturale il tāotiè viene oggi concepito quale simbolo della divinità della Terra, mutevole e caotica espressione delle forze originarie in essa contenute. Una tale definizione del simbolo del tāotiè, del resto, non può che riuscire per noi insoddisfacente, giacché esclude tutta una modalità essenziale di percezioni che ne rendevano vivo il senso all’umanità che lo frequentò da vicino. Lo scorgiamo pertanto attraverso una cortina di nebbie, alla quale è confuso non meno che allo sfondo da cui affiora in minimo rilievo, non meno che al paesaggio cui è unito da un vincolo tanto inestricabile quanto lieve, dove si agita appena, assomiglia alla radice di uno strano albero che, d’altronde, non ravvisiamo meglio di esso, anche perché ecco che, ora, già ci pare che il tāotiè si scuota, voglia sgusciar fuori da quella sua primitiva pelle, ci sembra che frema e strisci: è una serpe avvolta alle rocce di un declivio montuoso, una lasca che sguscia nell’acqua limacciosa di un fiume.

23 settembre 2018

«"L’orsacchiotto Carver e altri segreti" di Riccardo Duranti» di Nicola d'Ugo


Riccardo Duranti
L’orsacchiotto Carver e altri segreti
Ianieri Edizioni, Pescara 2015
144 pp.
€ 10,00
ISBN:  978-88-974-1759-0

L’orsacchiotto Carver e altri segreti è l’ultimo libro di Riccardo Duranti, poeta, narratore, traduttore, editore e per decenni docente di letteratura inglese alla Sapienza di Roma. Un gusto per le situazioni limite attraversa questa raccolta di racconti, e un gusto per l’avventura e l’ironia della vita. La raccolta comprende due racconti lunghi (delle vere e proprie novelle) e due brevi. Tutti sono caratterizzati dall’intensità tematica e dalla scrittura fluida e precisa, ed è stata per me una vera scoperta questo Duranti narratore, conoscendo il poeta, traduttore e docente.

La prima novella, «L’uomo che vedeva il vento», è narrata in prima persona dal protagonista italiano, il quale ricapitola la propria vita da bambino fino all’età adulta. Una storia avvincente e delicata, col protagonista che ha una facoltà percettiva ignota agli altri: vedere gli spostamenti dell’aria, dai grandi moti meteorologici ai più minuti sospiri. Incapace di comunicare agli altri il proprio mondo, si ritrova, fin da piccolo, in una sorta di isolamento intimo che lo ferisce, di persona necessariamente incompresa, finché prova a mettere a frutto le sue destrezze nell’agonismo aeronautico, risultandone fin troppo bravo da destar gelosia, cosa che lo ferisce oltremodo. Vaga poi per il mondo, sradicato anch’egli come l’aria, in cerca di una propria collocazione meno infelice. Finché in Irlanda coglie il senso del sospiro amoroso, dell’aria che avvolge come una luce l’intimità di due (forse) nostri connazionali, avendone una epifania proprio nel momento in cui la sua misantropia lo ha condotto sul ciglio di un’alta rupe per farla finita con la vita:

Era il loro modo di respirare, non proprio all’unisono, ma senza dubbio insieme, che mi aveva colpito e che disegnava attorno ai loro corpi modellati dal vento sull’orlo della scogliera una sorta di aura particolare. Ebbi la fulminea impressione di trovarmi di fronte, forse, quell’utopia di respiro profondo e armonioso che avevo a lungo e inutilmente cercato.

È quel calore, che la sua percezione coglie dell’amore altrui, a ribaltare il senso di tanti sospiri amorosi che egli ha imparato a vedere come strategie conflittuali tra le coppie. La minuta delicatezza con cui Duranti traccia con frasi amabili e senza idiosincrasie espressive la vicenda di quest’uomo, che altri non è che la figura del ‘diverso’, e in quanto tale anche quella dell’artista e scienziato ‘incompreso’ (benché l’autore non lo raffiguri, in quanto tale, esplicitamente), fa della novella un testo che ho amato leggere e rileggere, e che mi fa maggior chiarezza sulla straordinaria dote creativa e intellettuale di Duranti in quanto narratore.

30 luglio 2018

«“Una perfetta vicinanza”, romanzo di Fabio Ciriachi» di Cinzia Baldazzi



Fabio Ciriachi
Una perfetta vicinanza. Romanzo
Postfazione di Giorgio Patrizi
Coazinzola Press, Mompeo (RI) 2017
294 pp.
€ 18,00
ISBN: 9788894175394


A Mantova, nelle Fruttiere di Palazzo Te, nei giorni precedenti il vernissage, un visitatore ammira un maestoso quadro intitolato L'uomo che resta, realizzato con colori dotati di una struttura chimica adeguata a reagire alle condizioni ambientali e mutare in maniera imprevedibile. Il lavoro sarà di annotare qualunque modifica nell'arco di due mesi.

Al centro scorgiamo raffigurato un sessantenne seduto a un tavolino, intento a scrivere a mano su un foglio di carta srotolato a terra, con le estremità spinte nello spazio del dipinto fino ai rispettivi lati. A sinistra, una madre con bambino, a destra, una giovane donna.

In tale atmosfera esordisce Una perfetta vicinanza, ultimo romanzo dell’autore romano Fabio Ciriachi e, quasi a evocare agli occhi del lettore l'immaginaria opera o ulteriori rappresentazioni idonee e pertinenti, suggerisce il bianco di Campigli e gli sfondi urbani di Sironi. Personalmente avrei pensato, in aggiunta, all'eleganza delle sagome di Casorati, ma senza traccia dei tormenti freudiani di Fausto Pirandello o della drammaticità di Annigoni.

La caratteristica cangiante della tela rende il narrato lunghissimo e in progress. Leggendone, quindi, i fogli riempiti quotidie, lo studioso viene a sapere della storia di Cristiano Distansi e Vanessa Lenieri, il rapporto nato online e proseguito nella vita reale, la famiglia di lui (l'ex-moglie Arlette e il figlioletto Massimo) trasferita a Bruxelles, le vicissitudini della relazione con l’esito di una dilagante solitudine.

L’incipit si inaugura nell’aura di un’eccelsa dicotomia della riflessione filosofica elaborata nel celebre dialogo di Platone, intorno al 370 a.C., quando Socrate spiega a Fedro:

Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile per la verità, alla pittura: infatti, le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio; e così fanno anche i discorsi. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa. E una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla.1

Nel dipinto mantovano le figure «ti stanno di fronte come se fossero vive» e non “parlano” in una scala normativa (né potrebbero!), nonostante, in linea con i «discorsi» platonici, il testo redatto dal vecchio «rotola da per tutto»: ricade oltre i bordi del tavolo, provenendo dalla cornice di sinistra e, giunto all’angolo di destra, consente di essere “letto”.

11 luglio 2018

«Lo sbarco salato del risveglio. Conversazione con Marco Pacioni», di Doriano Fasoli



Marco Pacioni insegna storia del Rinascimento nel programma USAC dell’Università della Tuscia (Viterbo) e per l’University of Alberta (Canada). È autore dei saggi «Modernismo e condizione postmoderna» (2005); «Terrore, territorio, mare. Note politiche a Machiavelli, Hobbes, Accetto, Agamben» (2015) e Neuroviventi. Politica del cervello e controllo dei corpi (2016), nonché co-autore (con Michele Carlo Marino e Marco Santoro) di Dante, Petrarca, Boccaccio e il paratesto. Le edizioni rinascimentali delle «tre corone» (2006). Ha contribuito al catalogo della mostra La forza delle rovine (2015) e curato i volumi Poesie edite e inedite (2008) di Michele Ranchetti e La condanna a morte di Pietro Paolo Boscoli (2012) di Luca Della Robbia. Collabora con il manifesto alfabeta2. Del 2014 è il suo primo libro di poesia, Il bollettino dei mari alla radio, edito da Aguaplano, mentre è in uscita questo mese il suo secondo, Lo sbarco salato del risveglio, per i tipi Interno Poesia.

Doriano Fasoli: Pacioni, quando hai scoperto la tua vocazione poetica?

Marco Pacioni: Facevo le elementari. Ricordo che avevamo un quaderno di bella grafia nel quale dovevamo ricopiare poesie e illustrarle. Ricordo che mi aveva attratto l'idea che per le poesie la lingua (grammatica) potesse avere licenze. Ho poi cominciato a scriverne, oltre che a leggerne, di getto in adolescenza. La scrittura poetica mi è sembrata come una sorta di «esercizio spirituale sonoro» attraverso il quale tracciare regole-detti che mi avrebbero guidato nella vita. Una sorta di regola (quella di San Benedetto è ancora una delle mie letture più assidue). Dopo la prima scoperta del piacere di scrivere poesie, sono anche iniziati i problemi con essa. Quello di evitare il più possibile che il narcisismo raggiungesse quote troppe estreme; lo studio critico della poesia degli altri; l'intonazione alla scrittura filosofica. Queste interferenze di pensiero e scrittura le ho vissute anche come impedimenti che per lungo tempo mi hanno portato a rinunciare a scrivere versi. È stato all'estero, in una lingua straniera, quasi per gioco e per impulso di due artisti americani, che ho ricominciato a scrivere. In inglese mi sentivo meno responsabile, meno «io». (Non uso e credo continuerò a non usare né la prima persona né il «come» in poesia). Dall'inglese, molto lentamente, sono poi tornato all'italiano. Non a caso il mio primo libro, Il bollettino dei mari alla radio, che ha avuto la fortuna di incontrare un amico lettore etico finissimo intelligente e colto qual è Raffaele Marciano, ha una sezione in italiano («in lingua») e una in inglese («in linguaggio»). Nel Bollettino ci sono anche fotografie (soprattutto dell'amico Alessandro Celani) che considero parti in ordine sparso della sezione «in linguaggio». Soprattutto, sono presenti gli altri, con i loro testi e immagini. Credo di essere mosso da un afflato lirico, sonoro, musicale, ma mi interessa il limite sublime nel quale quell'afflato diventa dramma e epica. Il mare, protagonista nelle mie poesie, è l'epica per antonomasia.

4 luglio 2018

«Seconda spiaggetta dietro il castello di Lerici», un racconto di Nicola d’Ugo



Che bella la bellezza femminile. Ieri me ne stavo sulla spiaggetta appartata accanto a sette ragazze a seni nudi una più bella dell’altra. La più affascinante era una ragazza dal viso da selvaggia, piccoletta, coi capelli lunghi che le coprivano i seni. Non che avesse brutti seni, erano belli, ma il fatto che i capelli glieli coprissero la rendeva ancora più bella. Era robustina e un bel po’ dopo, quando si è rivestita, mi sono voltato a seguirla con lo sguardo andar via nel suo vestito lungo, bianco e traforato. Mi sembravano le donne del mare descritte da Fosco Maraini, benché fossero italiane e non giapponesi, abbronzate e simpaticissime. La loro maggiore preoccupazione, oltre a camminare nell’acqua vicino alle rocce, era quella di rianimare un pesciolino. Una di loro aveva infatti trovato un pesciolino a riva e credeva che fosse morto. Di fatto, nella sua mano era esanime. Questo le dispiaceva, naturalmente. Le ricadeva in acqua, cercava di raccoglierlo, ma purtroppo era morto. Che peccato.

Recuperato, lo accarezzava nel palmo della mano, con un’altra ragazza che guardava il pesciolino, dispiaciuta anche lei, e speranzosa che forse non fosse morto. Accarezza e accarezza, massaggia e massaggia morbidamente, il pesciolino ha cominciato a riprendere i sensi. Coi polpastrelli e col palmo gentile della ragazza, che parlava di massaggio cardiaco, il pesciolino si è ripreso e lo ha rimesso nell’acqua. Ma dopo pochi istanti sembrava che non nuotasse, che fosse un leggero peso mosso dal lembo d’acqua sulla rena. Allora dispiaciuta ha detto che era morto, e lo ha ripreso in mano. Aveva bisogno di un massaggio, di tenerezza, e, oltre alla tenerezza, ci ha aggiunto colpettini al petto perché il suo cuore riprendesse a battere, premendolo. Temevo che lo schiacciasse.

L’amica con gli occhi di fuori cercava di collaborare col solo potere dello sguardo, che è un potere della speranza, dell’augurio e della collaborazione attenta. Stavo per dirle che era bene non lo tenesse troppo fuori dell’acqua, che rischiava di non respirare, quando una sua amica, che si aspergeva d’acqua il petto per rinfrescarsi i seni dalla calura e sentirne il piacere sui cicciosi capezzoli, mi ha anticipato, per cui la fanciulla, che non ci pensava, si è scusata per la dimenticanza, rimettendo il pesciolino nell’acqua. Ma che fine ha fatto il pesciolino?

Ad un certo punto il cucciolotto di pochi centimetri, punteggiato nelle tenere squame, ha ripreso vitagrazie a queste ragazze,ha iniziato a muoversi nell’acqua, se ne è andato per conto suo. Ha incontrato le sue benefattrici in un recesso di spiaggia tra le rocce, e ha ripreso la propria vita e se l’è portata via tra le onde. Che brave, belle, simpatiche e sensibili ragazze. Che spettacolo di grazia in un frangente del pomeriggio lericino. Quando le ragazze si sono rivestite, se ne sono andate, lasciando dietro, ancora seminuda, una di loro. Ma un’amica, che stava per andarsene, è tornata indietro ad aspettarla, sedendosi sulla sabbia.

3 luglio 2018

«Fine delle fenici. Conversazione con Cesare Mazzonis» di Doriano Fasoli



Cesare Mazzonis nasce a Torino nel 1936. Ha ricoperto diversi ruoli nell’ambito della cultura musicale italiana: è stato, infatti, direttore artistico della Scala per dodici anni, direttore del Teatro del Maggio Musicale fiorentino per undici anni, consulente al Bol'šoj di Mosca, ad Atene, e per Claudio Abbado. Dopo aver vissuto e lavorato a Buenos Aires, Londra, Roma, Milano e Firenze, è stato fino al 2016 di stanza a Torino come direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Oltre che alla musica, Cesare Mazzonis si è sempre dedicato anche alla scrittura: pubblica i romanzi La vocazione del superstite (1973) e Il circolo della vela (1975) per Einaudi e La memoria fastosa (1987) per Feltrinelli. Traduce Arno Holz e Bertolt Brecht per spettacoli di Luca Ronconi e Federico Tiezzi. Sempre per Ronconi scrive il testo dello spettacolo Nel bosco degli spiriti (2008), adattamento del romanzo di Amos Tutuola La mia vita nel bosco degli spiriti; mentre per Aleksandr Raskatov il libretto d’opera Cuore di cane, adattato dall’omonimo racconto di Bulgakov e andato in scena presso il De Nationale Opera di Amsterdam (2010), l’English National Opera di Londra (2010), La Scala di Milano (2013) e l’Opéra de Lyon (2014). Il suo penultimo ultimo libro si intitola Ragnatele sul nulla, pubblicato da Le Lettere: un insieme di riflessioni sul tempo, la morte, le illusioni umane, imbastito e compilato nel corso di molti anni di vita e di lavoro.

Doriano Fasoli: Mazzonis, partiamo dal tuo ultimo libro Fine delle fenici, appena pubblicato da Alpes. Come è nata l’idea? E come si pone rispetto ai tuoi precedenti libri di narrativa?

Cesare Mazzonis: L'idea è nata da letture e ricordi svariati: la Bibbia (la storia Sacra dell'infanzia), Frazer e il suo Ramo d'oro, la mitologia e l’epica greca, un pizzico di Mahābhārata. Con riflessioni o serie o svolto il tutto in grottesco. Poi una lunga riflessione un po’ incantata sul mondo vegetale. Rapporti con i libri precedenti? Forse nessuno.

Sei al passo con la letteratura odierna? Potresti indicare qualche titolo che ti ha particolarmente entusiasmato negli ultimi tempi?

Non direi che sono al passo. Faccio parte della commissione per il Premio Strega, e di media, salvo qualche rarissima eccezione, trovo la cosa un po’ deprimente. Storie minimali: amori, fidanzati, madri e figli, nuore e nonne, frustrazioni sul lavoro… Come suol dirsi: un par di palle! E quasi tutto (colpa degli editori, dei curatori, degli scrittori stessi) con un linguaggio senza personalità, frasi corte per non affaticare le meningi dei miseri lettori, qualche parolaccia per essere «in»… una pena. Certo, ci sono state eccezioni: pochissime. Un libro che mi abbia entusiasmato, ma ormai sono passati gli anni e guarda caso mai ripubblicato: Nel cuore dell'inverno di Dominic Cooper (Einaudi). Manco ripubblicato in Inghilterra. Proprio non capisco la politica delle case editrici, salvo casi rari: pubblicano, sperano in risultati a breve termine, di media non li hanno e mandano al macero, e ricominciano da capo. Non parliamo nemmeno di arte, per carità, semplicemente di introiti che non vedo. 

2 luglio 2018

«Kenzaburō Ōe, “Un'esperienza personale”» di Nicola d'Ugo


Ōe con la moglie Yukari Ikeuchi e il figlio Hikari.

Un'esperienza personale è un romanzo dello scrittore giapponese Kenzaburō Ōe, Premio Nobel per la letteratura nel 1994. Breve e intensa, la narrazione, edita a Tōkyō nel 1964, prende spunto dalla congenita anomalia cerebrale del figlio di Ōe. Particolarmente interessante in questo romanzo è il complesso di Laio che muove l'azione del giovane padre protagonista della storia, in lotta per eliminare subdolamente il figlio lasciandolo scivolare nei meccanismi burocratici delle istituzioni ospedaliere nipponiche.

Il nocciolo fondamentale dell'«esperienza» (narrata in terza persona) è il tentativo del protagonista Tori-bird di rifiutare il proprio passaggio alla maturità, che gli farebbe venir meno certe comodità ovattate dell'eterna giovinezza di giapponese sposato con una donna di buona famiglia. Se non fosse che la vita è più complicata delle aspettative e la nascita di un figlio «bicefalo» e «mostruoso» gli fornisce l'alibi per metter da canto le proprie responsabilità e profittarne per far della sventura del figlio una tragedia in sordina che ricada sul neonato incosciente dell'universo sociale in cui ha visto la luce. E già solo per questo Ōe dimostra una presa demoniaca e geniale che egli saprà sciogliere, da suo pari, in un atto di umanità dell'espressione artistica e filosofica.

Ricordo qui, per inciso, oltre all'Edipo re di Sofocle, il mito della nascita di Mosè, abbandonato alle acque del Nilo, e quello dei fondatori di Roma, i quali costituiscono alcuni antecedenti classici di questo romanzo, seppure essi siano ribaltanti nella prospettiva, poiché lì ne sono protagonisti i figli. Meno discrepante è il fatto che nei testi classici i protagonisti siano dei nobili, a fronte del fatto che in Giappone, non meno che in Italia, il nocciolo duro dei poteri forti si stanzia in contesti locali, anche familiari, piuttosto che in una centralità soverchiante dello Stato.

Sempre per inciso, si noti che il nome del protagonista Tori-bird, anch'esso frutto di una dicotomia 'bicefala', costituisce la ripetizione della parola «uccello» in giapponese e in inglese, come se non fosse possibile denominare l'identità di Tori e Bird se non per due concetti accostabili, ma non coniugabili in un'unità ferma: Ōe scinde in due il carattere del giovane in una matrice nipponica autoctona e in un'aspirazione a prendere il volo per l'Occidente abbandonando le proprie radici e le proprie responsabilità. Al contempo, siccome la traduzione dal giapponese in inglese avrebbe potuto suonare anche Tori-bard, Ōe disgiunge la metafora dell'uccello migratore, che cerca di sfuggire al proprio destino, da quella del poeta cantore, del «bardo» del luogo, della società nipponica, insomma, in cui vive.

Con questo voglio sottolineare che l'ambientazione affatto realistica (e talvolta straordinariamente visionaria e carnale) in cui si dipana la vicenda è arricchita di riferimenti più o meno espliciti ai miti e alle cronache internazionali; al contempo, il linguaggio di Ōe dà luogo ad un sincretismo semantico di non immediata presa, su cui è più facile riflettere a lettura ultimata, in ragione di una poetica attenta al linguaggio e proclive alla messa in crisi delle convenzioni linguistiche, non in quanto puro gioco istrionico del romanziere, ma perché nel linguaggio sono riposti i concetti e il nostro modo di interpretare sensazioni e sentimenti che ad essi rimandano. Notevole è il ricorso, nei romanzi di Ōe, a stili sostanzialmente diversi a seconda della materia trattata.

24 giugno 2018

«Intervista a Tullio Gregory» di Doriano Fasoli


Tullio Gregory e Doriano Fasoli. Roma, giugno 2018

Tullio Gregory è un filosofo e storico della filosofia italiano. Nato a Roma nel 1929, si è laureato in filosofia nel 1950 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza. Di questo ateneo è stato professore ordinario, dal 1962 titolare della cattedra di Storia della filosofia medievale e dal 1967 di quella di Storia della filosofia. È anche direttore del Dipartimento di Ricerche storico-filosofiche e pedagogiche della stessa Università.

Doriano Fasoli: Quando prese a occuparsi di filosofia? E oggi a cosa serve ancora la filosofia?

Tullio Gregory: Preferisco parlare di storia delle idee, data l’ambiguità e la polivalenza del concetto di filosofia nel tempo. Dunque ho cominciato a interessarmi a problemi di storia delle idee negli anni di liceo, anche per suggestioni ricevute dal mio professore di latino e greco, appassionato filologo classico, Antonio Traglia e soprattutto per l’influenza di Ernesto Buonaiuti che ebbi la fortuna di conoscere negli anni di liceo, quando, benché rintegrato nei ruoli universitari dai quali era stato espulso per non aver giurato fedeltà al fascismo, gli fu impedito di tornare a insegnare all’università per l’articolo 5 comma 3 del concordato del 1929, formulato in odio a lui. Mi domanda a cosa serva la filosofia: per fortuna non serve a nulla, se non a soddisfare un interesse personale.

Lei si laureò nel 1950 con Bruno Nardi, un grande medievista e studioso di Dante. Che ricordo ne conserva?

Mi laureai con Bruno Nardi, grande maestro non solo di medievistica e di cultura rinascimentale, ma soprattutto maestro nell’insegnare a leggere i testi, ad amarli e studiarli nella loro fattualità e in tutte le implicanze concettuali o simboliche.

Lei scrive con il computer o si ritiene ostile alla tecnologia?

Scrivo con la penna stilografica, quindi con l’inchiostro; ciò non significa che sia in alcun modo ostile alle tecnologie informatiche. Tenga presente che alcune banche dati di rilievo internazionale nel campo soprattutto della terminologia di cultura, le ho promosse io con l’istituto Lessico Intellettuale Europeo (CNR) da me fondato e diretto per oltre cinquant’anni.

21 giugno 2018

«Banco di prova. Intervista a Patrizia Carrano» di Doriano Fasoli



Patrizia Carrano è nata a Venezia ma vive a Roma. Ha scritto per molti giornali, fra cui Sette, il magazine del Corriere della Sera, per la televisione, il teatro e la radio. Fra i suoi libri più noti La Magnani. Il romanzo di una vita (Rizzoli, 1992), Notturno con galoppo (Mondadori, 1996), Illuminata (Mondadori, 2000), Donna di spade (Rizzoli, 2005), Un ossimoro in lambretta (ItaloSvevo, 2016). È stata tradotta in cinque lingue.
Appena uscito per i tipi ItaloSvevo, Banco di prova. Indagine su un delitto scolastico rievoca un fatto di cronaca che ha avuto per protagonista un ragazzo di nome Claudio Liberati, studente dello storico liceo romano Torquato Tasso all'inizio degli anni Sessanta. Ne parliamo con l'autrice Patrizia Carrano.

Doriano Fasoli: Prima domanda, banale ma inevitabile. Com'è nata l'idea di questo romanzo breve?

Patrizia Carrano: Sono stata anch' io una allieva del Tasso negli anni in cui Claudio ha fatto il ginnasio e la prima liceo. Ma avevo volutamente seppellito in un angolo della mia memoria la sua vicenda, che pure mi aveva scosso profondamente. Più di mezzo secolo dopo sono tornata in quel liceo a tenere una lezione per un concorso letterario fra studenti e l'odissea esistenziale ed emotiva di Claudio mi si è parata davanti. Non potevo non scriverne, non potevo non cercare di capire il segno e il senso di quanto era accaduto.

Il sottotitolo del libro è Indagine su un delitto scolastico. Un delitto presuppone un colpevole. Sei riuscita a scoprirlo?

Direi che ho scoperto una congiura. Quella del mondo degli adulti nei confronti della giovinezza. Quella di una scuola autoritaria e non autorevole. Quella di un Paese – l'Italia del boom – che non era capace di ascoltare voci dissonanti. Quella di genitori ciecamente decisi a ottenere il «pezzo di carta» per i loro figli, allo scopo di salire sull'ascensore sociale. A quell'epoca l'Italia aveva un Pil che cresceva del 9% all'anno e un tasso di disoccupazione del 3%. Ora la pensiamo come un Paese felice e risolto. Non era così.

Tu parli di dati. Eppure il racconto ha un tono assolutamente letterario.

Era quello che volevo. Ho cercato di entrare letterariamente nel cuore di una classe di adolescenti dei primi anni Sessanta. Di percepire il disagio, la sofferenza che alcuni di loro hanno provato, e di farli miei. Non volevo scrivere un racconto a tesi. Non l'ho mai fatto, in nessuno dei miei libri.

19 giugno 2018

«Gabrielle Rubin e il romanzo familiare di Freud. Conversazione con Valter Santilli» di Doriano Fasoli



Valter Santilli è il curatore della edizione italiana del libro Il romanzo familiare di Freud di Gabrielle Rubin, psicoanalista e scrittrice francese. È un bel testo, agile nello stile e originale nei contenuti. Il libro è il frutto di una ricerca dell’autrice – condotta con metodo rigorosamente freudiano – sulle tracce del romanzo familiare di Freud. Questo suo lavoro appare ispirato da una suggestiva frase di Ernest Jones: «Si dovrebbero studiare le conseguenze che su Sigi hanno avuto le complessità della sua famiglia di origine», messa in esergo. È bene ricordare quanto complessa fosse la ‘costellazione familiare’ di Freud: il padre, Jacob, aveva circa venti anni in più di Amalia, la madre di Freud. Jacob Freud era vedovo e aveva avuto due figli da un precedente matrimonio, Emanuel e Philipp, questi vivevano con lui e avevano all’incirca la stessa età della loro giovane matrigna. Emanuel inoltre era già sposato e aveva un figlio, John, di un anno maggiore di Sigmund: Freud dunque appena nato era già lo zio di un nipote che era più grande di lui di un anno.

Doriano Fasoli: Chiedo al curatore della edizione italiana del libro come e quando è nata l’iniziativa editoriale di pubblicare in italiano questo testo, poco conosciuto, che ha come suo audace obiettivo quello di riscrivere una parte della vita di Freud e di ridefinire alcuni significati delle sue opere attraverso il filtro del romanzo familiare.

Valter Santilli: Nella presentazione del libro ripercorro per sommi capi le tappe che mi hanno portato ad avvertire la necessità di tradurre e pubblicare in italiano questo libro. Trovai e acquistai questo libro di Gabrielle Rubin in una piccola e ben fornita libreria di Montpellier, nel 2006. Rimasi superficialmente colpito dal titolo, per la sua vaga suggestione letteraria, più che dalla scarna immagine di copertina… Una volta tornato a Roma riposi il libro su uno scaffale della mia libreria, di non facile accesso, e lì è rimasto per qualche anno…

E quindi quando e perché iniziasti a leggerlo?

Iniziai a leggerlo quando mi avvicinai, personalmente e professionalmente, alla psicoanalisi e quando il mio interesse per le opere di Freud andò oltre il mero interesse culturale. Quando lessi per la prima volta il libro della Rubin, Le roman familial de Freud rimasi colpito dall’audacia con cui ella si avventura nel ripercorrere, con metodo rigorosamente freudiano, alcune tappe cruciali della vita di Freud, le tappe che, secondo l’autrice, furono poi determinanti per le successive scoperte geniali del padre della psicoanalisi. Rubin in questo suo libro ne rimette in gioco i significati.

Sei dunque rimasto colpito dai questi dati biografici che nel libro vengono rimessi in gioco?

Ti dirò che alla prima lettura del Romanzo familiare di Freud avvertii una certa fastidiosa irritazione pur apprezzandone l’originalità. La mia prima imbarazzata sensazione era che l’autrice volesse mettere Freud ‘sul lettino’ e volesse così riattivare il geniale lavoro ‘autoanalitico’ che Freud aveva compiuto, a suo tempo, con grande audacia e con grande coraggio.

3 giugno 2018

«Sei poesie de 'Gli alberi, per esempio'» di Costantino Belmonte




La contr’ora

osservazione in agosto, il 16


Sembra faccia paura lo sfoltirsi
di persone,
dalla fine di luglio a degradare,
                               nel buio. Ma il diradarsi di vite
comporta l’infittirsi di vita – la fluente,
infiltrante, inaridente, dilagante gloria
negli spazi liberi.
                 Gli spruzzi di oro antico sulle siepi
basse sono già minaccia – e le gocce numerate
della pioggia nell’afa che non bagna
                                             neanche se stessa.
Le cicale
hanno sfregato a fondo, sminuzzando
gli angoli annerati di un minuto
solare. Lungo il ritorno a casa
se ne calpesta l’opera, la segatura
di miliardi di corolle
tenere, la scia di sangue verde ed ocra
ripulita dai plotoni di api.
                  E qualche desiderio, un brano
di conversazione, tre sospiri si levano
in volute di polveri, raspati dalle elitre violente
degli insetti; ricadendo quiete.

La piazza che si rende ora
desertica mi fa più compagnia. La popolo
con le presenze certe di chi
immagino siano.



* * * 

Gli alberi, per esempio

osservazione in Febbraio, il 22


Fronde di testimoni, ecco, per esempio
                                         gli alberi.
Su quali
              fondali
devastati stanno imperturbabili. Assediati
da quante vite
                brute si schiomano. E non
se ne vanno. In autunno,
per stanchezza, 
                         sfogliano.
                         Agli
alberi, seriamente, non importa.