26 gennaio 2015

«Un poeta all'inferno», di Fabio Ciriachi. Racconto d'apertura del romanzo ‘Uomini che si voltano’

Fabio Ciriachi


In occasione della recente pubblicazione del romanzo a racconti Uomini che si voltano di Fabio Ciriachi, se ne presenta qui il primo racconto in forma integrale, «Un poeta all’inferno». Il racconto era stato dapprima pubblicato a sé nel volume: AA.VV., Renault 4. Scrittori a Roma prima della morte di Moro, Avagliano, Roma 2005, a cura di Carlo Bordini e Andrea Di Consoli. Il romanzo è uscito per i tipi Coazinzola Press.

 

Fabio Ciriachi

Uomini che si voltano
romanzo a racconti

Coazinzola Press 2014

 

Un poeta all’inferno

 

Aldo Piromalli è l’essere umano più mite e disarmato che abbia mai conosciuto. Questo lo ha reso molto vulnerabile. Ancora giovane, le sue ferite erano già così numerose che oggi meriterebbe il risarcimento di qualche pensione, se alla sensibilità fosse attribuito uno spazio di riguardo tra i valori socialmente riconosciuti. Da molti anni (venti?, venticinque?), Aldo vive ad Amsterdam, forse grazie al sostegno dell’assistenza comunale. Scrive, disegna. Da un po’ di tempo fa anche mostre. Cerca un riconoscimento minimo, un angolo di mondo dove persone e cose si accorgano delle sue qualità e glielo dicano con la stessa delicatezza da lui usata nel bussare alle tante porte che gli si sono sempre chiuse davanti.

Aldo Piromalli è soprattutto un poeta. Nella comune di via Lanza, dove nel ’69 ci siamo conosciuti, Aldo era "il poeta". Parlando tra di noi, infatti, nessuno – né Stefanino né Petta, né Gai né Stefano, e neanche Renatina, Ivan e Vaporetto – diceva mai "hai visto Aldo?" ma sempre "hai visto il poeta?".

Ci mantenevamo, allora, grazie alla vendita militante del nostro giornale, attività che veniva svolta per lo più fuori dal Filmstudio, o a piazza Navona e ai vernissage nelle gallerie d’avanguardia. Lo componevamo di notte il giornale, raccolti attorno al grande tavolo su cui era stesa la matrice, un rettangolo di lucido da architetti lungo tre metri e largo cinquanta centimetri.

In alto a sinistra si collocava la testata col titolo, MADRIA, e poi, chi di qua chi di là, ci dedicavamo a scrivere e a disegnare i contenuti che riguardavano per lo più l’antimperialismo, il sostegno alle lotte operaie e a quelle di liberazione nazionale, lo smontaggio demistificatorio dei messaggi pubblicitari, una critica anarchica alle rigidità ideologiche del PCI, la difesa ragionata delle droghe leggere e altro ancora. La grafica era concepita in modo tale che il foglio poteva funzionare sia tutto aperto che ripiegato più volte su se stesso fino a formare un plico di dieci pagine comodamente sfogliabili. Le copie erano tirate in cianografia con inchiostri neri, rossi o blu e il ritmo delle uscite variava a seconda della consistenza delle nostre finanze.

Vivevamo con poco. Grazie all’oculatezza di Vaporetto, che aveva tradotto in versione casereccia certi fondamenti della macrobiotica, la spesa per alimentarci convenientemente era molto contenuta. In proposito le cose andavano più o meno così. Quando all’apertura del frigorifero le esclamazioni di stupore suscitate dal suo gelido vuoto sbattevano da un lato all’altro senza incontrare ostacoli, Vaporetto se ne partiva alla volta di piazza Vittorio con un grande zaino sulle spalle. Partiva da casa tardi, così da arrivare al mercato intorno alla chiusura. A quell’ora, infatti, la trattativa sulle derrate deperibili era decisamente vantaggiosa per l’acquirente. Quanto ai cereali, aveva scovato un paio di fornitori non esosi, e andava sempre a botta sicura. Alla fine, tolti i soldi per le sigarette, per i dolcetti che non dovevano mai mancare dopo le generose fumate creative, per le utenze di luce e gas (niente telefono) ci rimaneva quanto bastava per l’affitto che allora, trattandosi di casa senza riscaldamento al quinto piano senza ascensore, era tanto abbordabile da permettere anche a una realtà povera come la nostra una grande casa in centro.

Non ricordo come ci fossimo scelti e trovati. I dettagli più minuti si accavallano tra di loro, le cose si confondono. È probabile che tutto infine sia dipeso da circostanze occasionali, da amici di amici che facevano la tal cosa o la tal altra. Sapete come andavano certe faccende. Ma per dare un minimo di attendibilità cronologica ai tanti avvenimenti di quel tumultuoso periodo, affiderò l’ordine della memoria ai pochi riferimenti sicuri di cui dispongo. Il primo, prendendola un po’ alla larga, è una foto in bianco e nero, 30x40, una delle prime che ho scattato col 28mm. La foto mostra mia madre, ripresa di spalle, che davanti allo specchio interno del guardaroba cerca di fare dei gesti divertenti per distogliere mio padre dal peso della malattia. Lui è seduto sul bordo del letto, in pigiama, così stanco che sembra schiacciato da un’eccessiva forza di gravità, e guarda mia madre da sotto in su, attraverso lo specchio, con un’aria per nulla divertita, solo incredula, come se non capisse bene quanto sta accadendo sotto i suoi occhi.

Mio padre è morto il primo aprile del ’69 quindi la foto deve risalire a metà marzo, e a quella data, come dimostra l’uso del grandangolo, avevo già comprato le due Nikon che, anacronistiche, ancora mi seguono benché da tantissimo non faccia più il fotografo. In quel periodo abitavo con Petta, Michael e Angela nella casa di via Fonteiana, lavoravo come free lance assieme a Michael: io scattavo le foto, lui scriveva gli articoli.

Ogni tanto Petta, Michael e io facevamo ancora teatro, un vizio contratto nell’aprile del ’68 in occasione della messa in scena di Escurial e la scuola dei buffoni per la regia di Giancarlo Nanni. Con quello spettacolo, dopo molte repliche al "Circolo La Fede", eravamo stati invitati al Festival di Spoleto dove, nell’avveniristica cupola geodetica chiamata Spoletosfera, si era consumata sera dopo sera, successo dopo successo, la rottura tra Nanni-Kusterman, da una parte, e Vasilicò, Orfeo e noi principianti, dall’altra. A seguito della rottura, orfani di Nanni e della Kusterman, col nuovo gruppo eravamo partiti per il Festival di Avignon facendo spettacoli per la strada e ovunque le circostanze lo consentissero. Tra l’altro anche a Sête sur Mer dove ha avuto luogo una delle più belle avventure di quella breve stagione itinerante.

Ci eravamo mossi da Roma, a luglio del ‘68, con due Fiat 500 stracariche di materiali e di passeggeri. Ovviamente, grazie alla bella stagione, dormivamo all’aperto. Ricordo che una notte, superata buona parte della Costa Azzurra, e con Avignon ancora lontana, eravamo entrati, stanchi morti, in un paese di cui ci era sfuggito il nome. Dove ci mettiamo a dormire? Gira e rigira, alla fine avevamo individuato l’accogliente nicchia di un grande portale incastonato in mura che alla luce dei fari sembravano antiche. Avevamo disposto le due Cinquecento a protezione di quello spazio e ci eravamo stesi nei sacchi a pelo.

Al mattino eravamo stati svegliati da gentili signori che ci avevano chiesto, in francese, se permettevamo loro di aprire il teatro. Il teatro?!?!? Certo, quello dove ci eravamo messi a dormire, infatti, era proprio l’ingresso del Théâtre de la Mer dove si stava svolgendo una rassegna che aveva in cartellone Beckett, Molière, Jonesco. Non è possibile, anche noi siamo teatranti, avevamo urlato, e subito ci eravamo messi a mostrare il book con le recensioni di Roma e di Spoleto. Non avevamo dovuto faticare per convincerli. Quegli organizzatori ci avevano riconosciuti a naso. Si erano subito detti contenti di fare la nostra conoscenza e, come in una favola, ci avevano invitati a esibirci in quel meraviglioso anfiteatro romano a picco sul mare; fuori programma, s’intende. E però che piacere calcare una tale scena!

Ma torniamo al ’69. Non scorderò mai il ritorno da Londra, dove a metà novembre ero andato per un servizio sulla New Left inglese. Traghetto da Dover il dodici dicembre, partito con ore di ritardo per via del mare mosso, e arrivo in treno a Milano la mattina del tredici. Seppi di piazza Fontana dai titoli di scatola dei giornali. Il clima plumbeo che si respirava alla stazione centrale diceva a chiare lettere che era iniziato qualcosa di orribile. Il nostro teatro militante fu il primo a finire sotto l’eco di quelle esplosioni, seguito, poco dopo, dal sodalizio vita/lavoro con Michael.

Ma proprio agli inizi del ’70, un po’ forse per la perdita recente di mio padre, un po’ per rispondere con la forza della vita a tutta quella morte procurata, Petta e io decidemmo di fare un figlio, vanamente sconsigliati dalla maggior parte degli amici che forse leggevano nelle nostre vite con maggiore chiarezza di quanto non riuscisse a noi.

Fu forse attorno a quel progetto genitoriale che l’idea della comune prese corpo, così come accadde che si cercò la casa di via Lanza e si gettarono le basi per la nascita del nostro MADRIA. Al giornale lavoravamo di notte; la mattina all’alba, soprattutto con l’inoltrarsi della primavera, uscivamo di casa e discendevamo via Cavour per andare a suonare ai Fori, seduti sui capitelli e sulle colonne cadute, chi col flauto, chi con chitarra, percussioni, marranzano. Era una musica improvvisata e armonica che serviva a sciogliere le tensioni delle tante ore curvi sul lucido, delle lunghe discussioni sui molti avvenimenti politici che ci costringevano di continuo a interrogarci a fondo per non perdere il contatto con la realtà.

Con l’approssimarsi dell’estate si era registrato un inasprimento del conflitto con le istituzioni; fioccavano arresti tra i compagni, per i motivi più estemporanei. Ci parve, insomma, che per essere sicuri non bastasse più stare in campana, così decidemmo di cambiare aria per qualche mese. Dove andare? Il sud ovviamente, e lungo la costa, e lontano il più possibile dal caos del turismo di massa. Nessuno aveva un nome da proporre, così chiesi in prestito l’850 a mio fratello, la caricammo dei bagagli di nove persone (suppellettili, vestiti, libri, pentole, coperte) e una mattina di giugno il poeta, Petta con la sua bella panciona e io (los tres capricornos, come sottolineò il poeta) partimmo alla ricerca del luogo meraviglioso dove sparire per un po’.

Essere in tre aveva le sue ragioni. Petta, infatti, non poteva viaggiare in autostop, né poteva restare da sola quando, trovato il nostro paradiso, io fossi dovuto tornare per rendere l’850 a mio fratello e fare da guida agli altri. Superammo Napoli, poi la costiera amalfitana e continuammo a scendere lungo il Tirreno nel timore che quanto cercavamo forse non esisteva. Ma il poeta era tranquillo, e così Petta; potevo non esserlo anch’io? Infatti, dopo un lungo tratto di costa insolitamente semi-deserto, entrammo in un paese il cui nome non ci dispiaceva: Agnone in Cilento, e lì cominciammo a chiedere al tabaccaio, al barista, al fornaio, se per caso conoscevano qualcuno che affittava una casa così e cosà. Alla fine venne fuori che sì, c’era una casa libera, nel mezzo di una ficaia, a trenta metri dal mare, isolata, e però priva di acqua e di luce… E che importanza potevano mai avere acqua e luce? C’è o non c’è rimedio a tutto? Andammo a vederla ed era il paradiso. Lontana un chilometro e mezzo dal paese (cinquecento metri dalla fonte di acqua potabile), grande abbastanza per starci tutti e nove, alle spalle il clivo di una brulla montagna che s’inerpicava fino a sette/ottocento metri e sulla cui sommità correva una stradina carrabile, di fronte una grande siepe di canne oltre la quale c’erano gli scogli e il mare, tutt’intorno, alberi di fichi pieni di frutti, carrubi giganteschi, olivi, migliaia di cicale, e il dio Pan che saltava felice da un sasso all’altro lasciando intendere che c’era posto anche per noi, lì, se volevamo.

Riportata la macchina a Roma e tornato ad Agnone in autostop col resto della comune, furono tutti entusiasti della scelta. La casa venne presto arredata con canne, veli, penne di uccelli trovate nei dintorni; le tante candele accese rendevano ancora più caldo il lucore bluastro delle notti estive. Attilio, il contadino che curava i campi, di fronte alla prospettiva che divorassimo l’intera produzione di fichi, ci offrì un consistente numero di piante per il consumo interno purché lasciassimo stare le altre. Accettammo, e al dunque si verificò una maturazione così abbondante che non fu difficile stare ai patti.

Un giorno Stefano, che s’interessava di cinema, rimediò una cinepresa a 16 mm e una discreta quantità di pellicola a colori e così, improvvisata una sceneggiatura, iniziammo le riprese del nostro film. Venne anche un’attrice professionista, sua amica, che girò gratis alcune scene, entusiasta com’era del posto e del progetto. Trama a parte, alcuni dei personaggi interpretati si rivelarono sorprendentemente profetici. Il poeta, per esempio, che impersonava la parte del guerrigliero, in seguito provò a entrare in contatto con dei veri combattenti per la libertà, e non ci riuscì (a prezzo di una grave crisi) solo perché la sua non-violenza gli impediva tassativamente ogni complicità con la morte. Io, cui era toccato il ruolo di quello che tornava alla terra, un paio d’anni dopo andai a vivere in una comune agricola; e non ricordo il nome del terzo a cui toccò in sorte di vedere avverata la finzione, ma mi sembra che fosse Ivan.

Quel film, infine, venne concluso e montato, e Stefano, con la sua bella copia-lavoro (che una volta fu persino proiettata al Filmstudio) si mise in cerca di un produttore che pagasse i debiti dello sviluppo e del montaggio così da poter riscattare tutto il girato. Non lo trovò, il produttore, o forse non trovò quello giusto; fatto sta che al dunque il film non poté essere concluso e la copia lavoro, tutta rigata e scolorita, chissà che fine ha fatto.

Al ritorno da Agnone, a settembre, con Petta vicina a partorire e la situazione politica neanche un po’ più rosea di quando eravamo partiti, ci rimettemmo di nuovo al lavoro col nostro giornale. Il trenta ottobre, alla mezzanotte dell’apice di luna nuova, in una sala parto deserta dell’Ospedale San Giacomo (si dice che solo le streghe nascano nel cuore buio di certe condizioni astrali), dopo venti ore di una sala travaglio dove non mi era consentito neanche affacciarmi, e dopo aver io più e più volte letto al dritto e al rovescio le poche scritte di servizio sparse qua e là nella sala d’attesa, e fumato un ragguardevole numero di sigarette come da copione, infine Petta mise alla luce Serena Luna Amalia, forte dei suoi tre chili e ottocentocinquanta grammi, occhi aperti, molto somigliante al presidente Mao Tse Dong. E così nella comune diventammo dieci.

Una sera di fine novembre del ’70 il poeta non tornò a casa. Era la prima volta, in tanto tempo, e non la prendemmo bene. A informarci dell’accaduto fu il Messaggero del giorno dopo. Un articolo in cronaca di Roma diceva che nel corso di un’operazione antidroga avevano arrestato, tra gli altri, "Aldo Piromalli, senza fissa dimora". Il poeta, il compagno poeta, quindi, non aveva dato l’indirizzo della comune. Lo tennero dentro da dicembre del ‘70 a giugno del ’71 per un grammo e mezzo di hashish. Lo stato italiano, che pure guadagnava lautamente sulla vendita dei ben più dannosi tabacchi e superalcolici, si vendicava della propria misera doppiezza morale colpendo, come al solito, l’innocenza dei più deboli.

Il poeta aveva già conosciuto le istituzioni totali un paio di anni prima quando il suo equilibrio psichico, a seguito di una disavventura amorosa, aveva pesantemente vacillato (lei era di Amsterdam, e non stupisce che in seguito, il poeta, proprio lì abbia stabilito fissa dimora).

A sentire i racconti di quel periodo, a monte delle sue difficoltà esistenziali ci sarebbe stato un profondo dissidio col padre (che pure amava, benché non ne condividesse la mentalità) o comunque con un principio originario duro e violento, impossibile per lui da ereditare perché agli antipodi della sua sensibilità.

Le date della detenzione sono certe perché testimoniate dal secondo inoppugnabile documento in mio possesso: le poesie di Uccello nel guscio, il bel libro di Aldo Piromalli edito da Simone Carella nel novembre del ’71 con una lucida e affettuosa postfazione di Bruno Corà.

A novembre del ’71, però, la comune era, con delicatezza, già finita. Petta e io, vittime dei colpi e contraccolpi di una liberazione sessuale troppo confidenzialmente frequentata, ci eravamo separati (lei, per un suo bisogno di libertà e mobilità, mi aveva lasciato la bambina), e dopo essere rimasto un po’ da solo con Serena nella casa di via Lanza, per conciliare gli impegni paterni con quelli lavorativi ero andato a vivere da mia madre; resa, dalla recente vedovanza, quanto mai ospitale e accogliente.

A marzo del ’72 Serena e io partimmo per la campagna e così, da allora, persi un po’ i contatti con i compagni di Roma. Incontrai di nuovo il poeta nel ’79, a Castel Porziano, durante la sua indimenticabile invettiva "Affanculo" che, se non sbaglio, fu tra i pochi interventi, oltre a quello della Rosselli e di qualcun altro che ora non ricordo, a guadagnarsi l’ascolto del più feroce pubblico mai incontrato.

Vidi per l’ultima volta il poeta a Roma nei primi anni Novanta, a una lettura di poesie in un locale accanto al cinema Labirinto. A differenza di Castel Porziano, quando la tensione per la febbrile atmosfera della serata lo aveva reso un po’ sfuggente, quella volta, invece, riuscimmo a parlarci con affetto, più che ai tempi della comune. Aldo era cambiato fisicamente. Appesantito rispetto alla sciolta magrezza di una volta, cranio calvo e lucido, lunga barba incolta. Non fosse stato per la sua intatta mitezza, impossibile da non cogliere, lo si sarebbe detto un tipo autorevole, di quelli che non si possono non guardare benché, al tempo stesso, un po’ intimidiscano. Doveva venire a dormire da me, quella sera, ma poi un amico gli offrì una casa più vicina della mia a quella dei genitori e così ci salutammo dopo esserci scambiati gli indirizzi. Cominciò a scrivermi quasi subito accennando, con nostalgia, a un possibile ritorno a Roma nel caso avesse trovato di che mantenersi. Allegava alle lettere poesie in cui l’italiano sembrava aver subito una strana trasformazione che lì per lì attribuii alla lunga resistenza tra i suoni di una lingua tanto diversa. A un certo punto del nostro corrispondere ebbi paura delle sue difficoltà. Temevo richieste di aiuto che mi sarebbe stato difficile soddisfare, così smisi di rispondergli. Lui sembrò non accorgersene. Continuò a inviarmi sempre le sue lettere piene di aspre poesie, di disegni che erano una chiara evoluzione di quelli fatti su MADRIA, mi teneva al corrente, "per conoscenza", di querelle burocratiche con questa o quella autorità locale. Non mancava mai di allegare copie di fototessera che lo ritraevano sempre più corpulento, calvo e barbuto, e sulle quali scriveva Aldo Piromalli, italiano.

A tutt’oggi continua a scrivermi. Mi ha raccontato, fra l’altro, di aver subito un’aggressione da parte di qualcuno e di essere stato colpito con violenza alla testa, la sua fragile testa di cui solo lui conosce la delicatezza; di aver preso contatti con una galleria per fare una mostra dei suoi disegni, mostra che poi c’è stata e di cui mi ha mandato l’invito; di aver rifatto un viaggio in Grecia, forse negli stessi posti dove qualcosa di lui si bruciò per sempre quando l’amore lo travolse e gli scrisse, in fondo al destino, la parola Amsterdam.

Ma vorrei chiudere questo ricordo con le parole stesse del poeta, citando per intero una sua poesia scritta a Regina Coeli nell’aprile del ’71 e contenuta in Uccello nel guscio:

A ritrovarmi qui
Dopo mesi
A carezzare questo cielo minuscolo
Quadretti d’azzurro
Passeri delle quattro del mattino
Primavera
Il quartiere della prigione si spoglia della notte
Mi giungono i mormorii della città
Non voglio rincantucciarmi
Impaurito della veglia
Ho da affrontare questo silenzio
Colomba che si riposa
Persiana che sbatte
Squillo del telefono
Non me ne sono andato via
E m’immagino tutto questo
A ritrovarmi qui
Dopo mesi
Detenuto per gli uomini
In attesa di giudici e periti
Con il tempo che mette la coda
Avviticchiato a questo letto
A questa cella
A un compagno che ogni tanto cambia
Sapere dai giornali
Che un giorno tutto non è più così
E che domani ogni cosa è tornata uguale
A ritrovarmi qui
Dopo mesi
Trastevere e la piazza di Santa Maria
Ferrazzoli Bar Tabacchi
Estati e estati sprofondato
Dietro i tavolini
Ho dimenticato cosa vuol dire donna
Fra poco suonerà la campanella
Porteranno pane e latte – andrò avanti anche oggi
Avevo lunghi capelli
Quei miei pantaloni consumati
Quei miei stivali e cintura
Signor brigadiere
A cosa le è servito condurmi qui
Avevo forse fra le mani
La formula per addomesticare il sistema?
Libanese rosso
Vecchi problemi di razza
Roba d’anteguerra
Esseri improduttivi, capelloni…
E ormai più nulla mi tocca
Comincio a morire dietro un uccello intravisto
E per le mie orecchie che gentilezza i vostri stridii.
Voglio scrollarmi di dosso
Questa vecchia pelle
Non credere più alle fate.
Così sono andato all’inferno.

 

[ dal romanzo di Fabio Ciriachi, Uomini che si voltano, Coazinzola Press, Mompeo 2014. ]

 

 

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