16 dicembre 2015

«La pelle mistica. Conversazione con Luciano Venticinque» di Doriano Fasoli

Luciano Venticinque è nato ad Acireale. Medico chirurgo, si è specializzato in Dermatologia nel 1995 e in Psicoterapia cognitivo-comportamentale ad orientamento costruttivista nel 2008. Per sette anni è stato medico interno all'ospedale Vittorio Emanuele di Catania e dal 2007 al 2010 titolare dell'ambulatorio di dermatologia presso lo stabilimento termale Santa Venera di Acireale. È membro della Società Italiana di Dermatologia Psicosomatica. Da sempre studioso della materia, ha pubblicato alcuni articoli di dermatologia psicosomatica su Formazione Psichiatrica, rivista trimestrale della clinica psichiatrica dell'Università di Catania. Esercita attualmente la libera professione nella sua città natale. Il suo copioso studio La pelle mistica è uscito in questi giorni per i tipi Alpes.

Doriano Fasoli: Quando ha deciso di scrivere La pelle mistica e cosa lo ha ispirato, dottor Venticinque?

Luciano Venticinque: L’idea di scrivere un libro sulle stimmate mi è venuta seguendo un programma tv su Padre Pio che nemmeno conoscevo. Il fatto che le stimmate del frate scomparvero senza esiti cicatriziali fu per la mia mentalità dermatologica una sorpresa ed una meraviglia, così ebbi la curiosità di approfondire l'argomento. Il testo si è sviluppato nel tempo quasi da solo; i vari capitoli venivano a me nell'ispirazione, quasi non li cercavo.

Di cosa si occupa la psicodermatologia?

È una branca della dermatologia che tratta delle relazioni psiche/cute. Ci sono disagi esistenziali e conflitti psichici, oltre che dinamiche relazionali problematiche, che, sulla base di particolari strutture mentali della persona, possono avere ripercussioni sulla pelle che si manifestano in forma di lesioni ben precise. La psoriasi ne è un esempio classico, i cui aspetti conflittuali psichici sono conosciuti da tempo. E possiamo aggiungere l'acne, l'eczema, la vitiligine, l'orticaria, ecc.

A chi si rivolge il saggio La pelle mistica?

Il saggio è fruibile da tutti: dal lettore curioso al dermatologo, al teologo, allo psicologo, a chi si occupa di professioni d'aiuto. A chi vuole comprendere meglio la propria malattia della pelle. Infatti, la lettura della sezione clinica potrebbe indurre nel lettore fenomeni di identificazione di eventi comportamentali ed emotivi che lo possono condurre a prese di consapevolezza personale, o semplicemente al desiderio di maggiore comprensione della propria storia di sviluppo e, chissà, magari intraprendere una psicoterapia.

A suo parere, dottor Venticinque, quali potrebbero essere le attuali novità nel campo della psicodermatologia?

Questa disciplina ha ottenuto un grande slancio dal recente sviluppo della psico-neuro-endocrino-immunologia (Pnei), la quale ha evidenziato i rapporti che intercorrono tra psiche, sistema nervoso, endocrino ed immunologico all'interno dei quali, come in un sistema circolare e a rete, si creano azioni e contro-azioni con continue influenze e comunicazioni da un sistema all'altro. Si applica a tutto ciò il moderno paradigma della complessità. A questo si aggiungono le conquiste delle neuroscienze e, per ultimo, ma di grande importanza, le scoperte sulle caratteristiche del rapporto diadico madre-figlio apportate dalla teoria dell'attaccamento di Bowlby, psicoanalista britannico (1907-1990). Egli si occupò dello sviluppo cognitivo ed emotivo del neonato all'interno delle complesse relazioni con le figure di accudimento. Una delle fondamentali acquisizioni, importante per la psicodermatologia, è l'aver dato il giusto significato alla natura ed alla qualità dei «contatti» intercorrenti tra madre e bambino. La malattia della pelle pertanto può trovare le sue radici in un impoverimento affettivo ed uno scarso contatto pelle-pelle. Semplicemente potremmo parlare di fame di carezze, ma le dinamiche sono molto più complesse. Un sano accudimento materno pertanto può porre le basi per il futuro equilibrio psichico e la salute in genere. Il mio contributo clinico è l'aver applicato la psicoterapia cognitiva, che si è sviluppata da queste basi concettuali, nel paziente dermatologico. In psicodermatologia, infatti, ha fatto sempre da padrona la psicanalisi freudiana.

1 dicembre 2015

«Come le pietre e gli alberi. Conversazione con Domenico Chianese» di Doriano Fasoli

Domenico Chianese è psicoanalista con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana, di cui è stato Presidente dal 2001 al 2005. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. È autore di Costruzioni e campo analitico (Borla, 1997), tradotto in spagnolo (Lumen, 2004) e in inglese (Routledge, 2007), e di Un lungo sogno (Angeli, 2006). È coautore con Andreina Fontana di Immaginando (Angeli, 2010), tradotto in francese (Itaque, 2015), e ha curato con Andreina Fontana il libro a più voci Per un sapere dei sensi (Alpes, 2012). Il suo ultimo libro, uscito lo scorso luglio, è intitolato Come le pietre e gli alberi ed è edito da Alpes.

Doriano Fasoli: Dottor Chianese, cosa evoca il titolo del tuo ultimo lavoro Come le pietre e gli alberi?

Domenico Chianese: Il titolo Come le pietre e gli alberi è tratto da una poesia di Borges, «Semplicità» (1923), che mi è particolarmente cara e che mi ha fatto compagnia in vari momenti della vita e che si conclude con i seguenti versi:

Non ammirazioni né vittorie
ma semplicemente essere ammessi
come parte di una Realtà innegabile,
come le pietre e gli alberi.

Come si configura?

Il titolo indica il contenuto ed il percorso del libro. Il senso della vita ci è dato non solo dalle persone, ma anche dalle cose che ci circondano: pietre, alberi, fiumi, case, oggetti; si nasce nel mondo e si diviene con il mondo. Passando alla psicoanalisi, partendo da tali premesse, sono giunto alla consapevolezza che il campo analitico che si instaura tra analista e analizzando è attraversato dalla dimensione estetica che è patrimonio di ogni uomo e si fonda su dinamiche percettive (aisthesis) che costituiscono l’esperienza del mondo e sono in relazione con i processi primari del vivere, con le pulsioni di vita. Da questa prospettiva l’estetica è anche un’etica che promuove in analisi la cura di sé e degli altri tracciando la strada del nostro vivere. La psicoanalisi riesce così a coniugare eros e logos, poesia e ragione, musica e pensiero, avviando un salto antropologico che comporta il superamento di quel nichilismo e di quella barriera tra scienza e arte che ha caratterizzato una parte della cultura del Novecento.

«Ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell’uomo. Giacché l’estetica è la madre dell’etica. Le categorie di "buono" e "cattivo" sono, in primo luogo e soprattutto, categorie estetiche che precedono le categorie del "bene" e del "male". In etica "non tutto è permesso" proprio perché "non tutto è permesso" in estetica, perché il numero dei colori nello spettro solare è limitato. Il bambinello che piange e respinge la persona estranea che, al contrario, cerca di accarezzarlo, agisce istintivamente e compie una scelta estetica, non morale». Sei d’accordo con questa riflessione del poeta Iosif Brodskij?

Da quanto ho detto prima, comprenderai perché ho utilizzato parte del discorso di Brodskij che egli tenne nell’occasione dell’assegnazione del Nobel per la letteratura nel 1987. Un breve capitolo del libro ha per titolo la nota frase di Brodskij: «L’estetica è la madre dell’etica». Per il grande scrittore russo, l’estetica è «un mezzo di difesa contro l’asservimento», quanto più ricca è l’esperienza estetica di un uomo, «tanto più netta sarà la sua scelta morale e tanto più libero sarà lui stesso». Secondo Brodskij, il senso estetico si sviluppa precocemente nel bambino. Io condivido profondamente tale opinione. Nella prima parte del mio libro parlo estesamente di alcune recenti ricerche in campo antropologico che attestano il sorgere dell’estetica in stadi molto precoci dello sviluppo umano. Alcuni antropologi ci descrivono un mondo prima dell’«umanità», popolato da ominidi che, seppure sprovvisti di quei caratteri da sempre associati all’essenza dell’uomo (linguaggio, codici culturali, arte, religione), possedevano una sensibilità estetica ereditata, secondo Darwin, dalla loro genealogia evolutiva. L’estetico si trova in un rapporto di co-evoluzione con l’acquisizione della dimensione simbolica; e, a loro volta, la competenza simbolica (che nasce dal grembo fertile dell’estetico) e l’architettura cerebrale sono anche esse connesse in una relazione co-evolutiva. In sintesi, l’estetico è stato ed è un elemento non secondario nella costruzione dell’uomo, sia dal punto di vista filogenetico che ontogenetico. Sia filogeneticamente che ontogeneticamente l’estetico sorge dall’interazione precoce, nei giochi di finzione, tra la madre e l’infante. Tutto ciò conferma la tesi di Brodskij che l’estetico nasce nel bambino in fasi precoci della crescita.

24 novembre 2015

«Cinque suggerimenti sulla scrittura dei romanzi» di Jane Smiley


La cosa che mi piace anzitutto ricordare della scrittura dei romanzi è un appunto che ho visto incollato al muro della stanza di un'amica all'università magistrale: «Non vi ha chiesto nessuno di scrivere quel romanzo». Quindi scrivere romanzi è una scelta: potete sempre fermarvi, sempre continuare. Siete liberi di fare tutto quello che volete. Molti romanzieri cominciano a scrivere romanzi perché sono stati fervidi lettori. Quasi tutti i romanzi, in quanto voluminosi e difficili da tenere sotto controllo, sono imperfetti. Normalmente, ciò che è «perfetto» e ciò che è «ambizioso» non sanno coesistere in uno stesso romanzo. Per cui il grosso dei lettori ha una miriade di opinioni su come perfino un romanzo stupendo, amato, da brivido possa essere leggermente meglio. E allora facciamo una prova. E andiamo a scoprire come scrivere i romanzi sia più difficile e più facile di quel che sembri. Ecco alcuni suggerimenti:

1. Siate la tartaruga, non la lepre. Si impara molto prendendo tempo, prestando attenzione a quel che succede intorno a sé e indugiarvi. Ogni stesura è anzitutto e soprattutto un'esplorazione prima ancora di essere un'opera d'arte. Bisogna finire di esplorare prima di dar forma, per cui è di assoluta importanza che arriviate alla fine della prima stesura.

2. Leggete molto. Farete vostre parecchie informazioni senza che ne abbiate intenzione. La familiarità e il piacere generano l'agio. Quando leggete altri romanzi assimilate i modelli di ciò che va fatto e di ciò che non va fatto. Quando leggete altri tipi di letteratura, l'idea di cosa sia un romanzo si forma da sé per contrasto. E ogni tematica richiede qualche sorta di ricerca, se non altro per stimolare le vostre idee.

3. Guardate e ascoltate. Non indugiate mai ad osservare le persone, ad origliare, a porre domande ‘innocenti’. Vi è necessario sapere come gli individui si comportino. I romanzi sbocciano nell'energia della vita reale. I personaggi dei romanzi cercano di emulare la varietà umana. Non potete conoscere la varietà umana e al contempo fare le persone garbate.

4. Esaurite la vostra curiosità per il progetto prima di mostrarlo a qualcun altro. Lasciate che le vostre idee arrivino a svilupparsi senza ricevere indicazioni da altri; poi, quando mostrerete loro la vostra opera, utilizzate le loro risposte come indicazioni che vi spingano avanti. Può richiedere parecchie stesure e molto tempo per raggiungere l'abilità che vi permetta di far vostro un dato argomento, e quando ci riuscirete potrete rimanere soddisfatti o insoddisfatti del vostro risultato. Se sarete insoddisfatti, le indicazioni altrui vi offriranno idee su come dar forma ulteriore al vostro romanzo. Se sarete soddisfatti, le indicazioni altrui vi faranno sapere se il vostro romanzo è leggibile e fruibile.

5. Concentratevi sul godimento dell'attività in sé e lasciate che le ricompense, per quel che sono o potrebbero essere, badino ai fatti propri. Se amerete l'attività in sé, sarete felici. Se rivolgerete l'attenzione alle ricompense, sarete infelici.

Quindi, seppure nessuno vi abbia chiesto di scrivere quel romanzo, potete, dovreste farlo, e allora buona fortuna!



(Traduzione di Nicola d'Ugo)


19 ottobre 2015

«Laing R.D., l'ombra del maestro. Intervista a Valter Santilli» di Doriano Fasoli

Valter Santilli

Laing R.D., l'ombra del maestro è il titolo del libro, edito da Alpes nella collana «I territori della psiche», scritto da Valter Santilli e da Antonello Carusi. Il libro traccia il percorso intellettuale e professionale dello psichiatra Ronald D. Laing. Gli autori si focalizzano in particolare, nelle due distinte parti del volume, sui temi «Laing e la psicoanalisi» e «Laing e la psicoterapia». Fa naturalmente da sfondo nelle considerazioni sviluppate dagli autori la rivoluzionaria pratica psichiatrica del medico scozzese derivata dal suo pensiero profondamente radicato nell'ottica esistenzialista. Come è scritto nel retro della copertina del libro, i due autori motivano il loro lavoro non solo come propria particolare esigenza di voler rendere omaggio alla figura di Ronald Laing a distanza di 25 anni dalla sua prematura e improvvisa scomparsa, ma anche come necessità di riconsiderare l’‘attualità’ di Laing come professionista e come intellettuale. Nelle parole degli autori: «Egli sembra oggi volerci interrogare attraverso gli aspetti, teorici e clinici, più stimolanti che furono propri del suo ‘insegnamento’.» Valter Santilli, medico e psicoterapeuta, ha pubblicato articoli su temi di psicoterapia, di medicina psicosomatica e di criminologia clinica. È tra i fondatori della Società Italiana Milton Erickson (SIME), ed è didatta presso la Scuola di Specializzazione in Ipnosi Clinica e Psicoterapia Ericksoniana e presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Relazionale (IIPR), entrambe con sede a Roma. Abbiamo già avuto occasione di conversare su alcuni temi, clinici e letterari, da lui affrontati in una sua recente pubblicazione, Il terapeuta in gioco, nella quale, in maniera interessante, sono stati intrecciati brevi saggi, storie cliniche e brevissimi racconti. Gli chiedo ora di voler esporre in modo articolato le motivazioni e le ispirazioni che sono alla base di questo nuovo libro: «Quando Antonello Carusi mi ha proposto di scrivere su Laing, confesso che ho sentito un sentimento di distanza sia dai temi specifici, professionali e personali, che sono propri del geniale personaggio, sia dal clima culturale dell'epoca in cui egli visse pienamente le sue vicende umane e professionali. Mi sono allora interrogato su quanto Laing potesse essere ancora presente nella mia formazione professionale e intellettuale prima di potermi azzardare a scrivere su di lui. Nel periodo di sospensione che c'è stato ho dovuto compiere un lavoro di memoria oltre che di studio, per ripercorrere gli anni in cui Laing effettivamente rappresentò un riferimento brillante non solo per i professionisti della salute mentale più sensibili all'esigenza di un cambiamento delle proprie prassi terapeutiche, ma anche per il movimento giovanile antiautoritario che negli anni '60 e '70, in Europa e in Nord America, con le loro manifestazioni nelle piazze delle principali capitali europee e all'interno dei campus delle migliori università americane, stava scuotendo le certezze sociali e i principi culturali che erano patrimonio delle classi “borghesi” in Occidente. Sono così riuscito a ri-scoprire che Laing fu effettivamente uno dei personaggi influenti che aveva avuto un posto nel mio ‘mitico’ immaginario adolescenziale . Lo spazio che egli poteva occupare nella mente di un giovane liceale immerso nella ‘cultura’ della contestazione studentesca dell'epoca prescindeva dal fatto che Laing fosse stato ormai indicato anche come guru del movimento cosiddetto ‘antipsichiatrico’. Durante questo lavoro di ri-memorizzazione è stato curioso per me constatare come io stesso avessi quasi dimenticato di aver avuto a suo tempo la fortuna di conoscere Ronald Laing durante un seminario da lui tenuto a Milano nel 1986 o forse 1987. Questo conferma, per ciò che ci ha riguardato come autori del libro, quanto egli sia stato dimenticato, se non addirittura ‘rimosso’, dalla attuale generazione di terapeuti: e quindi, in senso culturale più ampio, rimosso dalla contemporaneità. E dunque, nel convincermi della necessità di scrivere su Laing, ho ripercorso con soggettivo piacere intellettuale e con particolare interesse storico le memorie del clima culturale di quegli anni che hanno coinciso con la mia adolescenza e con la mia prima giovinezza. Durante quegli anni il personaggio Ronald Laing era sicuramente abbastanza conosciuto dai professionisti più progressisti della salute mentale, oltre che essere divenuto un intellettuale già abbastanza popolare presso alcuni strati del movimento giovanile e studentesco in Europa e in Nord America. Questo sentimento di necessità nel volermi occupare di Laing mi ha spinto naturalmente a rileggere con interesse le sue opere, alcune delle quali (ad esempio, I fatti della vita e Conversando con i miei bambini), benché ritenute minori, ho trovato non solo particolarmente interessanti e attuali nei loro contenuti, ma formalmente e narrativamente anche molto apprezzabili. In queste due libri, così come in altri, sono molto evidenti le particolari qualità espressive, in senso letterario, che rivelano il suo autore come un apprezzabile scrittore.»

Doriano Fasoli: Quali sono i temi portanti del vostro libro, Dottor Santilli?

Valter Santilli: Antonello Carusi ha ripercorso con rigore, metodologico e storico, la formazione analitica di Ronald Laing e i suoi legami 'analitici' con personaggi del calibro di Donald Winnicott e Wilfred Bion. Carusi ha approfondito in particolare proprio i legami e le affinità che uniscono Laing a Winnicott, pur nella considerazione che Laing ad un certo punto del suo percorso professionale volle comunque distaccarsi dall'ambiente psicoanalitico londinese, da quegli autorevoli e influenti personaggi e dall'istituzione della Tavistock Clinic, dove egli aveva comunque completato la sua formazione psicoanalitica. Questo distacco avvenne dopo la pubblicazione, nel 1960, del libro L'io diviso, che ha un significativo sottotitolo: Studio di psichiatria esistenziale. Carusi ripercorre inoltre una sintesi della evoluzione intellettuale di Laing seguendo il filo delle sue opere scritte: a partire da L'io diviso, che lo aveva già consacrato come enfant prodige della psicoanalisi e della psichiatria, fino a Nascita dell'esperienza, l'ultima delle sue pubblicazioni ritenute particolarmente significative. In questa sintesi del percorso di idee di R. D. Laing, viene evidenziata l'influenza che hanno avuto sul suo pensiero medico e psichiatrico alcuni importanti filosofi: tra i più significativi Heidegger, Kierkegaard e, in particolare, Sartre, che fu una delle influenti personalità della cultura dell'epoca che Laing volle riconoscere come maestro e con il quale riuscì ad avere intensi contatti intellettuali. Sartre non mancò di ricambiare la sua pubblica stima, firmando ad esempio una breve ma intensa prefazione ad uno dei libri più impegnativi di Laing, scritto insieme a Cooper, Ragione e violenza.

7 settembre 2015

«Il discorso amoroso. Conversazione con Cristiana Cimino», di Doriano Fasoli

Cristiana Cimino, psichiatra e psicoanalista di formazione freudiana e lacaniana, esercita a Roma. Membro associato della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), ha scritto numerosi testi per riviste specializzate, sia italiane che straniere. È stata co-editor per anni dell’European Journal of Psychoanalysis. Si occupa da tempo del pensiero di Elvio Fachinelli. La presente conversazione prende spunto dall'uscita del suo recente studio Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile, pubblicato in questi giorni per i tipi manifestolibri.

Doriano Fasoli: Dottoressa Cimino, il titolo del suo libro Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile riecheggia quello assai noto di Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso… C’è un qualche collegamento?

Cristiana Cimino: Si tratta, evidentemente, di una citazione che in qualche modo vuole essere un omaggio al pensiero di un autore che ha accompagnato la mia storia e la mia formazione. Il suo Frammenti, sebbene sfortunatamente abusato, rimane un testo unico, che si colloca – o meglio, non si colloca – in un territorio di confine, e dunque fertile, tra letteratura, filosofia, semiotica, psicoanalisi: e potrei andare avanti, con la grazia disinvolta propria di Barthes. Il mio testo è costruito in modo molto differente, ma, egualmente, cerca di cogliere alcuni nuclei del discorso amoroso.

Su cosa poggia il discorso amoroso?

La mia ipotesi è che abitualmente il discorso amoroso, ossia la forma inconscia che prende il legame amoroso tra gli esseri umani, si fondi sulla ricerca dell’eguale, del già noto, di ciò che riporta a sé, al di là della scelta di genere. Questa esclusione del reale dell’Altro è il tentativo di non ingaggiarsi con i suoi aspetti estranei, dissonanti, che sempre sfuggono e provocano angoscia. Se si riesce a sostenerla si apre la possibilità di fare un legame in cui l’estraneità dell’Altro diventi una risorsa, forse l’unica, di entrare davvero in rapporto. Questa è l’altra forma di discorso amoroso ipotizzabile, se ci risolve ad abbandonarci all’Altro e al potenziale spaesante di cui è portatore.

«A letto c’è sempre calma piatta,» affermava Lacan… Cosa intendeva dire?

Il punto è che l’atto sessuale, il godimento in quanto tale, non è di per sé segno d’amore, per questo non c’è rapporto sessuale e dunque, dal lato dell’amore, a letto c’è calma piatta, c’è solo godimento dei corpi. Qui Lacan rimanda all’insufficienza del fallo che, incredibilmente, è proprio l’ostacolo all’amore. Esso concentra in sé tutto il godimento, godimento fallico, appunto, che, come dirà Lacan chiaro e forte nel Seminario XX, non ha a che vedere con l’amore. La scommessa è quella di andare oltre il registro fallico e attingere a un altro godimento, quello femminile, che ha più possibilità di sperimentare quell’assoluto che è l’amore. Il termine femminile non è riferito a un’appartenenza di genere ma a una posizione psichica e direi etica che anche un uomo può assumere.

Cosa l’ha spinta a pubblicare questo libro oggi?

In parte il semplice fatto che, lavorando sul tema da tempo, desideravo separarmi dal prodotto di questo lavoro. Ma soprattutto perché ho l’impressione che oggi ancora più che in altri momenti storici la questione del rapporto tra i sessi sia urgente. Il cambiamento su quel piano non è un lusso, come si potrebbe pensare, a fronte di altre priorità, è una priorità in sé. Persino Marx ne era convinto. Oltre la sua ‘impossibilità’ – il non c’è rapporto sessuale di Lacan – mi è sembrato di cogliere, nella mia pratica clinica, una domanda di novità, di apertura a possibilità di fare un legame d’amore che si collochino altrove rispetto al modello incestuoso, endogamico, così come ho cercato di riportarlo nel libro. Valeva la pena raccoglierla.

6 settembre 2015

«James Joyce, Molly Bloom e Madre Natura» di Nicola d'Ugo

Constantin Brancusi: Simbolo di James Joyce

Un’idea è impressa in Ulisse di James Joyce: il movimento. La staticità è omessa e se Joyce indugia nel descrittivismo più capillare, anche il dettaglio ricade nel buco nero d’una mera accidentalità. È una questione di contesto, che in Joyce è ribaltato rispetto ai ready-made di Marcel Duchamp. Quest’ultimo estraeva dal contesto ciò che era immanente e contaminante nella sua suggestività, così che l’oggetto potesse apparire nel suo isolamento anatomizzato. Joyce fa la stessa cosa, ma al contrario: senza oggetti, con le parole, ossia coll’astrazione referenziale, l’arbitrarietà denominativa e l’espressione menzognera riposta nel cuore pulsante d’ogni principio semiotico.

In Joyce c’è la contaminazione e l’influenza subliminale che è presente nei primi lavori di Duchamp, ma anziché astrarre gli oggetti della quotidianità dal loro valore d’uso, lo scrittore irlandese affonda le radici del pensiero nell’intrico inestricabile del linguaggio, in una semiosi tendente all’infinito, senza dar la possibilità all’ermeneuta di chiudere il suo magico cerchio del senso. O meglio: glielo permette, ma limitatamente. «It is impossible to me to write these episodes quickly» («Mi è impossibile scrivere questi episodi velocemente»), si giustificava Joyce nel 1920 con chi gli chiedeva una più celere stesura di Ulisse. E aggiungeva: «The elements needed will fuse only after a prolonged existence together» («Gli elementi necessari si fonderanno solo dopo una prolungata coesistenza»).¹ Joyce colloca gli oggetti in contesti fittissimi e strutturati, finché si slaccino da sé, ipostatizzandosi, per poi riaffiorare altrove in una precarietà semiotica in cui prende corpo il nerbo animista e psicologista e poi non c’è già più.

Occorre contestualizzare la letteratura: sempre. Non che sia da offrirgli di necessità il suo territorio nell’ampia cornice storica in cui l’opera è stata realizzata. Sarebbe poca cosa questo slancio laborioso e meritorio. Il contesto lo dà il lettore: cosa mi sta evocando questo testo che ho sotto il naso, sia esso il mastodontico, filosofico e dolcissimo Guerra e pace di Lev Tolstoj o un’accorata, delicata poesiola tutta rime dell’intimista Giorgio Caproni? Virginia Woolf s’è piegata anima e corpo nell’intento di far del testo un mero (ma fondamentale) ponte tra lo scrittore e il lettore: un ponte tremolante su acque agitate, si potrebbe dire.

James Joyce rende al sommo grado questa impresa. Prima c’è il testo, sì, ma il testo non è il fine della scrittura, non è il luogo epigrammatico e monumentale d’un atto autoritario dell’autore, la monologica dettatura di ciò che debba dirsi del mondo contemporaneo. Al suo fondo, al di là dell’occhio mobile del testo, c’è il lettore, la sua attività costruttiva, le sue potenzialità nel far luce sui mille e più misteri di Ulisse.

Joyce contestualizza e poi via: ciò che è stato collocato in un luogo riappare magicamente ad illuminarne un altro. Delle idee dell’autore e delle aspettative del lettore non c’è che una pallida traccia. La letteratura smette di essere espressionistica, di modellare attraverso i lieviti della forma le idee preliminarmente approntate per uso e consumo d’un lettore che voglia identificarsi con la condizione umana di un altro uomo: lo scrittore che darebbe voce ai sentimenti del lettore. Non è stato sempre così o quasi? Se La divina commedia secondo Michail Bachtin o l’Amleto per Harold Bloom costituiscono il primo momento ‘moderno’ segnato dall’autocoscienza del personaggio, Ulisse costituisce forse il primo momento dell’autocoscienza del lettore: il lettore abbandonato a se stesso e ai suoi dubbi di fronte al testo letterario.

Per far questo Joyce usa le concomitanze polisemiche: una stessa parola non ha solo più significati, ma più territori semantici cui si riferisca. Prendiamo la «carne in scatola» di cui va pazza Molly: un barattolino di potted meat i cui residui si trovano anche nel suo letto alla fine della giornata (U 17.2122-25). Questo lessema sintagmatico ha un significato osceno e non c’è niente da fare: qualsiasi tentativo di edulcorare il romanzo di Joyce, di parlar per eufemismi e perifrasi, arrampicandosi sugli alti pioli d’una critica contegnosa e garbata, non può che veder molto alla lontana, come un puntolino sulla terra, l’indecenza saliente di questo libro, che non a caso, seppur poco compreso nella sua oscura articolazione stilistica, ha subìto tredici anni di censura in America.

A Molly piace la carne in scatola perché le piace fare sesso. Pot, così come la ‘grotta’ da cui è nata Molly («caved mountain» è uno dei significati dell’antica denominazione di Gibilterra secondo O’Shea, dal quale Joyce trasse spunto)², così come il vaso da letto su cui Molly passa metà della nottata, non sono che alcuni oggetti cavi d’una lunga lista riconducibili a Molly per metonimia e metafora insieme: chamber si riferisce al pitale e ad una stanza, per cui «chamber music» è sia la ‘musica da camera’ che Molly, cantante lirica, esegue, sia – proprio così! – la pisciatina sonora dell’eroina in «Penelope». Flussi, appunto: alimentari, discorsivi, concomitanze polisemiche, toccate e fughe della penna incontenibile e incontinente di James Joyce. A continuar l’elenco degli oggetti cavi riconducibili a Molly non si finirebbe più la lista. E son tutti, si direbbe, importanti.

30 agosto 2015

«Vita, morte: un paese che incollana», di Antonio Melillo

 

 

Vita, morte: un paese che incollana
d’ocra una collina, una bimba
che stende dita al greve voltolare
d’una foglia, un ruscello che si sfronda
sui sassi d’un passante d’auto.

Fuggire la felicità di luogo
in clima per non essere infelici.
Pigri contro i frantumi d’una fede,
senz’aspettarsi nulla di meglio.
Ecco, ritorna un amaro di mare.

E lei ch’è salita precipitando
non ha pace quanto me. Serrano
tempi diversi, ma la stessa guerra
di trincea – attesa – che non dà senso
al ch’io recida ogni nodo ravvolto

fin qui, al friccicare dei ciottoli,
a ogni ritorno di risacca.
Vorrei ricogliere della conchiglia
i frutti della primavera,
amorosa coi suoi viali ampi

trascorsi negli occhi. E spalle di carpini,
fianchi d’ippocastani, gambe d’olmi
resilienti al vento. Sebbene un mare,
muliebre onnipresenza contro
la flebile astanza d’esserci,

costretta e non voluta, putrido
di putredine, fracido di foglie
(quell’attimo che ci conobbe
divenendo entrambi altro: ed ora un tetro
di tedio, un dio buio di nulla), ci stringa

sotto un cielo ripido. Così contro
l’inverno un arruffo di pigolii
tra le rame magre s’arrischia
per trattenersi in vita. Ed una sola
domanda: Perché?

 

Antonio Melillo

 

 

18 luglio 2015

«Il taglio. Conversazione con Felice Cimatti» di Doriano Fasoli

Felice Cimatti insegna Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria. Fra le sue recenti pubblicazioni, La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens (Ombre Corte, 2011) e Filosofia dell’animalità (Laterza, 2013). Ha curato, insieme a Silvia Vizzardelli, Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi (Quodlibet, 2012); con Alberto Luchetti Corpo, Linguaggio e psicoanalisi (Quodlibet, 2013); e con Leonardo Caffo A come animale. Per un bestiario dei sentimenti (Bompiani, 2015). Nel 2012 ha ricevuto il Premio Musatti dalla Società Psicoanalitica Italiana. È docente dell’Istituto Freudiano, sede di Roma. È uno dei conduttori del programma di attualità culturale Fahrenheit di Rai Radio 3. L'intervista che segue si incentra sull'ultimo libro di Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte, uscito in questi giorni per i tipi Quodlibet.

Doriano Fasoli: A cosa rimanda il titolo del suo libro?

Felice Cimatti: L’idea è quella di un taglio, è una espressione di Lacan, una linea netta che lascia sul corpo umano una ferita che non si rimargina. Viene in mente uno dei tagli di Fontana, come questo riprodotto qui sotto. Il taglio è una ferita netta, che lascia una traccia indelebile nel corpo umano. Al taglio è connessa anche l’idea che i bordi della ferita non possono più ricongiungersi. Nel corpo rimane quella linea, e il dolore che lo accompagna. Il punto è che si tratta di una ferita che non si rimargina. L’animale umano è questo taglio.

In questo senso il sottotitolo del libro è Linguaggio e pulsione di morte. Il taglio, seguendo Lacan (ma anche il Wittgenstein del Tractatus, che prima di Lacan aveva lucidamente intravisto gli effetti del linguaggio sul corpo umano), è il linguaggio. Gli esseri umani parlano, e il fatto del parlare installa nel corpo umano un dispositivo impersonale ed autosufficiente che persegue un proprio obiettivo, che non coincide con quello del corpo che lo ospita. Sembra una idea misteriosa, in realtà se si legge Chomsky, ad esempio, il più grande linguista del ’900, si scopre che la facoltà del linguaggio è appunto un dispositivo che ‘genera’ (è esattamente l’espressione di Chomsky) enunciati in modo del tutto non intenzionale. Li genera perché non può non generarli, il linguaggio è questo dispositivo. Il linguaggio, per Chomsky, impersonalmente parla. Non siamo noi che usiamo il linguaggio, al contrario, il linguaggio è un dispositivo che genera enunciati. Per questo, è ancora Chomsky a dirlo, la funzione principale del linguaggio non è la comunicazione. La comunicazione serve a noi umani, ma il linguaggio umano non è fatto per questo (la comunicazione è la funzione dei linguaggi animali). Il linguaggio può generare enunciati di lunghezza infinita, che noi non usiamo perché non abbiamo la capacità di usarli (limiti di memoria, di attenzione, e così via). Il linguaggio è molto più potente di noi. Lacan la pensa così. Il linguaggio è la pulsione di morte allora, perché innesta nel nostro corpo finito, mortale, limitato, un dispositivo che lo proietta oltre sé stesso, dove il corpo non può andare. Prendiamo il caso del desiderio umano, distinto da un bisogno (ad esempio la fame) che una volta soddisfatto si acquieta. Un desiderio è indipendente dalla sua eventuale realizzazione, proprio perché non è un bisogno. Don Giovanni seduce migliaia di donne spinto da un desiderio che non ha nulla di biologico e di umano. È un desiderio che è spinto da un meccanismo interno – la pulsione di morte – che non può essere soddisfatta. Si pensi alla sequenza dei numeri naturali: 1, 2, 3 … n. Il linguaggio come dispositivo è questa forza interna che non si arresta, perché la sua esistenza consiste in questa stessa procedura. Il corpo umano, in quanto corpo parlante, è questa procedura. Il taglio è allora l’effetto sul corpo di un dispositivo che lo proietta sempre oltre sé stesso. Oltre i propri bisogni e le proprie possibilità corporee (si pensi alle dipendenze, alle ossessioni e così via).

19 giugno 2015

«Simbolo e assenza. Conversazione con Gabriele Pulli» di Doriano Fasoli

Gabriele Pulli insegna Psicologia filosofica e Psicologia dell’arte e della letteratura presso i corsi di laurea in Filosofia dell’Università di Salerno. In precedenza ha insegnato nei licei e nelle accademie di belle arti. I suoi studi si articolano sull’approfondimento del rapporto della psiche con il tempo, attraversando temi come la caducità, il legame fra il pensiero e l’emozione, la logica e la ragion d’essere dell’inconscio, la negazione, il sogno, il desiderio. È autore di diversi libri e di numerosi saggi e articoli su riviste e volumi collettivi. Il suo libro Freud e Severino (Moretti & Vitali, Bergamo 2009) è stato inserito nella cinquina dei finalisti del Premio De Risio 2010, insieme ai saggi di alcuni dei più importanti autori italiani, per poi risultare vincitore del premio stesso. Fra i suoi libri più recenti: Sulla memoria (Franco Angeli, Milano 2010), Note sull’inconscio (Moretti & Vitali, Bergamo 2011), Sull’Edipo Re (Clinamen, Firenze 2012), Il desiderio possibile (Alpes, Roma 2013), Simbolo e assenza (Moretti & Vitali, Bergamo 2015).

Doriano Fasoli: Il suo ultimo libro Simbolo e assenza ha come sottotitolo Fra codice multiplo e bi-logica: fa dunque riferimento alla teoria del codice multiplo elaborata dalla psicoanalista newyorkese Wilma Bucci e alla teoria bi-logica elaborata dallo psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco. Perché tale accostamento?

Gabriele Pulli: Mi è sembrato che queste due teorie della mente siano complementari, dunque che abbiano ciascuna qualcosa da guadagnare dal confronto con l’altra. In particolare, mi è sembrato che Matte Blanco abbia posto esplicitamente un problema che il principale testo della Bucci, Psicoanalisi e scienza cognitiva, racchiude implicitamente.

Di quale problema si tratta?

Del problema della connessione fra due sfere psichiche fra loro disparate: fra inconscio e coscienza, oppure, nei termini della Bucci, fra la sfera psichica che dispone della funzione simbolica e quella che non ne dispone. Direi, più in generale, che si tratta del problema della connessione fra le sfere della continuità e della discontinuità. Dunque fra ciò che nella vita continua e ciò che finisce. Ma anche fra ciò che continua e ciò che inizia, e il nuovo che emerge. In ogni caso, la Bucci pone l’accento sulla necessità di tale connessione, intendendola come ciò che distingue la fisiologia dalla patologia psichica. Matte Blanco si spinge fino ad auspicare l’individuazione di una specifica logica con lo specifico compito di dare luogo a una tale connessione, quella che definisce «super-logica unitaria».

Nei suoi scritti è tornato più volte sul pensiero di Matte Blanco, come mai?

Innanzitutto perché c’è in esso qualcosa di irrinunciabile. L’idea di individuare la logica dell’inconscio mi sembra semplicemente, nell’ambito della ricerca psicoanalitica, l’idea più ambiziosa possibile. Mi riferisco all’ambizione culturale, alla passione per la ricerca, quella che si accompagna preferibilmente, come nel caso di Matte Blanco, a una grandissima umiltà. In secondo luogo, perché credo che Matte Blanco abbia definito molto esplicitamente la sua ricerca come incompiuta. Lo ha fatto in particolare quando, come ho detto prima, ha auspicato l’individuazione della super-logica unitaria. Ne ha auspicata l’individuazione, non l’ha individuata. Ha detto, infatti, di aver solo voluto porre un problema la cui possibile soluzione «dista dal presente alcuni o diversi anni di lavoro». Ecco: questo passo è un testamento spirituale. Va inteso così. E dunque, dal mio punto di vista, occuparsi del pensiero di Matte Blanco, subirne il fascino e riconoscerne la grandezza significa anche cercare di prospettare una soluzione di tale problema irrisolto. Avanzare quanto meno un’ipotesi di quella che potrebbe essere la super-logica unitaria, di quello che potrebbe essere il suo principio ispiratore. Ed è appunto una delle cose che ho cercato di fare in questo libro. Cerco di spiegarmi meglio. Per Matte Blanco la logica che ispira il pensiero cosciente coesiste con una diversa, opposta logica che dà luogo a un modo di essere che non può essere contenuto dalla coscienza, dunque che è inconscio. La prima logica consiste nel distinguere, nel discernere; la seconda, all’opposto, nel confondere. Insomma sono l’una l’opposto dell’altra, al punto da costituire un’antinomia. È appunto, in estrema sintesi, la teoria bi-logica. Ma Matte Blanco, nel passo che ho definito il suo testamento spirituale, ha ritenuto che tale teoria andasse completata, non limitandosi a individuare la contrapposizione fra le due logiche, ma identificando la radice comune di entrambe. Le due logiche coesistono in una stessa mente e ciò può avvenire solo in virtù di una radice comune. L’individuazione di tale radice comune, che è appunto l’individuazione della super-logica unitaria auspicata da Matte Blanco, dunque è necessaria non solo per il completamento della teoria bi-logica ma anche per la sua stessa validità.

25 maggio 2015

«Limite è Speranza. Conversazione con la Dott.ssa Rita Corsa» di Doriano Fasoli

Medico chirurgo, specialista in psichiatra, psicoanalista, Rita Corsa è membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytical Association. Già professore a contratto di Clinica psichiatrica all'Università degli Studi di Milano (dal 1996 al 2003) e all'Università di Milano-Bicocca (dal 2004 al 2012). Collaboratrice dell'Osservatorio Nazionale sulla Violenza Domestica, presso l'Università di Verona. Ha diretto servizi psichiatrici pubblici e si è occupata di formazione del personale psicologico e psichiatrico (dal 1987 al 2008). Ha scritto oltre 110 articoli su riviste specialistiche nazionali ed estere, trattando in particolare di storia della psichiatria, di patologia grave in adolescenza, di patologia mentale correlata all’identità di genere e di questioni d’interesse psichiatrico-criminologico. Su questi temi ha scritto inoltre diversi capitoli in volumi collettivi (Cedam, 1999, 2006 e 2013; Utet, 2005; ONVD, 2010, 2012 e 2013). Nel 2004 ha curato il libro Il dolore psicotico nella donna depressa (Pacini, Pisa). Si è occupata di consenso informato in psichiatria e, insieme a medici legali e a giuristi, del diritto a non soffrire in medicina, intervenendo con alcuni saggi in libri e trattati collettanei (Cedam, 2004 e 2005; Utet, 2006 e 2009). In ambito psicoanalitico, s’interessa specialmente di storia della psicoanalisi, del rapporto mente-corpo, del transgenerazionale somatico e della psicoanalisi applicata all’arte. Su questi argomenti ha pubblicato numerosi capitoli in testi collettanei (tra i più recenti: Carocci, 2004; Editoriale Lloyd, 2004; Moretti & Vitali, 2006; Franco Angeli, 2006; Vivarium, 2008; ETS, 2008, 2011, 2012 e 2013; Felici, 2010; Alpes, 2014). Nel 2012 ha redatto la voce «Luciana Nissim» per il Dizionario biografico degli italiani (Treccani). Nel 2011 ha scritto la monografia Se la cura si ammala. La caducità dell’analista (Kolbe, Bergamo). Nel 2012 ha curato, insieme a Gabriela Gabbriellini, il volume Corpo, generazioni e destino (Borla, Roma). Nel 2013 ha scritto il libro Edoardo Weiss a Trieste con Freud. Alle origini della psicoanalisi italiana (Alpes, Roma). È uscito in questi giorni il volume, scritto con Lucia Monterosa, Limite è Speranza. Lo psicoanalista ferito e i suoi orizzonti (Alpes, Roma), da cui prende spunto questa nostra conversazione.
Vive e lavora tra Bergamo e Milano.

Doriano Fasoli: Cosa suggerisce il titolo, Dottoressa Corsa?

Rita Corsa: Il titolo ha avuto una lunga gestazione, perché volevamo rendere in una sola, essenziale immagine il concetto assai composito che fa da fil rouge all’intero volume. L’uomo posto di fronte ai limiti dell’esistere ha bisogno di appellarsi alla potenza consolatrice e riparatrice del sentimento della speranza; ma la stessa speranza origina dall’urgenza penosa del limite. Limite è Speranza vorrebbe quindi descrivere questa fatale dialettica del vivere, che non risparmia neppure lo psicoanalista. Il sottotitolo, infatti, ha la pretesa (forse l’ardire) di mettere l’accento sulle fragilità dell’analista, che a sua volta non è immune da quel «soffio dell’aria» dal «tono di tenebra», declamato da Rilke. Ma il libro intende anche delineare gli inediti orizzonti che si dischiudono al pensiero psicoanalitico, provato dal raffronto con la finitezza del corpo.

Non vorrei però dare l’idea che si tratti di un saggio di tipo speculativo, al confine tra la filosofia e la metapsicologia. È un testo sostanzialmente clinico, esito del lavoro nella stanza d’analisi, che tratta di come la mente si può occupare del corpo malato, cercando di smarcarsi da quell’ideologia psicosomatica che causa un’infelice colpevolizzazione della persona sofferente.

Lucia Monterosa ed io ci siamo chieste che cosa accada nello psicoanalista, nel paziente e nel campo relazionale, quando una seria malattia fisica si insinua nello spazio analitico, saturandolo di realtà. Nel tentativo di rispondere a tali quesiti ci siamo trovate ad attraversare aree ancora umbratili dell’esperienza psicoanalitica, dove il duro scontro con la realtà biologica talvolta pare non ammettere repliche convincenti da parte della psiche. Ci unisce tuttavia la convinzione che l’equipaggiamento psicoanalitico sia idoneo a sostare in questi spazi scomodi del vivere e sia capace di riproporre legame e pensiero all’interno dello scambio analitico: con speranza.

Com’è costruito il libro?

Il libro si compone di due parti, «Lo psicoanalista di fronte al limite» e «La speranza in psicoanalisi». La prima sviluppa le riflessioni presentate in un mio precedente testo, Se la cura si ammala. La caducità dell’analista (2011). È stato proprio l’interesse destato da quel volume nel consesso analitico a spingerci ad approfondirne i contenuti.

La malattia somatica dell’analista è uno sgradevole e vergognoso argomento di confine, che occupa una zona franca fortemente perturbante tra la mente e il soma, tra la realtà e la metafora, tra le scienze del corpo e quelle della psiche.

Nella prima sezione del libro abbiamo esaminato l’aspetto dell’identità dell’analista, messa a repentaglio dall’insulto somatico, che produce diverse ricadute sulle vicissitudini controtransferali: quali la negazione, l’esibizionismo narcisistico, l’invidia e, specialmente, la vergogna controtransferale. Ci siamo ancora soffermate su un altro elemento cruciale, quello della self-disclosure (disvelamento di sé) ad opera dell’analista: l’affezione fisica introduce elementi di realtà dell’analista, che a volte non riescono ad essere celati, facendo vacillare la tradizionale posizione astinente e neutrale. In altre parole, la malattia spesso è manifesta; il paziente vede il corpo sofferente del terapeuta. Ci siamo interrogate sulla collocazione di tanta realtà nel campo terapeutico: quanto va detto al paziente? Come tollerare l’angoscia di morte che in maniera così evidente, oltre che inconscia, si addensa sul legame? Svariati richiami clinici hanno fatto da supporto alle nostre indicazioni tecniche e metapsicologiche.

10 maggio 2015

«Cinque poesie da ‘Il fuoco dello sguardo. Collected Poems’» di John Berger

 

Pages

Word by word I describe
you accept each fact
and ask yourself:
what does he really mean?
Quarto after quarto of sky
salt sky
sky of the placid tear
printed from the other sky
punched with stars.
Pages laid out to dry.
Birds like letters fly away
O let us fly away
circle and settle on the water
near the fort of the illegible.

1972

 

Pagine

Parola per parola io descrivo
tu accetti ogni fatto
e ti chiedi:
che cosa vuole veramente dire?
Un in quarto dopo l’altro di cielo
di cielo sale
di cielo della lacrima placida
impresso dall’altro cielo
trapunto di stelle.
Pagine stese ad asciugare.
Uccelli volano via come lettere
Oh sì voliamo via
volteggiamo e posiamoci sull’acqua
vicino alla fortezza dell’illeggibile.

1972

 

* * *

Story Tellers

Writing
crouched beside death
we are his secretaries
Reading by the candle of life
we complete his ledgers
Where he ends,
my colleagues,
we start, either side of the corpse
And when we cite him
we do so
for we know the story is almost over.

1984

 

Narratori

Scriviamo
accucciati ai piedi della morte
siamo i suoi segretari
Leggiamo al lume della vita
e ne compiliamo i libri mastri di pietra
Dove lei finisce,
colleghi miei,
cominciamo noi, ai lati della salma
E quando la nominiamo
è perché ormai
si sa che la storia è quasi finita.

1984

 

29 aprile 2015

«Tra poesia, il suo nuovo romanzo e gli inediti di Bertolucci: conversazione con Paolo Lagazzi», di Doriano Fasoli

Paolo Lagazzi, saggista e scrittore, è nato a Parma nel 1949 e risiede a Milano. Si è occupato di letteratura, buddhismo, magia, musica, cinema e pittura. Collabora a riviste e case editrici italiane e straniere. Ha pubblicato libri di saggistica (ricordiamo Rêverie e destino; Vertigo. L’ansia moderna del tempo; Forme della leggerezza), fiabe (La scatola dei giochi; La fogliolina) e racconti. Ha curato antologie di poesia giapponese e, per i «Meridiani» Mondadori, i volumi delle opere di Pietro Citati, Maria Luisa Spaziani ed Attilio Bertolucci (con il quale ha realizzato, nel 1997, un libro intervista: All’improvviso ricordando. Conversazioni). La presente conversazione si incentra sulle recenti pubblicazioni di Lagazzi: il romanzo Light stone, edito da Passigli, la raccolta di saggi La stanchezza del mondo. Ombre e bagliori dalle terre della poesia, edito da Moretti & Vitali, e la curatela, con Gabriella Palli Baroni, di una silloge di opere rimaste finora inedite di Attilio Bertolucci, dal titolo Il fuoco e la cenere. Versi e prose dal tempo perduto, uscito per i tipi Diabasis.

Doriano Fasoli: Alla fine del 2014 è apparso per le edizioni Diabasis un libro di testi inediti o rari di Attilio Bertolucci, Il fuoco e la cenere. Versi e prose dal tempo perduto, curato da lei e da Gabriella Palli Baroni. Come è nato questo volume?

Paolo Lagazzi: È nato da un’idea che portavo dentro di me da parecchi anni e a cui Gabriella Palli Baroni ha aderito con entusiasmo. L'idea era, semplicemente, quella di raccogliere i migliori testi in versi e in prosa di Bertolucci rimasti inediti o dispersi in riviste, non presenti nel «Meridiano» Mondadori curato da me e da Gabriella. La maggior parte degli inediti erano nel fondo bertolucciano dell'Archivio di Stato di Parma, altri nel mio archivio personale e in quello della signora Palli Baroni. Dopo aver letto e riletto molte carte, molti foglietti segnati dall’inconfondibile, curvilinea calligrafia del poeta, io e Gabirella abbiamo scelto i testi che sentivamo più intensi e significativi, poi li abbiamo divisi in tre sezioni: la prima contiene liriche scritte da Bertolucci nell'intero arco della sua esistenza, da quando era giovanissimo fino a tre anni prima della morte; la seconda offre bellissime sequenze, brani o frammenti esclusi da La camera da letto; la terza raccoglie alcune prose di profonda qualità poetica.

Quali pensieri e quali emozioni Il fuoco e la cenere può suscitare in chi già conosce e ama Bertolucci e in chi ancora non lo conosce?

Per chi conosce Bertolucci in modo non superficiale questo libro non potrà non risvegliare quell'insieme di sensazioni, emozioni sottili e segrete, note intime, risonanze ricche di una verità umile e immensa che tutta la sua opera trasmette. Credo sia sempre miracoloso il dono che sa offrirci un poeta originale, vivo e struggente come lui, e straordinaria la possibilità di ritrovare questo dono in luoghi imprevisti, in pagine inesplorate o disperse. Chi ancora non lo conosce troverà in questo libro un ottimo viatico per inoltrarsi nel suo mondo, per esplorarlo lentamente e per lasciarsi assorbire dalla luce vera e fantastica delle sue immagini, dal suo vibratile sentimento del tempo, dalla bellezza straziante del suo amore per la vita e del suo dolore di fronte all’ombra, al nulla, alla morte.

Quali sono le poesie e le prose di Il fuoco e la cenere a cui lei si sente più affezionato?

Tra le poesie un luogo molto speciale nel mio cuore occupa quella che comincia col verso «Come lucciola allor ch’estate volge» e che evoca una lucciola morente, persa in un prato di luglio, «sola nella notte», richiamando attraverso essa il destino di ogni anima; è la poesia che scelsi di leggere in pubblico il 17 giugno 2000 a Parma, durante la parte «civile» del funerale di Attilio. Credo sia un testo meraviglioso, di una limpidezza tragica con pochi confronti possibili nel Novecento. Ma Il fuoco e la cenere raccoglie parecchi testi memorabili. Mi permetta di ricordare almeno «Alla mia giovinezza» e «Avevo dormito a lungo, senza sogni» tra le liriche sparse; la misteriosa sequenza conclusiva del «Viaggio di nozze» tra i brani esclusi dal romanzo in versi; infine «Un giorno del ’44», scorcio di grande qualità epica e umana sull'invasione tedesca dell'Appennino, tra le prose.

2 marzo 2015

«Vivo così. Intervista ad Alberto Toni» di Doriano Fasoli

Alberto Toni in una foto di Dino Ignani

Alberto Toni è nato nel 1954 a Roma, dove vive e lavora. Numerose sono le sue opere di poeta, saggista e drammaturgo, per le quali ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Tra le sue opere in versi, si ricordano qui: La chiara immagine, Rossi & Spera (1987), che ha ottenuto il Premio speciale opera prima L’isola di Arturo – Elsa Morante; Partenza, Empirìa (1988); Dogali, Empirìa (1997), Premio Sandro Penna; Liturgia delle ore, Jaca Book (1998), Premio Internazionale Eugenio Montale; Teatralità dell’atto, Passigli (2004), Premio Pier Paolo Pasolini; Mare di dentro, Puntoacapo (2009); Alla lontana, alla prima luce del mondo, Jaca Book (2009), finalista dei premi Brancati, Camaiore e Dessì; Democrazia, La Vita Felice (2011); «Un padre», in AA.VV., Almanacco dello Specchio 2010-2011, Mondadori (2011); Polvere, sassi, oli, Il Bulino (2012), con Franco Fanelli; Mare di dentro e altre poesie, LaRecherche.it / Poesia 2.0 (2013); Et allons, Progetto Cultura (2013); Stone Green. Selected Poems 1980-2010, Gradiva Publications (2014), traduzioni inglesi di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti. Tra le opere in prosa: Con Bassani verso Ferrara, Unicopli (2001); Quanto è lungo il sempre, Manni (2001); L’anima a Friburgo, Edup (2007). Ha tradotto, tra gli altri, testi di Emily Dickinson, T. S. Eliot e Michel Leiris. Come drammaturgo è autore del monologo in versi Donna su una poltrona rossa (Ianua, 2003) portato in scena per la prima volta il 21 aprile 2004 al Teatro Argot di Roma, nell'interpretazione di Paola Lorenzoni, incentrato sul rapporto tra Marie-Thérèse Walter e Pablo Picasso. Alberto Toni collabora con l’inserto letterario Via Po del quotidiano della Cisl Conquiste del Lavoro. La presente intervista prende spunto dall'uscita del suo recente libro di poesie: Vivo così, edito da Nomos nel 2014.

Doriano Fasoli: Vivo così. Perché la scelta di questo titolo?

Alberto Toni: Il titolo Vivo così è ripreso dalla prima poesia del libro. Segna dunque l'incipit, è introduzione a quello che verrà, si leggerà nel libro. Afferma e, nel contempo, rimanda. Ci si chiede: vivo così come? Non c'è risposta se non andando avanti, proprio come nella vita. Quel «così» è tutto, può essere letto in mille modi: il presente, uno stato, una condizione. Non c'è giudizio. Poi si scopre subito che si tratta di una condizione d'attesa, che è ascolto, perché non si può scrivere senza ascoltare. E qui l'ascolto nasce dall'esperienza diretta, un'esperienza ospedaliera per la precisione, con tutto quello che comporta nella condivisione con gli altri, i personaggi che entrano in gioco e che passo dopo passo ritornano, vibrano dentro un paesaggio inquieto che richiama fantasmi del passato. Ha ragione Mario Santagostini quando nella prefazione parla di fumus narrationis. È vero, la mia poesia parte sempre da un dato reale che poi diventa percorso mentale, astratto, senza però perdere le coordinate. Da una cosa ne nasce un'altra, magari lontanissima, e si attualizza, va a sommarsi. Vivo così vuol dire questo: fare il conto delle cose viste e vissute nel tempo e nello spazio.

Se dovessi dare un colore alla tua poesia, quale sceglieresti?

Giorgio Linguaglossa ha parlato di grigio come colore dominante, un colore che segna l'indistinto. In realtà io penso più a un rosso chiaro aurorale, che poi si tramuta in celeste, magari con qualche striatura, proprio là dove c'è un effetto combinatorio dei colori, così come per le parole che nello svolgersi del discorso tracciano le linee della narrazione. Il libro infatti è una sorta di narrazione mascherata o mancata, allusiva, di alti e bassi, certo e incerto, come un ventaglio che si apre e si richiude mostrando soltanto per qualche istante la trama del disegno.

4 febbraio 2015

«Motivi freudiani. Conversazione con Nelly Cappelli» di Doriano Fasoli

 

 

 




Nelly Cappelli, dottore in Filosofia, psicologa, psicoanalista, membro ordinario della SPI e dell’IPA. Svolge la libera professione come psicoanalista e psicoterapeuta di adulti e adolescenti. È stata redattrice della Rivista di Psicoanalisi e ora è redattrice di Psiche. Autrice di contributi pubblicati sulle principali riviste psicoanalitiche, ha curato i volumi: Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, BUR, Milano 2010; Sigmund Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, BUR, Milano 2010; Sigmund Freud, Io, la psicoanalisi, BUR, Milano 2010. L’intervista qui proposta si incentra sul recente libro di Nelly Cappelli Motivi freudiani. Opere e concetti, Borla, Roma 2014.

Doriano Fasoli: Dottoressa Cappelli, cosa l’ha spinta innanzitutto a pubblicare questo libro per l’editore Borla?

Nelly Cappelli: Mah, si può proprio dire che la mia motivazione si sia incontrata con una richiesta. Ho tenuto seminari e lezioni su Freud a diversi gruppi: candidati della SPI, psicologi, psicoterapeuti; ogni volta succedeva che qualche partecipante mi sollecitasse a pubblicare le lezioni.

Evidentemente, l'invito coglieva un mio desiderio, che si collega a questa considerazione: come lei sa, nella letteratura psicoanalitica attuale incontriamo approcci teorici che divergono in modo anche sostanziale da quello freudiano. Queste variazioni comportano modifiche della teoria della tecnica e, di conseguenza, un diverso modo di affrontare la prassi clinica. Da tempo, nella letteratura psicoanalitica e nel dibattito teorico-clinico, lo stesso «lessico freudiano» non è più l’unico, ma è affiancato o sostituito da altri «vocabolari». In questo panorama, così ampio, mi sono chiesta se i nuovi approcci illuminassero aree che Freud aveva lasciato in ombra o se avessero una validità a tutto campo e potessero sostituire la teoria freudiana dell’apparato psichico. Così, mi sono ritrovata una volta di più a leggere Freud, ripensando ai miei fondamenti, alle mie eredità come psicoanalista.

Com’è costruito il libro? Qual è il suo approccio all’opera freudiana?

L’architettura di Motivi freudiani è questa: è composto da cinque capitoli, ciascuno dei quali contiene un breve excursus storico che segue le dinamiche del movimento psicoanalitico durante la vita di Freud e fa da sfondo all’esposizione della teoria. Prendo poi in esame, in senso cronologico, non solo ogni singola opera, ma anche le connessioni tra le opere (le principali e alcuni scritti meno noti ai più), per mostrare il comporsi della visione freudiana di apparato psichico. L’obiettivo è fornire un’esposizione ragionata della produzione di Freud, esaminare le idee che costituiscono i paradigmi irrinunciabili della metapsicologia, seguire l’evoluzione dei principali concetti che, come lei sa, Freud ha rielaborato e revisionato tutta la vita.

Il mio approccio è stato interrogare direttamente la pagina freudiana, mettendo tra parentesi le interpretazioni date da altri. Ho voluto che la mia presenza fosse discreta e lasciasse spazio al vero protagonista, Freud. Questa mi sembra la vera soggettività della mia opzione, la sua peculiarità. Anche se, poi, in quel che scrivo, la mia opinione traluce.

La carica critica e provocatoria della psicoanalisi secondo lei permangono?

Il pensiero freudiano ha, per sua natura, una carica destabilizzante, perturbatrice e critica perché è basato sulla distinzione dello psichico in ciò che è cosciente e ciò che è inconscio. Freud ha mostrato che «l’Io non è padrone in casa propria», ma questa dichiarazione, divenuta ormai uno slogan, è solo apparentemente acquisita. Alla ferita narcisistica inflitta all’umanità sembra essere subentrata una riorganizzazione narcisistica che ha portato a una pseudoaccettazione di quell’idea. La tentazione di riconciliare inconscio e linguaggio culturale è diffusa; ma non si può tradurre l’inconscio in conscio… con un traduttore automatico. Se «inconscio» diventa un termine culturale familiare, se l’inconscio è sostituito dall’illusione di averlo conquistato, allora la psicoanalisi non porta più la peste, non porta nemmeno un raffreddore. Secondo me, un rischio è che i concetti originari della psicoanalisi possano essere intiepiditi, ammorbiditi, aggiustati alle richieste della cultura.

26 gennaio 2015

«Un poeta all'inferno», di Fabio Ciriachi. Racconto d'apertura del romanzo ‘Uomini che si voltano’

Fabio Ciriachi


In occasione della recente pubblicazione del romanzo a racconti Uomini che si voltano di Fabio Ciriachi, se ne presenta qui il primo racconto in forma integrale, «Un poeta all’inferno». Il racconto era stato dapprima pubblicato a sé nel volume: AA.VV., Renault 4. Scrittori a Roma prima della morte di Moro, Avagliano, Roma 2005, a cura di Carlo Bordini e Andrea Di Consoli. Il romanzo è uscito per i tipi Coazinzola Press.

 

Fabio Ciriachi

Uomini che si voltano
romanzo a racconti

Coazinzola Press 2014

 

Un poeta all’inferno

 

Aldo Piromalli è l’essere umano più mite e disarmato che abbia mai conosciuto. Questo lo ha reso molto vulnerabile. Ancora giovane, le sue ferite erano già così numerose che oggi meriterebbe il risarcimento di qualche pensione, se alla sensibilità fosse attribuito uno spazio di riguardo tra i valori socialmente riconosciuti. Da molti anni (venti?, venticinque?), Aldo vive ad Amsterdam, forse grazie al sostegno dell’assistenza comunale. Scrive, disegna. Da un po’ di tempo fa anche mostre. Cerca un riconoscimento minimo, un angolo di mondo dove persone e cose si accorgano delle sue qualità e glielo dicano con la stessa delicatezza da lui usata nel bussare alle tante porte che gli si sono sempre chiuse davanti.

Aldo Piromalli è soprattutto un poeta. Nella comune di via Lanza, dove nel ’69 ci siamo conosciuti, Aldo era "il poeta". Parlando tra di noi, infatti, nessuno – né Stefanino né Petta, né Gai né Stefano, e neanche Renatina, Ivan e Vaporetto – diceva mai "hai visto Aldo?" ma sempre "hai visto il poeta?".

Ci mantenevamo, allora, grazie alla vendita militante del nostro giornale, attività che veniva svolta per lo più fuori dal Filmstudio, o a piazza Navona e ai vernissage nelle gallerie d’avanguardia. Lo componevamo di notte il giornale, raccolti attorno al grande tavolo su cui era stesa la matrice, un rettangolo di lucido da architetti lungo tre metri e largo cinquanta centimetri.

In alto a sinistra si collocava la testata col titolo, MADRIA, e poi, chi di qua chi di là, ci dedicavamo a scrivere e a disegnare i contenuti che riguardavano per lo più l’antimperialismo, il sostegno alle lotte operaie e a quelle di liberazione nazionale, lo smontaggio demistificatorio dei messaggi pubblicitari, una critica anarchica alle rigidità ideologiche del PCI, la difesa ragionata delle droghe leggere e altro ancora. La grafica era concepita in modo tale che il foglio poteva funzionare sia tutto aperto che ripiegato più volte su se stesso fino a formare un plico di dieci pagine comodamente sfogliabili. Le copie erano tirate in cianografia con inchiostri neri, rossi o blu e il ritmo delle uscite variava a seconda della consistenza delle nostre finanze.